Cesare Cremonini
«Mio padre faceva il medico. Se n’è andato l’anno scorso, a 95 anni. Mia mamma ne ha trenta meno di lui. Si è laureata in lettere, passava le giornate a disegnare e a fare composizioni floreali; il coté artistico, quasi frivolo, mi viene da lei. A San Valentino rubavo qualche banconota dal portafoglio di papà e facevo regalini a tutte le compagne di scuola».
«A sei anni arrivò il pianoforte. A otto suonavo Mozart, Chopin, Beethoven: prima ancora di capire cosa fossero le emozioni, la solitudine, la disperazione, la paura, l’amore, avevo già gli strumenti che ne parlavano. Ma la consuetudine ai grandi crea anche sconforto: perché ti fa sentire inadempiente. E inizia la ricerca ossessiva del miglioramento».
Poi i suoi si separarono.
«Papà era uscito di casa. Trovai mamma che piangeva, chiesi perché. Rispose: è un segreto. Dissi: se ti fa piangere, lascialo. Il giorno dopo lo lasciò. Era andata la notte sui colli, per restare un po’ sola, e aveva deciso di cambiare la sua vita. Ora abbiamo un rapporto meraviglioso».
«Vespe truccate, Anni Sessanta...».
«Credo che il segreto di quella canzone sia nelle prime quattro parole, nell’assenza degli articoli. Negli Anni 90 coltivavamo il gusto del retrò: avevamo i cantautori, che sono immortali, ma anche i Beatles e i Beach Boys. La nostalgia più profonda è per quello che non si è vissuto. Fu un’epoca straordinaria, in cui sono nati i fenomeni che restano i protagonisti ancora oggi, da Fiorello a Jovanotti. E poi mi piaceva scrivere il rock in italiano. Per questo in tv ci siamo trovati bene con Celentano, insieme abbiamo cantato La Festa, una canzone degli anni 60: “Dai attacca il giradischi...».
Cosa significa diventare un divo a 19 anni?
«Violavamo tutte le regole dello spettacolo. Entravamo nei camerini altrui a rubare la biancheria intima delle star per regalarla agli amici. Organizzavamo feste invitando le ragazze incontrate per strada. Non vidi mio padre e mia madre per due anni. Fu la scoperta del sesso. E dell’Italia, della sua immensa provincia. Il bassista, Nicola “Ballo” Balestri, era minorenne e non poteva andare alle serate promozionali senza l’autorizzazione dei genitori; una sera si gettò dalla finestra di casa con l’ombrello, come Mary Poppins. Finì in ospedale».
È vero che sulla carta di identità, alla voce professione, lei fece scrivere «clown?».
«Il successo può indebolirti: ingelosisce chi ti ama, spesso rende peggiore chi ti circonda. Solo un pagliaccio poteva sopravvivere a un cambiamento così grande. Per questo mi colorai i capelli di rosso».
Dopo il successo viene il momento in cui, come scrive, «la follia nella linfa dei tuoi avi prende il sopravvento».
«È una patologia ossessiva. Una faglia nel Dna, una palla incandescente che ci passiamo di mano in mano: a qualcuno tocca, a qualcuno no. Ma non voglio parlare di loro. Non si uccidono i morti».
Cosa le accadde?
«C’è una canzone, Nessun vuol essere Robin, per la quale ho rischiato la vita. Come mi disse lo psichiatra: una pallottola mi ha sfiorato».
Perché andò dallo psichiatra?
«Per accompagnare un’altra persona. Poi gli raccontai di me, di quel che provavo. I sintomi crescenti».
Quali sintomi?
«La sensazione fisica di avere dentro di me una figura a me estranea. Quasi ogni giorno, sempre più spesso, sentivo un mostro premere contro il petto, salire alla gola. Mi pareva quasi di vederlo. E lo psichiatra me lo fece vedere. L’immagine si trova anche su Internet (qui). “È questo?”, chiese. Era quello».
Com’era fatto?
«Braccia corte e appuntite, gambe ruvide e pelose. La diagnosi era: schizofrenia. Percepita dalla vittima come un’allucinazione che viene dall’interno. Un essere deforme che si aggira nel subconscio come se fosse casa sua».
Com’era potuto accadere?
«Venivo da due anni di ossessione feroce per la musica. Sempre chiuso in studio, anche la domenica. Smisi di tagliarmi la barba e i capelli».
È vero che mangiava solo pizze? Due a pranzo e una a cena?
«A volte due pizze pure a cena. Superai i cento chili. Non facevo più l’amore, se non da ubriaco. Avevo smesso qualsiasi attività fisica».
Quale cura ha fatto?
«Lo psichiatra mi chiese cosa mi faceva sentire meglio. Risposi: camminare. Non lavorare; il lavoro era la causa. La cura era camminare».
Ha preso anche farmaci?
«Cose leggere, di cui non parlo per rispetto a chi ha dovuto fare cure farmacologiche pesanti. Ho camminato per centinaia di chilometri. Ho scoperto i sentieri di collina. E mi sono ribellato all’eccesso di attenzione per tutto quel che proviamo, all’idea impossibile di poter esprimere ogni cosa, di comunicare questa slavina di emozioni da cui siamo colpiti».
E adesso?
«Quando sento il mostro borbottare, mi rimetto in cammino. Su una collina, in montagna. Sono tornato dallo psichiatra alla fine del primo tour negli stadi. Mi ha chiesto se vedevo ancora i mostri. Gli ho risposto di no, ma che ogni tanto li sento chiacchierare. E lui: “Let them talk”».
Lasciali parlare. Il titolo del suo libro.
«Un’esperienza vissuta e superata».
Da un'intervista di Aldo Cazzullo a Cesare Cremonini-
per il Corriere della Sera