Capitolo XXVII incompleto
"Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare
né d'ubbidire. Che, in tutte le cose di casa,
la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora;
ma lui servo, no. E se, pregato, le prestava
a un'occorrenza l'ufizio della penna, era perché
ci aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso
di ciò che lei voleva fargli scrivere. Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo
di tirarlo dal lasciar fare al fare, s'era ristretta
a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso
nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale,
insieme con la stizza, c'entrava anche
un po' di compiacenza..."
Personaggi: Renzo, Lucia, Agnese, don Gonzalo Fernandez de Cordoba, Bortolo, Alessio di Maggianico, don Ferrante, donna Prassede
Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, Milano, Bergamo, Pescarenico, Maggianico
Tempo: Dicembre 1628 e mesi successivi
Temi: La giustizia, Il tumulto di S. Martino, La guerra di Mantova e del Monferrato, La cultura del Seicento, Nobiltà e potere
Trama: Spiegazione del motivo per cui il governatore don Gonzalo si è interessato a Renzo. Le vicende della guerra del Monferrato. Renzo dà notizie di sé ad Agnese, che gli manda i cinquanta scudi e lo informa per lettera del voto di Lucia. Renzo risponde che non si metterà mai l'animo in pace. Donna Prassede cerca di far dimenticare Renzo a Lucia, che tuttavia continua a pensare a lui. La biblioteca di don Ferrante.
L'autore dichiara che per spiegare l'interessamento del governatore don Gonzalo alla vicenda di Renzo occorre illustrare le circostanze della guerra in atto per la successione agli stati di Vincenzo II Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato morto senza eredi: sono cose, osserva ironicamente, ben note a chi si intende di storia, ma non agli indotti che probabilmente leggeranno il romanzo e perciò occorre spendere poche parole in merito. Alla morte di Vincenzo Gonzaga, dunque, Mantova e il Monferrato vengono ereditati da Carlo Gonzaga, duca di Nevers appoggiato dalla corona francese, mentre ovviamente la Spagna si oppone a tale successione e sostiene le pretese su Mantova di Ferrante Gonzaga, principe di Guastalla, e sul Monferrato del duca Carlo Emanuele I di Savoia e della duchessa Margherita Gonzaga di Lorena. Don Gonzalo, nobile spagnolo che si è già distinto nella guerra in Fiandra, smania per iniziare le ostilità e conclude un trattato col duca Carlo Emanuele per invadere e spartire il Monferrato, salvo poi ottenerne la ratifica dal primo ministro spagnolo facendogli credere molto facile la conquista di Casale, la piazzaforte più difesa di quel territorio. Don Gonzalo non intende tuttavia occupare il Monferrato, almeno fino a quando l'imperatore Ferdinando II non si sarà pronunciato sulla questione della successione di Mantova, feudo imperiale, dal momento che il sovrano ha intimato a Carlo di Nevers di non occupare il feudo, mentre quest'ultimo non ha voluto piegarsi a questa volontà.
L'assedio di Casale va per le lunghe
Carlo di Nevers gode dell'appoggio del cardinal Richelieu, dei Veneziani e di papa Urbano VIII, ma il primo è impegnato nell'assedio di La Rochelle e in un conflitto con l'Inghilterra, senza contare l'opposizione della regina Maria de' Medici, per cui non può impegnarsi attivamente nel sostegno all'alleato; i Veneziani non intendono schierarsi se non dopo la discesa in Italia di un esercito francese, limitandosi perciò ad aiutare il Nevers in modo surrettizio e senza dare nell'occhio; il papa, da parte sua, sostiene Carlo a parole e cerca di stipulare una pace, senza tuttavia impegnare truppe. Don Gonzalo e Carlo Emanuele di Savoia possono così attuare il loro piano, ovvero l'invasione del Monferrato da parte del duca sabaudo e l'assedio di Casale da parte del governatore di Milano, anche se le operazioni belliche non vanno come quest'ultimo aveva sperato: la corte non gli dà l'aiuto richiesto, il duca di Savoia sottrae territori spettanti al re di Spagna, costringendo Gonzalo a tacere per non irritare l'alleato e perdere il suo aiuto prezioso. L'assedio procede poi lentamente, sia per la strenua resistenza dei Casalesi, sia (a detta di molti storici) per l'incapacità di don Gonzalo, cosa che all'autore sembra bellissima visto che in tal modo è stato limitato il numero di morti, feriti, uomini storpiati nel corso di quell'assurda guerra. È proprio in questo frangente che scoppia il tumulto di S. Martino a Milano, alla notizia del quale don Gonzalo rientra precipitosamente in città.
Don Gonzalo si lamenta per l'asilo dato a Renzo
A don Gonzalo viene riferito sommariamente anche della clamorosa fuga di Renzo, nonché dei fatti veri o presunti di cui si sarebbe macchiato durante la sommossa e della sua fuga nel Bergamasco: teme che la Repubblica di Venezia possa approfittare della rivolta per schierarsi con la Francia, tanto più che pochi giorni prima (il 25 ottobre) è giunta la notizia, paventata dal governatore, che La Rochelle è caduta, perciò coglie ogni occasione per far capire ai Veneziani che egli non è affatto preoccupato per l'accaduto e che non ha perso nulla dell'antica gagliardia. È questo il motivo che lo spinge a lamentarsi col residente di Venezia allorché questi viene a rendergli visita a Milano, protestando per l'asilo offerto nel Bergamasco a Renzo e causando così le ricerche della giustizia veneta in quel territorio, che poi non portano a nulla. Intanto don Gonzalo torna a Casale e qui, molto tempo dopo, gli viene riferito con un dispaccio l'esito negativo delle ricerche del fuggitivo Renzo, al che sulle prime non ricorda neppure di che si tratti, poi si rammenta confusamente della faccenda e passa subito ad altro, senza pensarci oltre.
Inizia la "corrispondenza" tra Agnese e Renzo
Nel frattempo Renzo, che ovviamente non può immaginare che le autorità di Milano siano così poco interessate a trovarlo, resta nascosto nel suo nuovo rifugio e per un certo tempo non può dare notizie ad Agnese, specie perché non sa scrivere e dovrebbe quindi rivolgersi a qualcuno che rediga una lettera per suo conto, trovando poi qualcun altro che faccia da corriere e la recapiti a destinazione (trovare l'uno e l'altro è una grave difficoltà, specie nella sua condizione di fuggiasco). L'autore precisa inoltre che Renzo sa leggere in modo stentato lo "stampato", come aveva dimostrato nello studio del dottor Azzecca-garbugli, ma non sa leggere le parole scritte a penna, senza contare che non è assolutamente in grado di scrivere di suo pugno. Finalmente trova un uomo fidato che possa fargli da scrivano e gli fa redigere una lettera per Agnese, che però fa recapitare al convento di Pescarenico non sapendo dove si trovino la donna e Lucia: la lettera arriva a destinazione, ma data l'assenza di padre Cristoforo la missiva si perde e non se ne sa più nulla. Renzo fa scrivere una seconda lettera e la fa pervenire a un suo amico di Lecco, che la fa avere ad Agnese: la donna si reca a Maggianico e la fa leggere dal cugino Alessio, incaricandolo poi di scrivere una risposta che viene indirizzata ad Antonio Rivolta (la nuova identità di Renzo) al domicilio da lui indicato. Inizia tra i due una sorta di bizzarra corrispondenza epistolare, che avviene però in modo stentato a causa dell'analfabetismo dei due personaggi.
Digressione dell'autore sulla "corrispondenza" dei contadini
L'autore spiega che il contadino analfabeta che ha bisogno di scrivere una lettera (ciò vale per l'epoca del romanzo come per il XIX secolo) si rivolge a uno che possa fargli da scrivano, possibilmente della sua stessa condizione sociale poiché diffida degli altri, spiegandogli pressappoco come stanno i fatti e cosa deve scrivere. Lo scrivano capisce le cose in parte e in parte le fraintende, propone dei cambiamenti, stende infine la lettera un po' a suo genio e non accettando di essere un mero strumento della volontà altrui, cosa che avviene quasi sempre quando chi ne sa più degli altri è richiesto di un favore. In tal modo, tuttavia, la lettera non sempre dice in modo chiaro e preciso quel che dovrebbe e quando la missiva giunge al destinatario, questi deve portarla a sua volta da un lettore che la interpreti e che non sempre riesce a intendere perfettamente il contenuto dello scritto, per cui nascono delle controversie con chi l'ha ricevuta e che si aspetta che la lettera dica altre cose da quelle riferite. In seguito il destinatario fa scrivere una risposta al suo scrivano, il quale si comporta più o meno come l'autore della prima lettera, e quando la seconda missiva giunge al destinatario essa è soggetta a una simile interpretazione e a più o meno numerosi fraintendimenti. Se poi i due corrispondenti non dicono tutto chiaramente perché si tratta di affari scabrosi o segreti, come nel caso appunto di Agnese e Renzo, la logica conseguenza è che essi si intendano con grande fatica, proprio come due filosofi scolastici che discutono di qualche spinosa questione dottrinale.
Agnese informa Renzo del voto di Lucia
La corrispondenza tra Agnese e Renzo è appunto di questo tipo e nella prima lettera il giovane spiega le circostanze della sua fuga e della sua latitanza, senza tuttavia che la donna e Alessio riescano a capire granché, complice il fatto che Renzo per prudenza evita di fornire troppi dettagli. Renzo chiede poi con ansia di Lucia, delle cui vicende ha avuto qualche notizia confusa, e raccomanda di confidare nell'avvenire, poiché ci saranno condizioni favorevoli per un possibile ricongiungimento dei due promessi. Dopo qualche tempo Agnese trova il modo di fare arrivare una risposta a Renzo, insieme alla metà dei cento scudi d'oro ricevuti dall'innominato: il giovane è stupito di vedere tanto denaro e non sa che pensare, quindi chiede con ansia allo scrivano di leggergli la lettera, apprendendo così, in modo non troppo chiaro, del rapimento di Lucia e dell'origine del denaro, nonché del voto pronunciato dalla giovane e della necessità per lui di mettersi l'animo in pace.
Renzo è inorridito e attonito da quanto ha sentito e per poco non se la prende con il suo interprete, che costringe a rileggere la lettera più volte senza tuttavia riuscire a capire di più della faccenda. In seguito detta subito con animo alterato una risposta, in cui dichiara che non si metterà mai l'animo in pace e che non intende toccare i cinquanta scudi, che serberà come dote di Lucia, giacché tra i due c'è una promessa di matrimonio che lui non vuole assolutamente dimenticare. Renzo fa scrivere inoltre che, a suo dire, la Madonna aiuta i poveri e non induce a mancar di parola, quindi lui è ben deciso a sposare Lucia e a usare il denaro per mettere su casa nel Bergamasco quando le cose saranno accomodate, aggiungendo molte altre cose simili. Agnese riceve la lettera e risponde a sua volta, per cui il carteggio prosegue in questo modo per un po' di tempo.
Lucia e donna Prassede
Agnese riesce in qualche modo a informare Lucia, ospite presso la casa di donna Prassede a Milano, che Renzo è in salvo e che è stato avvertito della questione del voto, per cui la giovane prova sollievo e desidera soltanto che il promesso sposo cerchi di dimenticarsi di lei. La ragazza per parte sua si sforza con tutta se stessa di non pensare a Renzo, ma per quanto si dedichi assiduamente al lavoro non può evitare che l'immagine del giovane si insinui quasi di soppiatto fra i suoi pensieri, specie perché tutti i suoi ricordi (la madre, il paese, la vecchia casa...) sono strettamente legati alla memoria del suo innamorato. Lucia riuscirebbe certo a pensare di meno a Renzo, se donna Prassede non le parlasse spesso di lui nel tentativo alquanto goffo di indurla a dimenticarlo: sovente le chiede se pensi ancora a quel giovane, al che la povera Lucia si schermisce dicendo che non pensa a nessuno e la nobildonna si diffonde a parlare di quelle giovani che rinunciano facilmente a un buon partito, ma quando si innamorano di un delinquente (quale secondo lei è certamente Renzo) non vogliono dimenticarlo, per cui essa vorrebbe che Lucia confessasse le malefatte che il filatore avrebbe compiuto anche al suo paese. La ragazza tenta di difendere Renzo in ogni modo e afferma che il giovane si è sempre comportato assai bene, sicura anche del fatto che a Milano non deve aver fatto nulla di male; Lucia dice a se stessa che prende le difese di Renzo per puro amore di carità, anche se donna Prassede ne deduce che è ancora innamorata di lui, cosa certamente vera come l'autore osserva ironicamente. Lucia spesso scoppia a piangere, ma neppure le lacrime fermano la nobildonna, proprio come i gemiti e le suppliche possono trattenere le armi di un nemico ma non il ferro di un chirurgo (Prassede pensa di fare "del bene" a Lucia e perciò è indotta a perseverare con insistenza). La ragazza non serba comunque astio verso la predicatrice, tanto più che la nobildonna la tratta per il resto con molta dolcezza, anche se quelle discussioni lasciano la poverina in uno stato di grande agitazione, poiché risvegliano nel suo animo pensieri e sentimenti che lei vorrebbe sopire per via del voto
Rapporti tra donna Prassede e don Ferrante
Fortunatamente per Lucia, donna Prassede deve esercitare la sua "carità" anche verso altri bersagli, come gli elementi della servitù che sono per lei tutti meritevoli di essere raddrizzati, e tutti coloro che diventano loro malgrado oggetto delle sue attenzioni non richieste. Ha inoltre cinque figlie, tre delle quali sono monache e due sposate, per cui donna Prassede si sente in obbligo di interferire anche negli affari di tre conventi e due famiglie, per quanto le rispettive badesse e i generi oppongano una strenua resistenza di fronte alle sue ingerenze. La casa è il luogo dove l'autorità di donna Prassede è pressoché assoluta, anche se essa non si estende sul marito don Ferrante, con cui ha un rapporto alquanto particolare. Il nobile è un uomo di studio e non gli piace comandare né ubbidire, per cui concede alla moglie la signoria completa sulla casa ma se ne sottrae volentieri e l'unica concessione che fa a donna Prassede è di scrivere per lei qualche lettera, quando non si rifiuta anche di far questo per via delle richieste assurde della moglie. Questa brontola spesso contro di lui e tenta vanamente di indurlo a un'opera più attiva nel suo esercizio del bene, limitandosi infine a definire il marito come uno scansafatiche e un letterato, titolo che gli affibbia come un'offesa ma anche come un onore di cui lei stessa si compiace.
La biblioteca di don Ferrante: libri di astrologia e filosofia
Don Ferrante possiede una biblioteca che conta circa trecento volumi, libri preziosi su vari campi del sapere e nei quali il nobile passa per essere un dotto e una specie di esperto. In astrologia è ritenuto più che un dilettante, dal momento che non possiede solo la terminologia generica ma è in grado di descrivere puntualmente i vari movimenti degli astri nella volta celeste: da tempo egli sostiene le teorie del Cardano contro quelle di un altro dotto che si rifà a quelle dell'Alcabizio, appoggiando quindi le idee di un moderno contro quelle degli antichi. Conosce anche la storia di questa scienza e riconosce ad essa la capacità di predire eventi futuri, benché alcune previsioni siano risultate sbagliate per l'ignoranza di chi si è esercitato negli studi astrologici.
È anche discretamente esperto di filosofia antica, da cui molto ha appreso grazie alla lettura di Diogene Laerzio, mentre l'autore che considera il supremo maestro è ovviamente Aristotele, per cui conserva le opere anche dei suoi seguaci moderni: non vuol leggere gli scritti dei suoi detrattori, per non buttar via tempo e denaro, eccezion fatta per alcuni libri del già citato Cardano, da lui considerato un grande ingegno a dispetto del suo anti-aristotelismo. Don Ferrante è considerato da molti un fedele seguace delle teorie aristoteliche, benché egli ritenga con modestia di non conoscere fino in fondo le sottili dottrine di quel filosofo eccelso.
La biblioteca di don Ferrante: libri di naturalistica, di magia, di storia
Don Ferrante è anche appassionato di filosofia naturale, pur essendosi limitato a leggere le opere di Aristotele su questa materia e anche quella di Plinio il Vecchio, dando un'occhiata anche al trattato di G. B. Della Porta e ai libri del Cardano, nonché all'opera di Alberto Magno su erbe, piante e animali. Pur non essendo un esperto, il nobile conosce alcune delle più interessanti bizzarrie della natura, come la natura delle sirene e dell'araba fenice, il fatto che la salamandra non bruci nel fuoco, che la remora sia in grado di arrestare il corso di una nave, che le gocce di rugiada diventino perle nelle conchiglie, che il camaleonte si nutra d'aria e che dal ghiaccio abbia origine il cristallo.
Egli è senz'altro più esperto di magia e stregoneria e ne ha letto molti trattati, con l'unico scopo di conoscere le arti malefiche degli incantatori per potersi difendere da essi: grazie alle opere eccelse dello scrittore Martino Delrio è in grado di discutere come un dotto delle arti magiche più diffuse ai suoi tempi, quali ad esempio i filtri d'amore, gli incantesimi per far dormire e le "fatture" che provocano un danno, le quali causano effetti dolorosi dai quali è bene stare in guardia. Conosce molto bene anche la storia universale, di cui possiede molte opere prodotte dagli autori più noti e rinomati al suo tempo, anche se essi sono del tutto sconosciuti al giorno d'oggi.
fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xxvii.html