Il sardo, una razza inferiore
Una razza inferiore Così l'Europa vedeva la Sardegna
«Il male peggiore che io vedo in questo paese _ scriveva al primo impatto con la Sardegna il viceré piemontese barone di Saint Remy _ è che la nobiltà è povera, il paese miserabile e spopolato, la popolazione pigra e priva di attività commerciali, l'aria irrimediabilmente malsana». Nel 1720 questa immagine deficitaria doveva certo avere una buona corrispondenza con la realtà. Rispetto ad un modello di Stato e di società come quello piemontese, che andava emergendo anche sulla scala europea, la Sardegna usciva infatti dal lungo dominio della Spagna, della quale aveva gravemente patito lungo il Seicento la malinconica decadenza. Ma era proprio con il governo sabaudo che gli osservatori stranieri cominciavano a trasporre indebitamente questo quadro di reale arretratezza in un giudizio di inferiorità dei sardi. Inferiorità che per i più benevoli sarebbe derivata essenzialmente da fattori ambientali, quali il clima, la malaria, l'isolamento, lo spopolamento, ecc., per i più malevoli da vere e proprie tare genetiche e da costituzionali difetti morali. Nel primissimo '800 per Joseph de Maistre il sardo era perfino «sprovvisto del più bell'attributo dell'uomo, la perfettibilità». Eppure quando il grande conservatore intingeva la sua penna di una sentenza così oltraggiosa nei confronti dei suoi abitanti, la Sardegna veniva dal periodo forse migliore e più esaltante della sua storia: quello che a fine Settecento l'aveva vista levarsi sia contro il dominio piemontese che contro il giogo feudale. L'epopea angioiana aveva portato alla luce _ com'è ben noto _ il primo germe dell'identità moderna dell'isola, e la sua ulteriore maturazione non poteva non essere avversata da quanti avevano un qualche interesse a mantenerla in una condizione di soggezione politica e culturale. Nell'Ottocento la denigrazione dell'isola sarebbe divenuta un esercizio quasi d'obbligo per funzionari insoddisfatti o infastiditi, per viaggiatori voraci di novità o frettolosi, per uomini d'affari più o meno acquattrinati o avventurosi, per demopsicologi sempre saccenti e qualche volta squinternati. Tra gli esemplari più notevoli di quest'ultimo genere, l'ineffabile Paolo Orano che in una sua ridevole «Psicologia della Sardegna», del 1895, dopo avere a lungo sproloquiato sull'«orrendo lavorio di degenerazione morale e fisica» che minava la razza sarda, graziava la sua metà femminile del seguente giudizio: «La moralità della donna in Sardegna è una cosa così difficile a capire ed a chiarire», perché si sbandierano virtù e pudore, e ci sono invece paesi «dove la donna si dà con tutto l'abbandono selvaggio senza sapere assolutamente che ciò è male, senza avere idea alcuna d'alcuna moralità... Andate e fatevi narrare fino a che punto possa arrivare a Nuoro il pervertimento sessuale». A questo schiaffo dell'Orano i bravi sardi rispondevano pronti, offrendo cristianamente l'altra guancia. E lo pseudo-scienziato, anziché ricevere i sacrosanti e meritati quattro calci nel sedere, sarà da essi eletto, nel 1919, a rappresentarli in Parlamento. Mandato che i sardisti confermeranno nel 1921. Il fatto è che la Sardegna, alla fine, aveva fatto proprio lo sguardo straniero sulla sua cultura e civiltà, tanto da nutrire il suo stesso sentimento d'identità di una sorta di complesso d'inferiorità. Nonostante la conquista dell'autonomia speciale avvenuta due anni prima, ancora nel 1950 Bachisio Raimondo Motzo poteva scrivere sulla "Sardegna Nuova" quanto segue: «Io non vorrei che i sardi si attardassero troppo a vagheggiare le bricciole del loro passato... Auguro che i pittoreschi costumi sardi belli e costosi finiscano di scomparire, e che i sardi vestano e possano mescolarsi alla pari con tutte le altre genti civili, senza richiamare su di sé l'attenzione e i complimenti di qualche persona intelligente, ma anche le risate e risolini e i titoli di sardignolo, o di pacchiano o burino... E a chi vada esaltando i suoni de sas lioneddas preferisco l'opera di quel giovane di umilissimi natali che in uno dei tanti villaggi di Sardegna, al ritorno dal servizio militare, organizzò una banda musicale con una ventina di strumenti». In mancanza di fabbriche, mentre le miniere iniziavano la loro lunga agonia, potevano andar bene anche le bande musicali _ avanguardia di modernizzazione _, con suoni di piatti e grancasse, trombe e clarinetti, anziché di launeddas e sonettus. Eppure Motzo non era un imbrattacarte qualunque, ma una delle figure di maggior spicco dell'accademia sarda, tra antichistica e folclore, demologia e storiografia. Se non si vuol credere a quella retorica sardista e pseudo-identitaria che da qualche anno funge da alibi e copertura ad una mediocre politica regionale, le fibre davvero deboli e lacerate dell'identità sarda non possono essere ritessute che nell'ambito formativo. Da qui un apprezzamento ancora maggiore per la nuova edizione dell'ormai classica «Antologia di storia e di cultura della Sardegna» pubblicata da Giuseppe Serri e Paola De Gioannis con La Nuova Italia. Un'isola, una storia, una cultura: la Sardegna rilancia in termini metodologicamente più aggiornati e scaltriti la sfida già lanciata da «La Sardegna. Cultura e società», comparsa nel 1992, in tempi non sospetti, quando la legge sulla cultura e sulla lingua sarda era là da venire. Del resto l'impegno di Serri sul terreno dell'insegnamento della storia, e della storia sarda in particolare, data almeno da cinque lustri. Esso si è espresso da principio con un paziente e generoso lavoro di tipo seminariale che ha contribuito alla formazione di decine di docenti e in seguito anche con l'attività svolta in seno all'Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell'Autonomia, che Serri ha contribuito a qualificare nel campo dell'aggiornamento dei docenti e della sperimentazione didattica. Il sodalizio di Serri con la De Gioannis dura pure da molti anni, in ragione del fortunato incontro di una consolidata competenza storiografica (Serri, docente universitario, ha fornito un contributo importante alle successive revisioni della fortunata Storia della letteratura italiana di Carlo Salinari e di Carlo Ricci, edita da Laterza), con una particolare sensibilità per i fatti letterari. Fatti che dalla De Gioannis sono sempre rivisitati, oltre che nei loro profili estetici, in quei loro contenuti etici e civili che possono contribuire allo sviluppo in Sardegna di una nuova e più moderna coscienza autonomistica; all'affermazione cioè di un sentimento d'identità privo di accartocciamenti etnicisti e di ripiegamenti nostalgici sul passato (quali si manifestano, ad esempio, in quel rintanamento nella civiltà nuragica che rappresenta una delle costanti del sardismo storico). La struttura dell'opera prevede una raccolta antologica, con la scansione della vicenda della Sardegna dal Settecento ad oggi in dodici nuclei temporali e tematici (il primo, La Sardegna sabauda: alla ricerca di un'identità, si apre con la citazione da noi ripresa delle prime impressioni del viceré Saint-Remy), e un profilo di storia generale della Sardegna, dalla preistoria ad oggi. La prima propone testi di varissima fonte (storica, letteraria, antropologicas politica, pubblicistica, ecc.), il secondo è esemplare per chiarezza espositiva. Un tredicesimo nucleo, Storia e cultura locale: un diritto dello studente, raccoglie le riflessioni dei due curatori in materia di storia locale e di formazione dell'identità esplicitando, a mo' di conclusioni, il progetto culturale e scientifico che ispira l'opera. Un ricchissimo corredo di introduzioni, schede, rubriche, tabelle, cronologie, biografie, ecc., fornisce agli studenti molteplici possibilità di approfondimento e di esercizio didattico, in funzione non soltanto di un approccio più meditato e "interno" alla storia e alla cultura dell'isola, bensì anche dello sviluppo di "competenze pragmatico-testuali e abilità di sintesi, soprattutto nella forma scritta della lingua". Alla ricchezza del testo e del corredo didattico si accompagna, infine, una notevole cura nella grafica e nella realizzazione editoriale, indispensabile perché un libro per la scuola si affermi durevolmente.
Gian Giacomo Ortu
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