Fare schifo è un dovere morale
Essere obbligati alla felicità significa vivere sia nell’ansia che nell’infelicità. In un tempo in cui tutti devono mostrare un sorriso perenne e capitalizzare su ogni grammo della propria disperazione, fare schifo per conto proprio è un atto necessario.
Ed è affascinante il fatto che la parola “schifo” originariamente fosse un’altra pronuncia di “schivo”, e indicasse chi schivava il peggio. “Fare schifo”, allora, non va letto come una giustificazione a lasciar perdere l’etica e a disinteressarsi degli effetti delle proprie azioni. Impegnarsi a fare schifo vuol dire, piuttosto, staccarsi a forza dagli occhi le lenti performative con cui si guarda al mondo, che fanno leggere tutto quello che succede in chiave di spendibilità e vendibilità, riducendolo a una risposta alla domanda: “Mi fa crescere?”
“Questa giostra vuole il sangue per girare. Fare schifo è quasi un dovere morale”, canta Willie Peyote in “Fare schifo”, tutta dedicata a questo concetto. La giostra in questione è il nostro tempo, gli spazi in cui scriviamo ora, questi confessionali portatili nei quali immoliamo in sacrificio ogni giorno il nostro privato.
Come nella puntata di Black Mirror “Nosedive”, in cui la protagonista riesce a liberarsi dall’ansia di piacere e “crescere” soltanto quando non ha più nulla da perdere, così dobbiamo praticare lo schifo consapevole, che non è accettazione di sé ma è un cercare di star fuori dalle classifiche e dalle categorie.