Il lavoro è una superstizione
Che il lavoro sia un valore in sé è una forma di superstizione moderna, molto più recente di quanto pensiamo e strettamente legata alla società di mercato.
È una storia a cui abbiamo creduto e che sembrava assurdo mettere in dubbio, ma che ogni giorno rivela sempre di più la propria inconsistenza. Del resto, è una bugia utile soltanto a chi si appropria della fatica altrui.
Perché non è il lavoro in sé a liberare o a nobilitare l’umano ma è il fare esperienza, il misurarsi con il mondo attraverso molti modi tra cui un lavoro, che però non sia svilente e permetta di trovare la propria dimora tra gli oggetti.
Spronare i giovani oggi a lavori sottopagati, umiliati, atomizzati, lamentarsi di chi preferisce un reddito universale doveroso a uno sfruttamento disumano è più una forma di vendetta delle vecchie generazioni che un’eredità da raccogliere.
Il lavoro così com’è oggi è un mucchio di rovine del passato che va spazzato via; bisognerebbe lavorare “a” qualcosa, e non soltanto “per” qualcuno. Come ha scritto Arendt in Vita Activa, il pericolo è che la nostra società, “abbagliata dall’abbondanza della sua crescente fecondità e assorbita nel pieno funzionamento di un processo interminabile, non riesca più a riconoscere la propria futilità – la futilità di una vita che non si fissa o si realizza in qualche oggetto permanente che duri anche dopo che la fatica necessaria a produrlo sia passata”.
Solo ricostituendosi come classe lavoratrice, solo svegliandoci dall’incubo che ci vuole “imprenditori di noi stessi” e quindi doppiamente schiavi potremo liberarci dei padroni e mettere il lavoro al suo posto e non al vertice delle nostre vite.