Reimpostare a fermarsi di fronte al dolore
Ieri eravamo sul treno che collega Pesaro a Bologna. Veniamo a sapere che un ragazzo si era gettato sui binari più avanti ed erano quindi previsti almeno centoventi minuti di ritardo. Ci spiegano che si trattava della seconda persona a compiere quel gesto, su quella tratta, in poche ore.
A quel punto cominciano sul treno le Olimpiadi della crudeltà.
Al terzo posto, una signora campana sulla sessantina: “Ma perché buttarsi sotto un treno? Perché non andarsene senza dare fastidio alla gente? Non ci pensano?”
Al secondo posto, un ragazzo romagnolo: “Io se ero il guidatore ci passavo sopra avanti e indietro con soddisfazione e risolvevo il problema” (seguono risate).
Al primo posto, un romano sulla cinquantina che ha risposto alla signora campana: “Uno così stronzo meno male che è morto”.
A colpire non è il fatto che lo pensino. Fa impressione che lo dicano. È preoccupante che non ci siano i freni del pudore, che ci si senta giustificati a esprimere i propri pensieri più oscuri senza preoccuparsi del giudizio altrui: si è convinti che tutti siano altrettanto sprovvisti di empatia. Spaventa il fatto che di fronte alla tragedia di uno sconosciuto ci si senta liberi di sbuffare ad alta voce per i propri piani saltati.
È uno degli effetti peggiori della “compassion fatigue”, che a sua volta è una delle conseguenze dell’infodemia. Drogati di informazioni, di allarmi e violenze sparate dai media, si vive un esaurimento emotivo e fisico che porta a una ridotta capacità di entrare in empatia e provare compassione per gli altri. Assuefatti all’idea di un altro che soffre, non proviamo più nulla se non quello che ci riguarda direttamente.
Ma se vogliamo restare umani non possiamo mai dare per scontato l’orrore e il dolore. È cruciale, ogni volta, fermarsi.