La dolcezza di non avere niente da dire
Non devi per forza dire la tua. Non devi comunicare al mondo ogni tuo pensiero: non ce n’è davvero bisogno.
Piuttosto, rivendica il tuo diritto al silenzio e al segreto.
A questo riguardo c’è un passaggio fulminante in “Pourparler” di Gilles Deleuze, intorno a quelle che lui chiama le “coppie maledette”. Quelle, cioè, in cui uno dei due partner, di fronte a uno stato d’animo particolare dell’altro, magari pensieroso o nostalgico, lo pressa insistentemente chiedendogli di esprimersi, di dire tutto, di raccontarsi subito e su ogni cosa, in una vera e propria inquisizione domestica.
“A volte ci comportiamo come se le persone non potessero esprimersi. Ma, in realtà, non smettono mai di esprimersi. (…) Siamo trafitti da parole inutili, quantità folli di parole e immagini. La stupidità non è mai muta o cieca. Il problema non è più consentire alle persone di esprimersi, ma fornire piccoli intervalli di solitudine e silenzio in cui possano infine trovare qualcosa da dire”.
Abbiamo tutti un bisogno vitale di questi interstizi di vuoto. Siamo travolti da giri immensi di “parole vuote ma doppiate”, triplicate, centuplicate, in una ripetizione infinita delle stesse frasi: il fenomeno delle frasi doppiate sui social è un indice del problema, in cui tutti prestano il proprio volto a un singolo tormentone.
Ci si sente liberi in questa iper-espressione, che in realtà è soltanto una forma raffinata di censura.
Prosegue infatti Deleuze: “Le forze della repressione non impediscono alle persone di esprimersi, anzi le costringono ad esprimersi”.
Bisognerebbe allora, spiega il filosofo francese, imparare ad assaporare di nuovo la “dolcezza di non avere niente da dire, il diritto di non avere niente da dire”, perché è soltanto a partire da quell’impotenza che può nascere “qualcosa di raro o rarefatto, che meriti davvero di essere detto”.