Parlare della guerra fa fare i like
Siamo passati dal foodporn al warporn.
Imperano i video di mutilazioni e disastri di guerra che molti ostentano sulle bacheche; le chiacchiere infinite sul dolore altrui, l’utilizzo nei propri post dei corpi di sconosciuti martoriati, di volti feriti, di bambini, vecchi, umani violati e schiacciati sui nostri profili per tenere alto l’hype e aumentare la reach. La strategia che si finge compassione.
Adorno scriveva che la forma più alta di moralità è non sentirsi mai a casa, neanche a casa propria. L’immoralità diffusa online è invece la conseguenza del sentirsi troppo a casa ovunque, sempre a proprio agio nell’orrore, pronti a usare qualsiasi spunto per piangere o deridere, tutto pur di apparire davanti allo sguardo altrui.
Fanno warporn anche quei siti d’informazione che abusano della paura della gente per spingere ad aggiornare compulsivamente la home, scrivendo senza vergogna “abbonati subito per restare sempre aggiornato sulla guerra”.
Dobbiamo parlare di quel che succede, ma parlarne bene, con pudore.
In “Al di là del bene e del male” Nietzsche ha scritto che “l’attrattiva della conoscenza sarebbe minima, se non ci fosse da superare tanto pudore sulla strada che porta a essa”. È cruciale, allora, riappropriarci del pudore quantomeno per poterlo superare, se vogliamo tornare a trovare desiderabile la conoscenza. Altrimenti la vita stessa, che è immensa, diventa una brutta gara al ribasso.