La cultura della fretta
Oggi si vive immersi nella “Cultura della Fretta”, come l’ha definita Zygmunt Bauman.
Non si ha il tempo di elaborare la mole sterminata di impulsi ricevuti quotidianamente durante la giornata e spesso ci si limita a eseguire, a barrare le caselle, a fare i “compiti per grandi” senza capire perché.
Mancano anche le energie per domandarsi davvero se tutto questo sia sostenibile e sano, e l’assenza di questi interrogativi sforma l’esistenza.
La vita è liquida perché “non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo”, e così tutto, anche il lavoro finisce col perdere di senso.
Ci si sente indispensabili e allo stesso tempo facilmente smaltibili, operatori usa e getta per la produzione di merci e/o performance. Le settimane lavorative si fanno sempre più piene e i social network finiscono con l’intasare ancora di più lo scarico delle giornate. Si finisce col convivere con gli scarti, propri e altrui. E oggi per molti è impossibile sviluppare un attaccamento al lavoro e instaurare rapporti duraturi con i colleghi, che potrebbero invece liberare le tubature emozionali.
Ma “per evitare frustrazioni, si tende a escludere qualsiasi sentimento di fedeltà al proprio impiego o a legare i propri obiettivi di vita al futuro del posto in cui lavorano”, spiegava Bauman.
E si finisce con l’isolarsi ancora di più, vivendo con l’insensatezza fin dentro le ossa.
Il lavoro si è fatto liquido perché è diventato incontrollabile e inesorabile, un flusso perenne che impedisce la quiete e il respiro. Cominciare col dirselo, col vederlo, è un modo per accorgersi di quanto tutto questo sia inaccettabile e disumano.