Il Tamagotchi prototipo di dipendenza sociale dello Smartphone
Ricordate il Tamagotchi? Il gioco che spopolò in tutto il mondo negli anni Novanta e Duemila: una console in miniatura a forma di piccolo uovo con tre pulsanti, sul cui schermino appariva un animaletto - il virtual pet - che andava costantemente nutrito e intrattenuto, e di cui bisognava pulire le feci virtuali, pena la morte. Da bambino non conoscevo la differenza tra AM e PM, e per questo passai diverse notti insonni a vegliare sulla bestiolina digitale. Fu così che fortunatamente smisi di usarlo per sempre.
Vale la pena ricordare che i creatori del Tamagotchi vinsero nel 1997 il premio Ig Nobel per l'economia «per aver dirottato le ore lavorative di milioni di persone nell'allevamento di animaletti virtuali». Capaci di generare una dipendenza clamorosa, furono sostanzialmente sostituiti dalla loro evoluzione diretta, ossia altri oggetti con pulsanti e schermo chiamati volgarmente “Smartphone”, simulatori di vita in cui l’animaletto virtuale di cui prendersi cura è… il giocatore stesso.
A guardarlo bene, possiamo dire che il Tamagotchi fu un allenamento di massa a quella simulazione esistenziale che caratterizza oggi le nostre giornate.
Passiamo gran parte del nostro tempo a curare mostri virtuali a cui diamo sostanza attraverso la nostra attenzione: i profili che gestiamo e guardiamo ogni giorno sono l’evoluzione diretta e condivisa di quella simulazione, con la differenza che quelli dentro la cornice siamo noi, a contatto con altri umani-Tamagotchi e le loro feci sterminate.
Del resto, parafrasando Nietzsche, chi gioca con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un Tamagotchi, anche il Tamagotchi scruterà dentro di te.
[Immagine di Emile Holmewood]