Vivere una vita buona
Se devo vivere una vita buona sarà una vita vissuta insieme agli altri, una vita che non può essere chiamata vita senza gli altri. Non perderò questo «io» che io sono; chiunque io sia, verrò trasformato dalle connessioni con gli altri, poiché la mia dipendenza dagli altri e la mia «dipendibilità» sono necessarie a vivere, e a vivere bene”.
Ha scritto così Judith Butler, rendendo plastico quello che per Hannah Arendt significa vivere insieme nel mondo: qualcosa come un tavolo posto tra le persone che vi siedono intorno, che le mette in relazione e nello stesso tempo le separa.
Per Arendt la sfera pubblica, in quanto mondo comune, riunisce insieme e tuttavia impedisce agli esseri umani di cadersi addosso a vicenda.
Se già per lei, nel 1958, il mondo che sta tra loro ha perduto il suo potere di riunirle insieme, di metterle in relazione e di separarle, oggi abbiamo davvero la sensazione di cascarci addosso, di rovesciare le frustrazioni, i dogmi, l’aggressività, l’incapacità di cambiare sguardo sulle altre persone, e che le altre persone ci rovescino addosso le proprie.
L’immagine del tavolo ci aiuta a riconoscere la mancanza di un collante sociale, e se l’idea del cascarsi addosso a vicenda ci permette di vedere cosa rischiamo, è anche vero che né lo spazio fisico né quello digitale si configurano come tavoli a cui sedersi.
Le loro cartografie sono molto più complesse e ramificate, e lo spazio pubblico è un territorio intricato, pieno di insidie, difficilissimo.
Il punto è che non possiamo fare a meno delle altre persone, né negli spazi digitali né in quelli fisici.
Come vivere, allora? Per Butler si tratta di riconoscere chi si è e allo stesso tempo di superare le proprie etichette, la propria identità, e creare alleanze con persone diverse da noi, con cui creare un vincolo di non violenza.
Solo in questo modo sarà possibile vivere una vita buona, cioè una vita vissuta insieme agli altri, nonostante tutto.
Illustrazione di Chiara Fantin