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Capitolo XXIX

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I Promessi Sposi
 · 5 years ago
 <br>F. M. Compagnoni, La calata dei lanzichenecchi
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F. M. Compagnoni, La calata dei lanzichenecchi

"Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che
si sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell'esercito, del suo avvicinarsi e de' suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento.
Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquantamila;
son diavoli, sono ariani, sono anticristi;
hanno saccheggiato Cortenuova;
han dato fuoco a Primaluna: devastano Introbbio,
Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio;
domani son qui: tali eran le voci che passavan
di bocca in bocca; e insieme un correre,
un fermarsi a vicenda, un consultare tumultuoso,
un'esitazione tra il fuggire e il restare,
un radunarsi di donne, un metter le mani ne' capelli..."

Personaggi: Agnese, don Abbondio, Perpetua, l'innominato, il sarto, sua moglie e la sua famiglia

Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, il paese del sarto, la strada verso il castello dell'innominato

Tempo: Autunno 1629

Temi: La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere, La peste

Trama: Calata dei lanzichenecchi in Lombardia. Agnese propone a don Abbondio e Perpetua di rifugiarsi al castello dell'innominato. Viaggio dei tre verso il confine col Bergamasco. Il sarto e la sua famiglia ospitano il curato e le due donne. I tre giungono in vista del castello


F. Gonin, Don Abbondio spaventato
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F. Gonin, Don Abbondio spaventato

Don Abbondio in preda alla paura


Le notizie dell'arrivo dei lanzichenecchi nel territorio di Lecco e delle loro scorrerie si spargono in un baleno e giungono ben presto anche al paese di don Abbondio, dove il curato è in preda a un autentico terrore. L'uomo vorrebbe fuggire, ma non sa che partito prendere: i monti non sono sicuri, poiché i lanzichenecchi arrivano anche lì nella speranza di far bottino, il lago è in tempesta e le poche barche disponibili sono già partite cariche di gente, col pericolo di affondare. Non ci sono carri o calessi in paese e don Abbondio a piedi non potrebbe far molta strada; il territorio di Bergamo non sarebbe lontano, ma si sa che il confine è presidiato da uno squadrone di mercenari inviati dal governo di Venezia e dunque quella direzione non è sicura. Don Abbondio cerca inutilmente di consigliarsi con Perpetua, la quale dal canto suo è indaffarata a nascondere gli oggetti di valore in vista di una prossima fuga e mal sopporta la paura e l'irresolutezza del suo padrone. La donna è decisa ad andarsene al più presto e a trascinare con sé il curato, il quale non sa far di meglio che affacciarsi alla finestra e rivolgersi ai compaesani che lasciano il borgo carichi della loro roba, rimproverandoli perché non si preoccupano di lui e non lo aiutano a sfuggire ai lanzichenecchi. I passanti non gli badano, oppure si limitano a suggerirgli di ingegnarsi per salvare la pelle, non avendo tra l'altro una famiglia a cui badare.


 <br>F. Gonin, Don Abbondio e i compaesani
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F. Gonin, Don Abbondio e i compaesani

Proposta di Agnese a don Abbondio e Perpetua

Don Abbondio torna a lamentarsi con Perpetua, la quale per tutta risposta gli ordina di andare a prendere il denaro perché lei possa sotterrarlo nell'orto insieme all'argenteria. Il curato, pur titubante, obbedisce e poco dopo la donna ripone in una gerla delle provviste e della biancheria, risoluta ad andare in strada per unirsi ai compaesani nella fuga. In quel momento entra in casa Agnese per fare una proposta importante: la donna è in angustie per via dei lanzichenecchi, tanto più che ha ancora con sé parecchi degli scudi avuti a suo tempo dall'innominato e teme perciò sia gli invasori stranieri, sia le insidie dei compaesani (Agnese, che tiene i danari cuciti nel busto, non ne ha parlato a nessuno fuorché a don Abbondio). Si rammenta che l'innominato le aveva promesso aiuto in caso di bisogno e il suo castello sarebbe un rifugio perfetto dove trovare riparo dalle scorrerie; don Abbondio potrebbe aiutarla a farsi riconoscere dall'ex-bandito, per cui la donna propone al curato e a Perpetua di unirsi a lei nel viaggio verso il confine col Bergamasco, dove sorge l'inespugnabile fortezza dell'innominato. La proposta viene accolta con entusiasmo da Perpetua, che fuga i dubbi del padrone e lo esorta a mettersi subito in cammino, anche se il curato dapprima teme di andarsi a cacciare in una trappola, poi vorrebbe trovare un uomo che accompagnasse lui e le due donne nel cammino. Perpetua taglia corto e gli ordina di prendere breviario e bastone, dopodiché i tre possono uscire di casa e mettersi in viaggio. Nel passare accanto alla chiesa don Abbondio pensa che tocca al popolo custodirla, perciò se i compaesani non avranno il cuore di farlo sarà un problema loro.

F. Gonin, Il curato e le donne in cammino
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F. Gonin, Il curato e le donne in cammino

I tre in viaggio verso il confine col Bergamasco


Don Abbondio, Perpetua e Agnese si mettono in cammino tagliando in silenzio per i campi, con il curato sempre in ansia e attento a ogni segnale di pericolo: per i sentieri non c'è nessuno, poiché tutti sono intenti a scappare o chiusi in casa in attesa dei Lanzichenecchi. Dopo pochi passi don Abbondio inizia a borbottare tra sé, prendendosela con i potenti come il duca di Nevers, l'imperatore, il governatore di Milano, che invece di volere la guerra a tutti i costi dovrebbero badare al popolo, destinato a patire le conseguenze dei loro atti. Perpetua lo invita a non perdersi in chiacchiere e intanto rammenta che nella fretta ha dimenticato di nascondere in casa molte cose, subendo i rimproveri di don Abbondio e rimbrottandolo a sua volta per non averla minimamente aiutata in quei frangenti così delicati. Agnese, dal canto suo, si rammarica dei suoi guai, specie del fatto che il progetto di riabbracciare Lucia è svanito, poiché è impensabile che donna Prassede venga in villeggiatura in quei luoghi da cui tutti vogliono andarsene. Ben presto appare all'orizzonte il paese del sarto che sorge vicino al castello dell'innominato, per cui Agnese propone di andare a salutare l'uomo e la sua famiglia che a suo tempo avevano ospitato lei e Lucia. Don Abbondio accetta a patto di non trattenersi più del dovuto, giacché non sono certo in viaggio per divertimento.

 <br>F. Gonin, Don Abbondio e le donne a casa del sarto
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F. Gonin, Don Abbondio e le donne a casa del sarto

I tre arrivano a casa del sarto

Il sarto e la sua famiglia riservano a don Abbondio e alle due donne una calorosissima accoglienza, specie ad Agnese che si abbandona a un pianto dirotto tra le braccia della moglie dell'uomo, rispondendo alle molte domande su Lucia. Il curato rivela il loro progetto di rifugiarsi al castello dell'innominato, cosa che il sarto approva in quanto quel luogo è sicuro; lui e la sua famiglia non dovrebbero correre pericoli, dal momento che il paese è troppo lontano dalla strada dei lanzichenecchi. L'uomo invita i tre a pranzo e manda la figlia a prendere delle castagne, mentre i ragazzi sono inviati a procurarsi nell'orto delle pesche e dei fichi. Ben presto si apparecchia in tavola e al curato viene riservato un posto d'onore, con un piatto e una posata che Perpetua tira fuori dalla sua gerla. La donna offre al padrone di casa alcune delle provviste che ha portato con sé e il gruppo inizia a pranzare con una certa serenità, quale nessuno avrebbe pensato provare in quel giorno di angustie.

 <br>F. Gonin, Pranzo in casa del sarto
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F. Gonin, Pranzo in casa del sarto

Pranzo in casa del sarto. L'innominato e il cardinale


Il sarto scambia alcune chiacchiere con don Abbondio circa la guerra e osserva che il castello dell'innominato è un luogo sicuro, anche perché vi si sono rifugiate già molte persone. Il curato chiede conferma del fatto che la conversione dell'ex-bandito si mantenga viva e il sarto lo tranquillizza circa il fatto che ormai l'innominato vive come un santo, esempio e benefattore di tutta la regione, mentre la maggior parte dei suoi bravi ha lasciato il castello e i pochi rimasti si sono adattati alla nuova vita del padrone. Dopo pranzo il sarto parla con Agnese del cardinal Borromeo, che entrambi hanno incontrato di persona (l'uomo è ancora rammaricato di non aver fatto una figura brillante al cospetto del prelato), quindi mostra alla donna una stampa raffigurante Federigo, che però a suo dire non gli somiglia molto e Agnese è d'accordo con lui. Il curato ha fretta di ripartire e il sarto si offre di procurare un calesse che conduca lui e le due donne ai piedi della salita per il castello, proponendo anche a don Abbondio di portare con sé qualcuno dei suoi libri per passare il tempo. Il curato rifiuta, dicendo che in questi tempi riesce solamente a leggere il breviario, quindi arriva il calesse e i tre ci salgono sopra, non prima di avere scambiato una serie di affettuosi saluti col sarto e la sua famiglia. Dopo essersi congedati dai loro ospiti, i tre si accingono a compiere l'ultimo tratto di strada verso il castello.

G. Bagnoli, L'innominato (1872)
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G. Bagnoli, L'innominato (1872)

La vita dell'innominato dopo la conversione

Il sarto non ha mentito a don Abbondio circa la nuova vita dell'innominato, il quale dal giorno della conversione non ha cessato dal compiere opere buone: l'ex-bandito rinuncia a portare con sé armi e si ripromette di non commettere più alcuna violenza, né per difendersi e tanto meno per punire le prepotenze altrui. Nondimeno l'uomo non subisce alcuna ritorsione, dal momento che l'antica ammirazione per la sua ferocia e la sua ribalderia ha lasciato il posto a quella suscitata ora dalla sua mansuetudine: il fatto che quell'uomo grande e temuto si sia umiliato da sé suscita rispetto in tutti gli altri, compresi coloro che avevano giurato vendetta contro di lui e che adesso, vedendolo inerme e resosi da sé un facile bersaglio, rinunciano a qualunque ritorsione ai suoi danni. L'innominato è poi circondato da una fama quasi di santo per via del suo pentimento ed è fatto oggetto di una certa venerazione da parte del popolo, del quale è diventato un benefattore: egli è però sempre attento a non vantarsi di nulla, in chiesa si riserva l'ultimo posto, tutti lo rispettano in quanto fargli del male potrebbe apparire addirittura sacrilego. Per gli stessi motivi la giustizia rinuncia a qualunque azione contro di lui, sia in virtù del suo lignaggio e delle parentele altolocate, sia in quanto il potere giudiziario è fin troppo impegnato nel contrastare altri potenti malfattori ed è quindi felicissimo di non doversi più preoccupare di quell'uomo un tempo tanto temibile e ribaldo. Inoltre sarebbe inopportuno infierire su di lui ora che è redento, mentre non si è stati in grado di tenerlo a bada quando era scellerato, tanto più che nella sua clamorosa conversione ha avuto parte non piccola un sant'uomo come il cardinal Borromeo (il potere temporale e quello spirituale sono per una volta ben lieti di arrivare a un compromesso). Se l'innominato fosse caduto per mano di altri avrebbe certo subìto gli oltraggi di molti, ma ora che si è prostrato a terra di sua volontà riceve gli omaggi e il rispetto di tutto il mondo.

Le armi dell'innominato (ediz. 1840)
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Le armi dell'innominato (ediz. 1840)

L'innominato e gli antichi complici


Naturalmente la conversione dell'innominato ha irritato molte persone, specie coloro che facevano assegnamento su di lui come esecutore di delitti e quelli che avevano avviato delle trame criminose destinate a non essere portate a termine. Tuttavia anche da parte loro nasce più che altro stizza e fastidio, non odio o disprezzo verso l'ex-bandito, mentre è inevitabile che gli antichi complici riversino questi sentimenti contro il cardinal Borromeo che di quella conversione è stato il principale artefice. I bravi dell'innominato hanno in gran parte lasciato il suo castello, non approvando la nuova vita del padrone, passando al servizio degli ex-mandanti del bandito, oppure arruolandosi come mercenari in qualche reggimento militare, o ancora facendo i ladroni da strada per sopravvivere. Quelli che invece hanno abbracciato il nuovo corso, per così dire, sono tornati a fare i contadini o gli antichi mestieri (specie i nativi della valle), mentre i forestieri sono rimasti al castello come servitori del padrone, entrambi guardati con lo stesso rispetto e la stessa benevolenza con cui viene ora trattato l'innominato.

 <br>F. Gonin, L'innominato dà rifugio al suo castello
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F. Gonin, L'innominato dà rifugio al suo castello

Il castello dell'innominato come rifugio dai lanzichenecchi

Quando poi iniziano le scorrerie delle soldatesche germaniche nella regione molte persone capitano al castello per chiedere ricovero e l'innominato glielo concede volentieri, specie perché ora tutti guardano la fortezza come baluardo e difesa, mentre un tempo essa era simbolo di paura e dominio. L'uomo, anzi, fa spargere la voce che chi volesse rifugiarsi lì contro i lanzichenecchi sarebbe il benvenuto, quindi prende ogni precauzione per presidiare l'intera valle contro arrivi non graditi; raduna i pochi bravi rimasti al suo servizio e li istruisce su come difendere il luogo, senza spaventare coloro che vi si sono rifugiati. Distribuisce a tutti le armi da fuoco che giacciono da tempo inutilizzate in una soffitta del castello e invita tutti i volenterosi a presentarsi armati alla fortezza per difenderla, organizzando poi turni di guardia e di sentinella come ai tempi in cui in quel luogo si progettavano ed eseguivano delitti. Nella soffitta rimangono solo le armi che l'innominato aveva portate personalmente e delle quali non vuole prendere nessuna, determinato a restare disarmato pur alla testa di un nuovo piccolo esercito. Nello stesso tempo dà disposizioni a donne e servitori di allestire stanze e dormitori nel castello per dare alloggio ai rifugiati, facendo poi arrivare abbondanti provviste per sfamare i nuovi arrivati che, infatti, affluiscono sempre più numerosi per sfuggire ai saccheggi. L'innominato non sta mai fermo ed è sempre intento a ispezionare i posti di guardia, a infondere coraggio ai difensori, ad accogliere benevolmente i rifugiati, i quali lo osservano con ammirazione e rispetto per il suo passato e l'autorevolezza che tuttora ispira.

Temi principali e collegamenti

- Il capitolo forma una sorta di "dittico" con quello seguente e racconta principalmente il viaggio di don Abbondio, Perpetua e Agnese verso il castello dell'innominato, per sfuggire ai lanzichenecchi che si abbandonano a saccheggi e atrocità in Lombardia (la vicenda storica è stata riassunta nella digressione del cap. XXVIII). I tre protagonisti sono gli unici personaggi principali ad apparire nei capp. XXIX-XXX, per cui la narrazione torna ad occuparsi delle vicende romanzesche dopo la parentesi storica che ha interamente occupato il cap. precedente.

- Durante la prima parte del viaggio don Abbondio impreca contro i potenti del mondo, rei ai suoi occhi di attirare flagelli sulla povera gente per "il gusto di far la guerra" mentre "ne va di mezzo chi non ci ha colpa": è il consueto risvolto comico ed egoistico del curato che si vede costretto a fuggire dalla propria casa, ma è anche il punto di vista di un umile che non capisce il fine di una guerra nata da futili motivi dinastici, che causerà mali terribili alla popolazione (non ultima la peste portata dai soldati tedeschi). Non a caso lo scrittore, dopo la digressione storica del cap. XXVIII, ci mostra adesso le conseguenze del conflitto sui contadini e sul popolo inerme, rovesciando come al solito la prospettiva della storiografia ufficiale che badava esclusivamente ai personaggi potenti e ai grandi eventi politici e militari. Per approfondire: U. Dotti, Guerra, fame, peste.

- Ritorna nel romanzo il sarto del paese vicino al castello dell'innominato, già visto in occasione della liberazione di Lucia (capp. XXIV ss.): l'uomo si mostra ancora una volta un ospite generoso ed accoglie i nuovi arrivati alla sua tavola come aveva fatto con Lucia e la madre, riservando in questa occasione un trattamento speciale al curato in quanto personaggio di riguardo. Curioso il fatto che qui i figli del sarto diventino "una bambina" e due ragazzi, mentre nel cap. XXIV erano "due bambinette e un fanciullo" (si tratta certamente di una svista del grande romanziere).

- Il sarto ancora ricorda con imbarazzo la figura poco brillante fatta a suo tempo con il cardinale, quando aveva risposto con un insulso "Si figuri!" alle richieste del prelato (cap. XXIV), per cui non rinuncia a sfoggiare la sua cultura libresca con don Abbondio: i lanzichenecchi non dovrebbero venire, dice, in ospitazione da quelle parti (il termine, secentesco, indica l'alloggiamento delle soldatesche), la guerra gli ricorda "la storia de' mori in Francia" (il riferimento è ai romanzi cavallereschi citati nel cap. XXIV), il castello dell'innominato è diventato, dopo la conversione del bandito, una "Tebaide" (la regione storica dell'Egitto sede nell'antichità di molti eremiti). L'uomo si vanta anche ingenuamente di aver conosciuto di persona lo stesso Borromeo, osservando che il ritratto del cardinale sulla stampa non è molto somigliante.

- La seconda parte del capitolo è occupata dalla descrizione della nuova vita dell'innominato dopo la clamorosa conversione, improntata alla carità e alla benevolenza verso il prossimo e assolutamente refrattaria all'uso della violenza. L'autore dà anche conto del fatto che la giustizia rinunci a perseguire l'ex-bandito per i passati delitti, nonché dei rapporti con gli antichi complici di scelleratezze (sul punto si veda oltre).

 <br>A. Guardassoni, La conversione dell'Innominato
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A. Guardassoni, La conversione dell'Innominato

Il pentimento dell'innominato, vicenda tragica e inattuale

Il tema della giustizia negata ai poveri caratterizza buona parte del romanzo e Manzoni sottolinea varie volte le storture del sistema giudiziario del Seicento, incapace di applicare le leggi e di garantire la punibilità dei delitti e, paradossalmente, pronto ad accusare a torto degli innocenti (la vicenda di Renzo nel tumulto di S. Martino e degli untori durante la peste lo dimostrano), tuttavia c'è una vicenda di impunità che rappresenta una vistosa eccezione rispetto a questa polemica e si tratta della conversione dell'innominato. La parabola personale del bandito è di ravvedimento religioso e sincero pentimento per i delitti commessi, nonché esempio straordinario di come la Provvidenza divina possa toccare il cuore degli uomini più scellerati, tuttavia dopo la conversione l'uomo non viene chiamato a rispondere dei crimini compiuti davanti alla legge e ciò stride fortemente con la sensibilità del lettore moderno, che vede nella sua vicenda qualcosa di inattuale e di inaccettabile in base all'idea contemporanea di giustizia. Lo stesso autore affronta la questione nel cap. XXIX, quando, descrivendo la nuova vita dell'ex-bandito, spiega che il potere giudiziario rinuncia volutamente a perseguirlo e si accontenta di saperlo inoffensivo a differenza di altri criminali, mentre sembrerebbe strano infierire su di lui ora che è redento quando non era stato possibile fermarlo in passato; riemerge il tema della giustizia impotente e incapace di far rispettare la legge, salvo che in questo caso la cosa viene tollerata e spiegata, in parte, col carattere eccezionale e inatteso della conversione religiosa del bandito, nella quale ha giocato un ruolo importante un sant'uomo come il cardinal Borromeo. Resta comunque il fatto che l'innominato non paga per i delitti commessi e, soprattutto, si guarda bene dal denunciare i suoi antichi complici e mandanti di assassinî, che dunque possono continuare indisturbati la loro opera criminale: la cosa vale in fondo anche per don Rodrigo, la cui trama per rapire Lucia è stata svelata a tutti e che pure resta indisturbato nel suo palazzotto, andando via solo per non dover incontrare Borromeo (ed è improbabile che il cardinale, in occasione di un faccia a faccia, gli muoverebbe accuse per la grave azione commessa). L'innominato, per dirla in termini attuali, si pente di fronte a Dio e si ravvede sul piano spirituale, ma ottiene la più completa impunità sul piano della legge degli uomini e ciò senza neppure diventare un "collaboratore di giustizia", senza svelare cioè quella trama di delitti in cui aveva avuto una larga parte e che potrebbe, forse, essere fermata con il suo intervento. L'aspetto religioso spiega la cosa solo in parte e per capire la prospettiva dell'autore occorre tener presente, da un lato, la sua visione aristocratica della società, dall'altro la concezione tragica dell'esistenza che caratterizza molte vicende del romanzo, che appaiono perciò assai lontane dal nostro modo di pensare: Bernardino Visconti è nobile, appartiene a una classe sociale superiore che non ha nulla a che spartire con i poveri, è un "eroe tragico" protagonista di una vicenda unica e irripetibile attraverso la quale Dio ha voluto usare la Sua misericordia facendo di lui un esempio per tutti gli uomini; è ovvio che, per Manzoni, l'innominato non possa essere processato da un qualunque tribunale terreno, poiché la partita della sua salvezza si gioca sul piano spirituale ed egli dovrà rispondere delle sue azioni davanti al tribunale di Dio nell'altra vita, essendo in questa un semplice esempio della grazia divina e della Provvidenza. Ciò fa capire la distanza della visione manzoniana da quella attuale e, come già nei rimproveri del cardinale a don Abbondio (si veda l'approfondimento del cap. XXV), appare chiaro che per l'autore nobili e umili appartengono a mondi diversi che prevedono una diversa applicazione della giustizia: essa non può essere uguale per tutti per il semplice motivo che, secondo Manzoni, non tutti sono uguali, dunque la sua polemica contro la giustizia negata va letta nel senso che i potenti devono astenersi dal compiere soprusi nei confronti degli umili, ma quando ciò avviene è quasi impensabile che la legge colpisca con severità e pene esemplari i nobili, come in fondo l'impunità di don Rodrigo e dell'innominato dimostrano ampiamente (due casi molto diversi, certo, ma simili nella mancata applicazione della legge). Su questo piano la distanza del romanzo dal nostro sistema di valori resta incolmabile, anche se va ricordato che ancora oggi l'effettiva uguaglianza delle leggi per tutti i cittadini resta un aspetto problematico e che l'argomento è tuttora oggetto di discussione fra giuristi e uomini politici, specie quando a incappare nei rigori della legge sono imputati "eccellenti" (con la differenza che oggi la risposta può venire solo dalle leggi e da una maggiore equità in campo giudiziario, non certo da un modello sociale stratificato e diviso in classi come al tempo di Manzoni, né tanto meno da una visione tragicamente letteraria della vita umana).

Qui, tra i poveri spaventati troviamo persone di nostra conoscenza.
Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell’esercito, del suo avvicinarsi, e de’ suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento. Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna: devastano Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio [1]; domani son qui: tali eran le voci che passavan di bocca in bocca; e insieme un correre, un fermarsi a vicenda, un consultare tumultuoso, un’esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne, un metter le mani ne’ capelli. Don Abbondio, risoluto di fuggire, risoluto prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili, e pericoli spaventosi. - Come fare? - esclamava: - dove andare? - I monti, lasciando da parte la difficoltà del cammino, non eran sicuri: già s’era saputo che i lanzichenecchi vi s’arrampicavano come gatti, dove appena avessero indizio o speranza di far preda. Il lago era grosso; tirava un gran vento: oltre di questo, la più parte de’ barcaioli, temendo d’esser forzati a tragittar soldati o bagagli, s’eran rifugiati, con le loro barche, all’altra riva: alcune poche rimaste, eran poi partite stracariche di gente; e, travagliate dal peso e dalla burrasca, si diceva che pericolassero ogni momento. Per portarsi lontano e fuori della strada che l’esercito aveva a percorrere, non era possibile trovar né un calesse, né un cavallo, né alcun altro mezzo: a piedi, don Abbondio non avrebbe potuto far troppo cammino, e temeva d’esser raggiunto per istrada. Il territorio bergamasco non era tanto distante, che le sue gambe non ce lo potessero portare in una tirata; ma si sapeva ch’era stato spedito in fretta da Bergamo uno squadrone di cappelletti [2], il qual doveva costeggiare il confine, per tenere in suggezione i lanzichenecchi; e quelli eran diavoli in carne, né più né meno di questi, e facevan dalla parte loro il peggio che potevano. Il pover’uomo correva, stralunato e mezzo fuor di sé, per la casa; andava dietro a Perpetua, per concertare una risoluzione con lei; ma Perpetua, affaccendata a raccogliere il meglio di casa, e a nasconderlo in soffitta, o per i bugigattoli, passava di corsa, affannata, preoccupata, con le mani e con le braccia piene, e rispondeva: - or ora finisco di metter questa roba al sicuro, e poi faremo anche noi come fanno gli altri -. Don Abbondio voleva trattenerla, e discuter con lei i vari partiti; ma lei, tra il da fare, e la fretta, e lo spavento che aveva anch’essa in corpo, e la rabbia che le faceva quello del padrone, era, in tal congiuntura, meno trattabile di quel che fosse stata mai. - S’ingegnano gli altri; c’ingegneremo anche noi. Mi scusi, ma non è capace che d’impedire. Crede lei che anche gli altri non abbiano una pelle da salvare? Che vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche dare una mano, in questi momenti, in vece di venir tra’ piedi a piangere e a impicciare -. Con queste e simili risposte si sbrigava da lui, avendo già stabilito, finita che fosse alla meglio quella tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di strascinarlo su per una montagna. Lasciato così solo, s’affacciava alla finestra, guardava, tendeva gli orecchi; e vedendo passar qualcheduno, gridava con una voce mezza di pianto e mezza di rimprovero: - fate questa carità al vostro povero curato di cercargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino. Possibile che nessuno mi voglia aiutare! Oh che gente! Aspettatemi almeno, che possa venire anch’io con voi; aspettate d’esser quindici o venti, da condurmi via insieme, ch’io non sia abbandonato. Volete lasciarmi in man de’ cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio? Oh che gente! Oh che gente!
Ma a chi diceva queste cose? Ad uomini che passavano curvi sotto il peso della loro povera roba, pensando a quella che lasciavano in casa, spingendo le loro vaccherelle, conducendosi dietro i figli, carichi anch’essi quanto potevano, e le donne con in collo quelli che non potevan camminare. Alcuni tiravan di lungo, senza rispondere né guardare in su; qualcheduno diceva: - eh messere! faccia anche lei come può; fortunato lei che non ha da pensare alla famiglia; s’aiuti, s’ingegni.
- Oh povero me! - esclamava don Abbondio: - oh che gente! che cuori! Non c’è carità: ognun pensa a sé; e a me nessuno vuol pensare -. E tornava in cerca di Perpetua.
- Oh appunto! - gli disse questa: - e i danari?
- Come faremo?
- Li dia a me, che anderò a sotterrarli qui nell’orto di casa, insieme con le posate.
- Ma...
- Ma, ma; dia qui; tenga qualche soldo, per quel che può occorrere; e poi lasci fare a me.
Don Abbondio ubbidì, andò allo scrigno, cavò il suo tesoretto, e lo consegnò a Perpetua; la quale disse: - vo a sotterrarli nell’orto, appiè del fico -; e andò. Ricomparve poco dopo, con un paniere dove c’era della munizione da bocca [3], e con una piccola gerla vota; e si mise in fretta a collocarvi nel fondo un po’ di biancheria sua e del padrone, dicendo intanto: - il breviario almeno lo porterà lei.
- Ma dove andiamo?
- Dove vanno tutti gli altri? Prima di tutto, anderemo in istrada; e là sentiremo, e vedremo cosa convenga di fare.
In quel momento entrò Agnese con una gerletta sulle spalle, e in aria di chi viene a fare una proposta importante.
Agnese, risoluta anche lei di non aspettare ospiti di quella sorte, sola in casa, com’era, e con ancora un po’ di quell’oro dell’innominato, era stata qualche tempo in forse del luogo dove ritirarsi. Il residuo appunto di quegli scudi, che ne’ mesi della fame le avevan fatto tanto pro, era la cagion principale della sua angustia e della irresoluzione, per aver essa sentito che, ne’ paesi già invasi, quelli che avevan danari, s’eran trovati a più terribil condizione, esposti insieme alla violenza degli stranieri, e all’insidie de’ paesani. Era vero che, del bene piovutole, come si dice, dal cielo, non aveva fatta la confidenza a nessuno, fuorché a don Abbondio; dal quale andava, volta per volta, a farsi spicciolare uno scudo, lasciandogli sempre qualcosa da dare a qualcheduno più povero di lei. Ma i danari nascosti, specialmente chi non è avvezzo a maneggiarne molti, tengono il possessore in un sospetto continuo del sospetto altrui. Ora, mentre andava anch’essa rimpiattando qua e là alla meglio ciò che non poteva portar con sé, e pensava agli scudi, che teneva cuciti nel busto, si rammentò che, insieme con essi, l’innominato, le aveva mandate le più larghe offerte di servizi; si rammentò le cose che aveva sentito raccontare di quel suo castello posto in luogo così sicuro, e dove, a dispetto del padrone, non potevano arrivar se non gli uccelli; e si risolvette d’andare a chiedere un asilo lassù. Pensò come potrebbe farsi conoscere da quel signore, e le venne subito in mente don Abbondio; il quale, dopo quel colloquio così fatto con l’arcivescovo, le aveva sempre fatto festa, e tanto più di cuore, che lo poteva senza compromettersi con nessuno, e che, essendo lontani i due giovani, era anche lontano il caso che a lui venisse fatta una richiesta [4], la quale avrebbe messa quella benevolenza a un gran cimento. Suppose che, in un tal parapiglia, il pover’uomo doveva esser ancor più impicciato e più sbigottito di lei, e che il partito potrebbe parer molto buono anche a lui; e glielo veniva a proporre. Trovatolo con Perpetua, fece la proposta a tutt’e due.
- Che ne dite, Perpetua? - domandò don Abbondio.
- Dico che è un’ispirazione del cielo, e che non bisogna perder tempo, e mettersi la strada tra le gambe.
- E poi...
- E poi, e poi, quando saremo là, ci troveremo ben contenti. Quel signore, ora si sa che non vorrebbe altro che far servizi al prossimo; e sarà ben contento anche lui di ricoverarci. Là, sul confine, e così per aria, soldati non ne verrà certamente. E poi e poi, ci troveremo anche da mangiare; ché, su per i monti, finita questa poca grazia di Dio, - e così dicendo, l’accomodava nella gerla, sopra la biancheria, - ci saremmo trovati a mal partito.
- Convertito, è convertito davvero, eh?
- Che c’è da dubitarne ancora, dopo tutto quello che si sa, dopo quello che anche lei ha veduto?
- E se andassimo a metterci in gabbia?
- Che gabbia? Con tutti codesti suoi casi, mi scusi, non si verrebbe mai a una conclusione. Brava Agnese! v’è proprio venuto un buon pensiero -. E messa la gerla sur un tavolino, passò le braccia nelle cigne [5], e la prese sulle spalle.
- Non si potrebbe, - disse don Abbondio, - trovar qualche uomo che venisse con noi, per far la scorta al suo curato? Se incontrassimo qualche birbone, che pur troppo ce n’è in giro parecchi, che aiuto m’avete a dar voi altre?
- Un’altra, per perder tempo! - esclamò Perpetua. - Andarlo a cercar ora l’uomo, che ognuno ha da pensare a’ fatti suoi. Animo! vada a prendere il breviario e il cappello; e andiamo.
Don Abbondio andò, tornò, di lì a un momento, col breviario sotto il braccio, col cappello in capo, e col suo bordone in mano; e uscirono tutt’e tre per un usciolino che metteva sulla piazzetta. Perpetua richiuse, più per non trascurare una formalità, che per fede che avesse in quella toppa e in que’ battenti, e mise la chiave in tasca. Don Abbondio diede, nel passare, un’occhiata alla chiesa, e disse tra i denti: - al popolo tocca a custodirla, che serve a lui. Se hanno un po’ di cuore per la loro chiesa, ci penseranno; se poi non hanno cuore, tal sia di loro.
Presero per i campi, zitti zitti, pensando ognuno a’ casi suoi, e guardandosi intorno, specialmente don Abbondio, se apparisse qualche figura sospetta, qualcosa di straordinario. Non s’incontrava nessuno: la gente era, o nelle case a guardarle, a far fagotto, a nascondere, o per le strade che conducevan direttamente all’alture.
Dopo aver sospirato e risospirato, e poi lasciato scappar qualche interiezione, don Abbondio cominciò a brontolare più di seguito. Se la prendeva col duca di Nevers, che avrebbe potuto stare in Francia a godersela, a fare il principe, e voleva esser duca di Mantova a dispetto del mondo; con l’imperatore, che avrebbe dovuto aver giudizio per gli altri, lasciar correr l’acqua all’ingiù, non istar su tutti i puntigli: ché finalmente, lui sarebbe sempre stato l’imperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronio. L’aveva principalmente col governatore, a cui sarebbe toccato a far di tutto, per tener lontani i flagelli dal paese, ed era lui che ce gli attirava: tutto per il gusto di far la guerra. - Bisognerebbe, - diceva, - che fossero qui que’ signori a vedere, a provare, che gusto è. Hanno da rendere un bel conto! Ma intanto, ne va di mezzo chi non ci ha colpa.
- Lasci un po’ star codesta gente; che già non son quelli che ci verranno a aiutare, - diceva Perpetua. - Codeste, mi scusi, sono di quelle sue solite chiacchiere che non concludon nulla. Piuttosto, quel che mi dà noia...
- Cosa c’è?
Perpetua, la quale, in quel pezzo di strada, aveva pensato con comodo al nascondimento fatto in furia, cominciò a lamentarsi d’aver dimenticata la tal cosa, d’aver mal riposta la tal altra; qui, d’aver lasciata una traccia che poteva guidare i ladroni, là...
- Brava! - disse don Abbondio, ormai sicuro della vita, quanto bastava per poter angustiarsi della roba: - brava! così avete fatto? Dove avevate la testa?
- Come! - esclamò Perpetua, fermandosi un momento su due piedi, e mettendo i pugni su’ fianchi, in quella maniera che la gerla glielo permetteva: - come! verrà ora a farmi codesti rimproveri, quand’era lei che me la faceva andar via, la testa, in vece d’aiutarmi e farmi coraggio! Ho pensato forse più alla roba di casa che alla mia; non ho avuto chi mi desse una mano; ho dovuto far da Marta e Maddalena [6]; se qualcosa anderà a male, non so cosa mi dire: ho fatto anche più del mio dovere.
Agnese interrompeva questi contrasti, entrando anche lei a parlare de’ suoi guai: e non si rammaricava tanto dell’incomodo e del danno, quanto di vedere svanita la speranza di riabbracciar presto la sua Lucia; ché, se vi rammentate, era appunto quell’autunno sul quale avevan fatto assegnamento: né era da supporre che donna Prassede volesse venire a villeggiare da quelle parti, in tali circostanze: piuttosto ne sarebbe partita, se ci si fosse trovata, come facevan tutti gli altri villeggianti.
La vista de’ luoghi rendeva ancor più vivi que’ pensieri d’Agnese, e più pungente il suo dispiacere. Usciti da’ sentieri, avevan presa la strada pubblica, quella medesima per cui la povera donna era venuta riconducendo, per così poco tempo, a casa la figlia, dopo aver soggiornato con lei, in casa del sarto. E già si vedeva il paese.
- Anderemo bene a salutar quella brava gente, - disse Agnese.
- E anche a riposare un pochino: ché di questa gerla io comincio ad averne abbastanza; e poi per mangiare un boccone, - disse Perpetua.
- Con patto di non perder tempo; ché non siamo in viaggio per divertimento, - concluse don Abbondio.
Furono ricevuti a braccia aperte, e veduti con gran piacere: rammentavano una buona azione. Fate del bene a quanti più potete, dice qui il nostro autore; e vi seguirà tanto più spesso d’incontrar de’ visi che vi mettano allegria.
Agnese, nell’abbracciar la buona donna, diede in un dirotto pianto, che le fu d’un gran sollievo; e rispondeva con singhiozzi alle domande che quella e il marito le facevan di Lucia.
- Sta meglio di noi, - disse don Abbondio: - è a Milano, fuor de’ pericoli, lontana da queste diavolerie.
- Scappano, eh? il signor curato e la compagnia, - disse il sarto.
- Sicuro, - risposero a una voce il padrone e la serva.
- Li compatisco.
- Siamo incamminati, - disse don Abbondio; - al castello di ***.
- L’hanno pensata bene: sicuri come in chiesa.
- E qui, non hanno paura? - disse don Abbondio.
- Dirò, signor curato: propriamente in ospitazione [7], come lei sa che si dice, a parlar bene, qui non dovrebbero venire coloro: siam troppo fuori della loro strada, grazie al cielo. Al più al più, qualche scappata, che Dio non voglia: ma in ogni caso c’è tempo; s’hanno a sentir prima altre notizie da’ poveri paesi dove anderanno a fermarsi.
Si concluse di star lì un poco a prender fiato; e, siccome era l’ora del desinare, - signori, - disse il sarto: - devono onorare la mia povera tavola: alla buona: ci sarà un piatto di buon viso.
Perpetua disse d’aver con sé qualcosa da rompere il digiuno. Dopo un po’ di cerimonie da una parte e dall’altra, si venne a patti d’accozzar, come si dice, il pentolino, e di desinare in compagnia.
I ragazzi s’eran messi con gran festa intorno ad Agnese loro amica vecchia. Presto, presto; il sarto ordinò a una bambina (quella che aveva portato quel boccone a Maria vedova: chi sa se ve ne rammentate più!), che andasse a diricciar [8] quattro castagne primaticce, ch’eran riposte in un cantuccio: e le mettesse a arrostire.
- E tu, - disse a un ragazzo, - va’ nell’orto, a dare una scossa al pesco, da farne cader quattro, e portale qui: tutte, ve’. E tu, - disse a un altro, - va’ sul fico, a coglierne quattro de’ più maturi. Già lo conoscete anche troppo quel mestiere -. Lui andò a spillare una sua botticina; la donna a prendere un po’ di biancheria da tavola. Perpetua cavò fuori le provvisioni; s’apparecchiò: un tovagliolo e un piatto di maiolica al posto d’onore, per don Abbondio, con una posata che Perpetua aveva nella gerla. Si misero a tavola, e desinarono, se non con grand’allegria, almeno con molta più che nessuno de’ commensali si fosse aspettato d’averne in quella giornata.
- Cosa ne dice, signor curato, d’uno scombussolamento di questa sorte? - disse il sarto: - mi par di leggere la storia de’ mori in Francia [9].
- Cosa devo dire? Mi doveva cascare addosso anche questa!
- Però, hanno scelto un buon ricovero, - riprese quello: - chi diavolo ha a andar lassù per forza? E troveranno compagnia: ché già s’è sentito che ci sia rifugiata molta gente, e che ce n’arrivi tuttora.
- Voglio sperare, - disse don Abbondio, - che saremo ben accolti. Lo conosco quel bravo signore; e quando ho avuto un’altra volta l’onore di trovarmi con lui, fu così compito!
- E a me, - disse Agnese, - m’ha fatto dire dal signor monsignor illustrissimo, che, quando avessi bisogno di qualcosa, bastava che andassi da lui.
- Gran bella conversione! - riprese don Abbondio: - e si mantiene, n’è vero? si mantiene.
Il sarto si mise a parlare alla distesa della santa vita dell’innominato, e come, dall’essere il flagello de’ contorni, n’era divenuto l’esempio e il benefattore.
- E quella gente che teneva con sé?... tutta quella servitù?... - riprese don Abbondio, il quale n’aveva più d’una volta sentito dir qualcosa, ma non era mai quieto abbastanza.
- Sfrattati la più parte, - rispose il sarto: - e quelli che son rimasti, han mutato sistema, ma come! In somma è diventato quel castello una Tebaide [10]: lei le sa queste cose.
Entrò poi a parlar con Agnese della visita del cardinale. - Grand’uomo! - diceva; - grand’uomo! Peccato che sia passato di qui così in furia, che non ho né anche potuto fargli un po’ d’onore. Quanto sarei contento di potergli parlare un’altra volta, un po’ più con comodo.
Alzati poi da tavola, le fece osservare una stampa rappresentante il cardinale, che teneva attaccata a un battente d’uscio, in venerazione del personaggio, e anche per poter dire a chiunque capitasse, che non era somigliante; giacché lui aveva potuto esaminar da vicino e con comodo il cardinale in persona, in quella medesima stanza.
- L’hanno voluto far lui, con questa cosa qui? - disse Agnese. - Nel vestito gli somiglia; ma...
- N’è vero che non somiglia? - disse il sarto: - lo dico sempre anch’io: noi, non c’ingannano, eh? ma, se non altro, c’è sotto il suo nome: è una memoria.
Don Abbondio faceva fretta; il sarto s’impegnò di trovare un baroccio che li conducesse appiè della salita; n’andò subito in cerca, e poco dopo, tornò a dire che arrivava. Si voltò poi a don Abbondio, e gli disse: - signor curato, se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passare il tempo, da pover’uomo posso servirla: ché anch’io mi diverto un po’ a leggere. Cose non da par suo, libri in volgare; ma però...
- Grazie, grazie, - rispose don Abbondio: - son circostanze, che si ha appena testa d’occuparsi di quel che è di precetto.
Mentre si fanno e si ricusano ringraziamenti, e si barattano saluti e buoni augùri, inviti e promesse d’un’altra fermata al ritorno, il baroccio è arrivato davanti all’uscio di strada. Ci metton le gerle, salgon su, e principiano, con un po’ più d’agio e di tranquillità d’animo, la seconda metà del viaggio.
Il sarto aveva detto la verità a don Abbondio, intorno all’innominato. Questo, dal giorno che l’abbiam lasciato, aveva sempre continuato a far ciò che allora s’era proposto, compensar danni, chieder pace, soccorrer poveri, sempre del bene in somma, secondo l’occasione. Quel coraggio che altre volte aveva mostrato nell’offendere e nel difendersi, ora lo mostrava nel non fare né l’una cosa né l’altra. Andava sempre solo e senz’armi, disposto a tutto quello che gli potesse accadere dopo tante violenze commesse, e persuaso che sarebbe commetterne una nuova l’usar la forza in difesa di chi era debitore di tanto e a tanti; persuaso che ogni male che gli venisse fatto, sarebbe un’ingiuria riguardo a Dio, ma riguardo a lui una giusta retribuzione; e che dell’ingiuria, lui meno d’ogni altro, aveva diritto di farsi punitore. Con tutto ciò, era rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua sicurezza, tante braccia e il suo. La rimembranza dell’antica ferocia, e la vista della mansuetudine presente, una, che doveva aver lasciati tanti desidèri di vendetta, l’altra, che la rendeva tanto agevole, cospiravano in vece a procacciargli e a mantenergli un’ammirazione, che gli serviva principalmente di salvaguardia. Era quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s’era umiliato da sé. I rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura degli altri, si dileguavano ora davanti a quella nuova umiltà: gli offesi avevano ottenuta, contro ogni aspettativa, e senza pericolo, una soddisfazione che non avrebbero potuta promettersi dalla più fortunata vendetta, la soddisfazione di vedere un tal uomo pentito de’ suoi torti, e partecipe, per dir così, della loro indegnazione. Molti, il cui dispiacere più amaro e più intenso era stato per molt’anni, di non veder probabilità di trovarsi in nessun caso più forti di colui, per ricattarsi [11] di qualche gran torto; incontrandolo poi solo, disarmato, e in atto di chi non farebbe resistenza, non s’eran sentiti altro impulso che di fargli dimostrazioni d’onore. In quell’abbassamento volontario, la sua presenza e il suo contegno avevano acquistato, senza che lui lo sapesse, un non so che di più alto e di più nobile; perché ci si vedeva, ancor meglio di prima, la noncuranza d’ogni pericolo. Gli odi, anche i più rozzi e rabbiosi, si sentivano come legati e tenuti in rispetto dalla venerazione pubblica per l’uomo penitente e benefico. Questa era tale, che spesso quell’uomo si trovava impicciato a schermirsi dalle dimostrazioni che gliene venivan fatte, e doveva star attento a non lasciar troppo trasparire nel volto e negli atti il sentimento interno di compunzione, a non abbassarsi troppo, per non esser troppo esaltato. S’era scelto nella chiesa l’ultimo luogo; e non c’era pericolo che nessuno glielo prendesse: sarebbe stato come usurpare un posto d’onore. Offender poi quell’uomo, o anche trattarlo con poco riguardo, poteva parere non tanto un’insolenza e una viltà, quanto un sacrilegio: e quelli stessi a cui questo sentimento degli altri poteva servir di ritegno, ne partecipavano anche loro, più o meno.
Queste medesime ed altre cagioni, allontanavano pure da lui le vendette della forza pubblica, e gli procuravano, anche da questa parte, la sicurezza della quale non si dava pensiero. Il grado e le parentele, che in ogni tempo gli erano state di qualche difesa, tanto più valevano per lui, ora che a quel nome già illustre e infame, andava aggiunta la lode d’una condotta esemplare, la gloria della conversione. I magistrati e i grandi s’eran rallegrati di questa, pubblicamente come il popolo; e sarebbe parso strano l’infierire contro chi era stato soggetto di tante congratulazioni. Oltre di ciò, un potere occupato in una guerra perpetua, e spesso infelice, contro ribellioni vive e rinascenti, poteva trovarsi abbastanza contento d’esser liberato dalla più indomabile e molesta, per non andare a cercar altro: tanto più, che quella conversione produceva riparazioni che non era avvezzo ad ottenere, e nemmeno a richiedere. Tormentare un santo, non pareva un buon mezzo di cancellar la vergogna di non aver saputo fare stare a dovere un facinoroso: e l’esempio che si fosse dato col punirlo, non avrebbe potuto aver altro effetto, che di stornare i suoi simili dal divenire inoffensivi. Probabilmente anche la parte che il cardinal Federigo aveva avuta nella conversione, e il suo nome associato a quello del convertito, servivano a questo come d’uno scudo sacro. E in quello stato di cose e d’idee, in quelle singolari relazioni dell’autorità spirituale e del poter civile, ch’eran così spesso alle prese tra loro, senza mirar mai a distruggersi, anzi mischiando sempre alle ostilità atti di riconoscimento e proteste di deferenza, e che, spesso pure, andavan di conserva a un fine comune, senza far mai pace, poté parere, in certa maniera, che la riconciliazione della prima portasse con sé l’oblivione [12], se non l’assoluzione del secondo, quando quella s’era sola adoprata a produrre un effetto voluto da tutt’e due.
Così quell’uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e inchinato da molti.
È vero ch’eran anche molti a cui quella strepitosa mutazione dovette far tutt’altro che piacere: tanti esecutori stipendiati di delitti, tanti compagni nel delitto, che perdevano una così gran forza sulla quale erano avvezzi a fare assegnamento, che anche si trovavano a un tratto rotti i fili di trame ordite da un pezzo, nel momento forse che aspettavano la nuova dell’esecuzione. Ma già abbiam veduto quali diversi sentimenti quella conversione facesse nascere negli sgherri che si trovavano allora con lui, e che la sentirono annunziare dalla sua bocca: stupore, dolore, abbattimento, stizza; un po’ di tutto, fuorché disprezzo né odio. Lo stesso accadde agli altri che teneva sparsi in diversi posti, lo stesso a’ complici di più alto affare, quando riseppero la terribile nuova, e a tutti per le cagioni medesime. Molt’odio, come trovo nel luogo, altrove citato, del Ripamonti, ne venne piuttosto al cardinal Federigo. Riguardavan questo come uno che s’era mischiato ne’ loro affari, per guastarli; l’innominato aveva voluto salvar l’anima sua: nessuno aveva ragion di lagnarsene.
Di mano in mano poi, la più parte degli sgherri di casa, non potendo accomodarsi alla nuova disciplina, né vedendo probabilità che s’avesse a mutare, se n’erano andati. Chi avrà cercato altro padrone, e fors’anche tra gli antichi amici di quello che lasciava; chi si sarà arrolato in qualche terzo [13], come allora dicevano, di Spagna o di Mantova, o di qualche altra parte belligerante; chi si sarà messo alla strada, per far la guerra a minuto, e per conto suo; chi si sarà anche contentato d’andar birboneggiando in libertà. E il simile avranno fatto quegli altri che stavano prima a’ suoi ordini, in diversi paesi. Di quelli poi che s’eran potuti avvezzare al nuovo tenor di vita, o che lo avevano abbracciato volentieri, i più, nativi della valle, eran tornati ai campi, o ai mestieri imparati nella prima età, e poi abbandonati; i forestieri eran rimasti nel castello, come servitori: gli uni e gli altri, quasi ribenedetti nello stesso tempo che il loro padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare né ricever torti, inermi e rispettati.
Ma quando, al calar delle bande alemanne, alcuni fuggiaschi di paesi invasi o minacciati capitarono su al castello a chieder ricovero, l’innominato, tutto contento che quelle sue mura fossero cercate come asilo da’ deboli, che per tanto tempo le avevan guardate da lontano come un enorme spauracchio, accolse quegli sbandati, con espressioni piuttosto di riconoscenza che di cortesia; fece sparger la voce, che la sua casa sarebbe aperta a chiunque ci si volesse rifugiare, e pensò subito a mettere, non solo questa, ma anche la valle, in istato di difesa, se mai lanzichenecchi o cappelletti volessero provarsi di venirci a far delle loro. Radunò i servitori che gli eran rimasti, pochi e valenti, come i versi di Torti [14]; fece loro una parlata sulla buona occasione che Dio dava loro e a lui, d’impiegarsi una volta in aiuto del prossimo, che avevan tanto oppresso e spaventato; e, con quel tono naturale di comando, ch’esprimeva la certezza dell’ubbidienza, annunziò loro in generale ciò che intendeva che facessero, e soprattutto prescrisse come dovessero contenersi, perché la gente che veniva a ricoverarsi lassù, non vedesse in loro che amici e difensori. Fece poi portar giù da una stanza a tetto l’armi da fuoco, da taglio, in asta, che da un pezzo stavan lì ammucchiate, e gliele distribuì; fece dire a’ suoi contadini e affittuari della valle, che chiunque si sentiva, venisse con armi al castello; a chi non n’aveva, ne diede; scelse alcuni, che fossero come ufiziali, e avessero altri sotto il loro comando; assegnò i posti all’entrature e in altri luoghi della valle, sulla salita, alle porte del castello; stabilì l’ore e i modi di dar la muta [15], come in un campo, o come già s’era costumato in quel castello medesimo, ne’ tempi della sua vita disperata.
In un canto di quella stanza a tetto, c’erano in disparte l’armi che lui solo aveva portate; quella sua famosa carabina, moschetti, spade, spadoni, pistole, coltellacci, pugnali, per terra, o appoggiati al muro. Nessuno de’ servitori le toccò; ma concertarono di domandare al padrone quali voleva che gli fossero portate. - Nessuna, - rispose; e, fosse voto, fosse proposito, restò sempre disarmato, alla testa di quella specie di guarnigione.
Nello stesso tempo, aveva messo in moto altr’uomini e donne di servizio, o suoi dipendenti, a preparar nel castello alloggio a quante più persone fosse possibile, a rizzar letti, a disporre sacconi e strapunti nelle stanze, nelle sale, che diventavan dormitòri. E aveva dato ordine di far venire provvisioni [16] abbondanti, per ispesare gli ospiti che Dio gli manderebbe, e i quali infatti andavan crescendo di giorno in giorno. Lui intanto non istava mai fermo; dentro e fuori del castello, su e giù per la salita, in giro per la valle, a stabilire, a rinforzare, a visitar posti, a vedere, a farsi vedere, a mettere e a tenere in regola, con le parole, con gli occhi, con la presenza. In casa, per la strada, faceva accoglienza a quelli che arrivavano; e tutti, o lo avessero già visto, o lo vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i guai e i timori che gli avevano spinti lassù; e si voltavano ancora a guardarlo, quando, staccatosi da loro, seguitava la sua strada.


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Note
Si tratta di piccoli paesi della Valsassina.
Soldati di cavalleria al servizio della Repubblica di Venezia, arruolati come mercenari in Schiavonia (erano detti così per via dell'elmo senza visiera che indossavano).
Espressione scherzosa per indicare i viveri.
Quella di celebrare il matrimonio, ovviamente.
Cinghie.
Perpetua intende dire che si è dovuta occupare di tutto (Marta e Maddalena, secondo il Vangelo di Luca, rappresentano la vita attiva e quella contemplativa).
Ospitazione è termine secentesco che indica l'alloggiamento dei soldati.
Togliere dal riccio.
Il sarto allude alle sue letture epico-romanzesche, il Guerrin meschino e i Reali di Francia citati nel cap. XXIV.
La Tebaide era una regione dell'Egitto famosa nell'antichità per ospitare molti eremiti (il sarto intende dire che ora il castello è frequentato da gente perbene e non più da lestofanti).
Vendicarsi.
L'oblio, la dimenticanza.
In spagnolo tercio indicava propriamente un reggimento militare.
Giovanni Torti (1774-1852) fu un poeta romantico già allievo di Parini e collaborò con il Conciliatore, organo ufficiale del Romanticismo milanese, diventando anche amico di Manzoni. I suoi versi furono in realtà assai modesti e appare alquanto sproporzionato l'elogio che di lui tesse qui il romanziere.
Il cambio della guardia.
Provviste, viveri (è lo stesso significato della Provvisione, l'organo del governo di Milano).

Fonte: https://promessisposi.weebly.com/capitolo-xxix.html

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