Cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno
“Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” è la risposta fulminante che chiude Le Città Invisibili di Italo Calvino. Ma qual è il contesto in cui è calata?
Kublai Kan e Marco Polo sono alla fine del loro dialogo. Il Gran Kan, dopo aver sfogliato nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni - cioè dopo aver visto gli orrori del futuro - dice a Marco Polo una frase che ricorda da vicino l’Ecclesiaste: “Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”.
È a questa visione che l’esploratore italiano risponde con il discorso sull’inferno, facendogli capire che l’inferno non è un destino futuro, ma una condizione presente dell'essere umano. È già qui, “l’inferno sono gli altri” di Sartre, "che abitiamo tutti giorni, che formiamo stando insieme”, ed è proprio questo il punto di partenza da cui cominciare a costruire.
Ci sono due modi per affrontare l’inferno senza star male, spiega Marco Polo. “Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”. Vivere facendo finta di nulla, adeguandosi, conformandosi all’orrore. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui, perché consiste nel reincantare il mondo coltivandone la meraviglia, imparando a riconoscerla, sforzandosi di darle spazio. Perché anche nell’inferno ci sono sprazzi di paradiso: sta a noi trovarli, espanderli ed abitarli insieme.