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Capitolo XVIII

"Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio,
vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere,
e nel farlo rendere con gli altri, non c'era il suo compagno.
Un parlare ambiguo, un tacere significativo,
un restare a mezzo, uno stringer d'occhi che esprimeva:
non posso parlare; un lusingare senza promettere,
un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine;
e tutto, o più o meno, tornava in pro..."

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I Promessi Sposi
 · 6 years ago
F. Gonin, Il conte zio
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F. Gonin, Il conte zio

Personaggi: Lucia, Agnese, padre Cristoforo, don Rodrigo, il conte Attilio, la fattoressa, Gertrude, il Griso, l'innominato, il podestà di Lecco, il console, il conte zio, fra Galdino, il pesciaiolo

Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, Milano, Monza, il palazzotto di don Rodrigo, Pescarenico

Tempi: 13 novembre 1628 e settimane successive

Temi: La giustizia, Il tumulto di S. Martino, Nobiltà e potere, Chiesa e religione

Trama: Il podestà di Lecco riceve un dispaccio da Milano e perquisisce la casa di Renzo. Lucia e Agnese apprendono che il giovane è fuggito nel Bergamasco, quindi Agnese torna al paese. La donna va a Pescarenico, ma fra Galdino la informa che padre Cristoforo è stato inviato a Rimini. Il Griso informa Don Rodrigo che Lucia è nel convento di Monza e il signorotto medita di rivolgersi all'innominato. Il conte Attilio chiede l'intervento del conte zio per far trasferire padre Cristoforo.

F. Gonin, L'inchiesta del podestà
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F. Gonin, L'inchiesta del podestà

Il podestà perquisisce la casa di Renzo

Il 13 novembre il podestà di Lecco riceve un dispaccio da Milano, in cui gli si ordina di accertare se Renzo sia tornato al suo paese e di perquisire la sua casa, onde riferire al capitano di giustizia ogni informazione relativa al giovane ricercato. Il magistrato, dopo essersi sincerato che Renzo non è tornato al villaggio, va a perquisire la sua casa insieme al console, a un notaio criminale e ai birri, che mettono a soqquadro l'abitazione e sottraggono tutto ciò che vi trovano, compreso il denaro lasciato lì dal giovane. La cosa arriva all'orecchio di padre Cristoforo, il quale, in ansia per le sorti del suo protetto, scrive subito a padre Bonaventura a Milano per avere ragguagli; intanto la giustizia interroga parenti e amici di Renzo e si diffonde la voce che il giovane sia sfuggito all'arresto e abbia fatto perdere le proprie tracce, anche se nessuno crede alle accuse mosse nei suoi confronti. Gli abitanti del paese tendono invece ad attribuire tutto a delle oscure trame di don Rodrigo, che avrebbe ordito tutto questo per liberarsi del suo rivale, anche se il signorotto è ovviamente estraneo all'intera faccenda.

Don Rodrigo decide di rivolgersi all'innominato


Don Rodrigo non è intervenuto nelle disavventure di Renzo, tuttavia se ne compiace parlandone col conte Attilio, il quale ha rinunciato a recarsi a Milano per parlare col conte zio in attesa che il tumulto in città si plachi (teme infatti di subire le vendette di qualche popolano da lui offeso in passato). La notizia delle ricerche di Renzo gli fa capire che le cose sono tornate alla normalità, dunque parte subito dopo alla volta di Milano esortando il cugino a non desistere dall'impresa, tanto più che ben presto padre Cristoforo non sarà più un ostacolo e i guai giudiziari di Renzo saranno un bell'aiuto in questo senso. Poco dopo giunge il Griso di ritorno da Monza, il quale informa il padrone di avere scoperto che Lucia è rifugiata nel convento di Gertrude e che non ne esce mai, anche se si fa un certo parlare della sua presenza lì. Don Rodrigo è irritato, in quanto molte circostanze favoriscono i suoi disegni (il bando contro Renzo, il prossimo allontanamento di padre Cristoforo...), tuttavia la presenza di Lucia in quel monastero complica terribilmente le cose, dal momento che il nobile non è certo in grado di farla rapire da quel luogo. È quasi tentato di abbandonare il suo capriccio e di andare a Milano a spassarsela con gli amici, ma il pensiero che Attilio abbia informato tutti della scommessa e, per conseguenza, il timore di subire beffe e scorni lo trattiene, specie ora che tutto sembra a portata di mano per andare fino in fondo all'impresa, mentre teme anche di perdere il suo prestigio e la sua autorità fra la gente del paese dovendo ingoiare quell'amaro boccone. Accarezza pertanto l'idea di chiedere l'aiuto di un famoso e potente bandito (l'innominato) che avrebbe i mezzi necessari per sostenerlo nei suoi progetti, ma è incerto pensando ai rischi che comporterebbe il rivolgersi a un uomo tanto famigerato e pericoloso; il signorotto riflette per qualche giorno, finché non riceve una lettera del cugino che lo informa che la questione di padre Cristoforo è ormai risolta e, a conferma di ciò, poco dopo il frate se ne va da Pescarenico. Arriva anche la notizia che Agnese è tornata in paese, il che spinge don Rodrigo a risolversi a quel passo tanto azzardato.

F. Gonin, Lucia e Agnese al convento
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F. Gonin, Lucia e Agnese al convento

Lucia e Agnese apprendono dei guai di Renzo

L'autore fa un passo indietro e spiega che Lucia e Agnese sono arrivate da poco al convento di Monza, quando si sparge in città la notizia del tumulto di Milano: la fattoressa raccoglie molte voci e le riferisce alle due donne, aggiungendo che la giustizia ha arrestato alcuni capi della rivolta e li impiccherà presto, e fra questi ne è scappato uno proveniente da Lecco, anche se la donna non se sa ancora il nome. Le due donne iniziano a sospettare che possa trattarsi di Renzo e poco dopo la fattoressa conferma che è proprio lui, notizia che lascia la povera Lucia del tutto sgomenta. Agnese riesce a mantenere un certo contegno con la fattoressa e si limita a dire che conosce Renzo come un giovane dabbene, mentre l'altra spiega che è scappato non si sa dove e rischia l'impiccagione come gli altri, il che lascia le due donne in preda ai più atroci dubbi circa la sorte del giovane filatore.

F. Gonin, Lucia sconsolata
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F. Gonin, Lucia sconsolata

Il pesciaiolo porta notizie di padre Cristoforo. Lucia e Gertrude

Finalmente un giovedì giunge a Monza un pesciaiolo di Pescarenico, che si reca abitualmente a Milano a vendere la sua merce ed è passato al convento a cercare di Agnese su incarico di padre Cristoforo: l'uomo informa le due donne che Renzo è effettivamente ricercato dalla legge, ma è scappato ed è in salvo nel Bergamasco; il frate lo ha incaricato di esortarle ad avere fede e da parte sua promette di aiutarle come potrà, comunicando con loro attraverso quel mezzo. La notizia è un gran sollievo per Lucia, la quale nel frattempo continua i suoi colloqui nel parlatorio con Gertrude, che si è affezionata a lei: la monaca le racconta la sua vicenda, omettendo naturalmente i particolari più scabrosi, e Lucia diventa più comprensiva verso le stranezze della "Signora", specie pensando a quanto la madre le ha detto sui nobili. La giovane non rivela a Gertrude ciò che ha appreso sul conto di Renzo, per evitare inutili pettegolezzi, ed è altrettanto imbarazzata quando la monaca la spinge a parlare del suo rapporto col promesso sposo, dal momento che l'amore è per lei ragione di turbamento e rossore. Talvolta Gertrude è un po' irritata da tanto riserbo, ma la monaca capisce l'innocenza e il candore di Lucia e lo paragona alla sua condotta licenziosa, per cui prova conforto al pensiero di fare del bene a quella giovane perseguitata. Lucia a sua volta trae beneficio da questi colloqui e, per non pensare ai suoi guai, lavora e cuce di continuo, anche se non può fare a meno di ripensare al passato.

Agnese in viaggio (ediz. 1840)
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Agnese in viaggio (ediz. 1840)

Agnese torna al paese

Il secondo giovedì del mese Agnese e Lucia ricevono una nuova visita del pesciaiolo, che conferma la fuga felice di Renzo anche se non ci sono notizie più precise, dal momento che padre Cristoforo non ha saputo nulla da padre Bonaventura (gli era stato riferito che un campagnolo si era presentato al convento e in seguito non si era ripresentato). Il terzo giovedì il pesciaiolo non ritorna e questo crea non poche inquietudini nelle due donne, tanto che Agnese decide di tornare al paese a parlare direttamente con padre Cristoforo, benché Lucia non sia tranquilla all'idea di lasciare la madre. La protezione offerta dal convento tuttavia la rassicura e così Agnese attende il pesciaiolo sulla strada verso casa, chiedendogli di accompagnarla a Pescarenico col suo baroccio e domandando se per caso ha notizie del frate. L'uomo risponde di non saper nulla e accetta di portare la donna a casa, per cui Agnese si congeda da Lucia e da Gertrude promettendo di fare avere presto notizie e si allontana da Monza.

Agnese e fra Galdino (ed. 1840)
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Agnese e fra Galdino (ed. 1840)

Fra Galdino informa Agnese che padre Cristoforo è partito

Agnese e il pesciaiolo arrivano il giorno dopo a Pescarenico di buon'ora, dopo aver riposato parte della notte in un'osteria, e la donna si reca subito al convento dei cappuccini per conferire con padre Cristoforo: suona il campanello e la porta è aperta da fra Galdino, il laico cercatore delle noci. Agnese chiede subito di padre Cristoforo, ma l'altro risponde che non c'è e non si sa quando tornerà, poiché è andato a Rimini, un paese molto lontano da lì: la donna, allibita, chiede perché se ne sia andato e fra Galdino spiega che è stata una decisione del padre provinciale, dettata forse dall'esigenza di inviare in quella città un predicatore di talento come Cristoforo. Agnese esprime tutto il suo disappunto essendole venuto a mancare un importante sostegno e fra Galdino le propone ingenuamente di rivolgersi ad altri padri del convento, suscitando tuttavia l'impazienza della donna che, ovviamente, avrebbe bisogno di padre Cristoforo che conosce bene la situazione sua e di Lucia. Agnese ringrazia il frate della sua cortesia e si allontana sconsolata, tornando al suo paese senza avere risolto nulla e molto incerta sull'avvenire.

F. Gonin, Il conte zio a Madrid
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F. Gonin, Il conte zio a Madrid

Il conte zio

L'autore a questo punto interrompe la narrazione e fa un passo indietro, per spiegare i veri motivi dell'improvvisa partenza di padre Cristoforo: il conte Attilio, appena arrivato a Milano, si è infatti recato da uno zio suo e del cugino don Rodrigo, membro del Consiglio Segreto dello Stato di Milano e politico di peso notevole (il Consiglio Segreto è formato da tredici membri tra magistrati e militari, che forniscono pareri al governatore e fra cui viene scelto il suo successore in caso di morte o rimozione). Il conte zio è un nobile tra i più influenti di quel Consiglio e tutto nella sua condotta è studiato al fine di alimentare la sua fama di fine politico, che si fonda principalmente sull'arte sottile della simulazione e dissimulazione. Di recente si è recato a Madrid per una missione alla corte spagnola e, in quell'occasione, ha ricevuto una straordinaria accoglienza da parte di tutti, specie del conte-duca che gli ha chiesto se gli piaccia la capitale del regno e gli ha rivelato che, per lui, il duomo di Milano è la chiesa più imponente dei vasti domini del sovrano Filippo IV.

F. Gonin, Attilio e il conte zio
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F. Gonin, Attilio e il conte zio

Attilio parla di padre Cristoforo al conte zio

Il conte Attilio rivolge i soliti complimenti al conte zio da parte sua e del cugino Rodrigo, quindi inizia a parlargli con contegno serio di una questione che, a suo dire, è delicata e necessita dell'intervento dell'uomo di Stato. Attilio spiega che al paese c'è un frate che crea fastidi al cugino, il quale non ha colpa di nulla ed è provocato in tutte le maniere dal cappuccino, il quale, insinua il conte, protegge per fini non del tutto limpidi una contadina di quelle parti (alla volgare calunnia il conte zio assume un'espressione di furbesca malignità). Attilio aggiunge che il frate è conosciuto per essere un intrigante e un nemico dei nobili, infatti il religioso accusa Rodrigo di perseguitare la giovane benché ciò non sia vero (il conte ammette solo che il cugino possa aver rivolto alla ragazza delle lievi molestie) e parla male di lui cercando di sollevargli contro tutto il paese, mentre gli altri cappuccini non se ne curano perché lo conoscono come una testa calda. Attilio afferma che il frate sa benissimo che Rodrigo è nipote del conte zio e questo, non che atterrirlo, lo incaponisce ancor di più nell'impresa di opporsi al signorotto, affermando che l'ordine dei cappuccini può tener testa alla nobiltà. Il conte zio, non poco irritato, chiede il nome del frate e Attilio gli rivela trattarsi di padre Cristoforo, aggiungendo che in gioventù è stato un ricco borghese che ha voluto vivere come un nobile e si è fatto frate per evitare l'impiccagione, dopo aver ucciso un gentiluomo in un duello. Il conte zio prende nota del nome di Cristoforo in un libriccino e impreca contro la sua temerarietà, dicendosi intenzionato a punirla.

F. Gonin, Gli omaggi di Attilio allo zio
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F. Gonin, Gli omaggi di Attilio allo zio

Attilio suggerisce al conte zio di rivolgersi al padre provinciale

Attilio prosegue dicendo che padre Cristoforo è più che mai arrabbiato con Rodrigo, dal momento che gli è andato a monte il progetto di fare sposare la ragazza con un uomo manovrato da lui, un pessimo soggetto di cui il conte zio ha senz'altro sentito parlare: si tratta di Renzo Tramaglino, il filatore di seta coinvolto nel tumulto di S. Martino e ricercato dalla legge, al che il conte zio si mostra decisamente indignato. L'uomo rimprovera il nipote per il fatto che don Rodrigo non si è rivolto a lui prima e Attilio spiega che, da un lato, non voleva dare allo zio un'ulteriore preoccupazione in mezzo agli affari di Stato, dall'altro Rodrigo è intenzionato a farsi giustizia da sé contro il frate, motivo che ha spinto lui a riferire la cosa allo zio per ottenere il suo intervento. Attilio suggerisce all'uomo politico di esercitare pressioni sul padre provinciale dei cappuccini per fare trasferire Cristoforo da Pescarenico e salvare così l'onore del casato, al che il conte zio reagisce con stizza dicendo che tocca a lui pensare a queste cose, anche se è chiaro che raccoglierà il suggerimento del nipote. Attilio si affretta a precisare che Rodrigo ha la stessa sua fiducia nelle capacità dello zio e non si è rivolto a lui direttamente per non dargli pensieri, quindi lo zio congeda il nipote dopo il consueto scambio di saluti stucchevoli.


Temi principali e collegamenti


- Con questo capitolo si chiude la parentesi narrativa dedicata alle disavventure di Renzo (XI-XVII) e se ne apre un'altra che racconterà le tribolazioni di Lucia, destinata a chiudersi nel cap. XXVI: tornano in scena quasi tutti i personaggi principali della vicenda, mentre l'autore usa la tecnica già vista del flashback per spiegare fatti avvenuti in precedenza (il ritorno a casa di Agnese e la partenza di padre Cristoforo). Da questo momento il ritmo narrativo subirà un'accelerazione, dal momento che nei primi diciassette capitoli sono state narrate le vicende di soli cinque giorni e mezzo, dal 7 al 13 novembre 1628, mentre da qui in poi la narrazione diventerà più distesa e la seconda parte del romanzo coprirà un arco di tempo di circa due anni.

- Nelle pagine iniziali è molto evidente la polemica dell'autore contro la giustizia, dal momento che il podestà, amico e complice del malvagio don Rodrigo, è invece fin troppo sollecito a dare corso alle indagini su Renzo e a perquisire la sua casa, che viene sottoposta a un vero saccheggio. Dal canto suo il signorotto approfitterà dei guai giudiziari di Renzo per proseguire nella sua impresa, in ciò aiutato anche dal cugino Attilio (la giustizia è inerte nei confronti dei nobili prepotenti, ma è spietata contro i poveri anche quando sono innocenti).

- Si conferma che il motivo principale che spinge don Rodrigo a perseguitare Lucia è soprattutto il puntiglio cavalleresco, il timore di essere sbeffeggiato e deriso dagli altri amici nobili: stimolo potente a non rinunciare all'impresa è il conte Attilio, il quale, dopo aver vinto la famosa scommessa, prende il capriccio del cugino come oggetto di sciocco e frivolo divertimento, al punto da coinvolgere addirittura lo zio membro del governo di Milano (su questo si veda oltre). Don Rodrigo si decide alla fine a chiedere l'aiuto dell'innominato, che comparirà nel cap. XX e diventerà uno dei personaggi centrali nello sviluppo della vicenda.

- L'autore spiega come Gertrude stia stringendo un rapporto più che affettuoso con Lucia, la quale a sua volta trae consolazione dai suoi colloqui con la "Signora": ciò anticipa il terribile dilemma cui si troverà di fronte la monaca quando il suo amante Egidio, nel cap. XX, le chiederà di collaborare al rapimento della giovane, richiesta alla quale essa dovrà forzatamente obbedire.

- L'autore accenna tra l'altro per la prima e unica volta in modo esplicito all'amore tra Lucia e Renzo, per dire che l'argomento risulta troppo "scabroso" perché la ragazza ne parli in maniera disinvolta (il pudore persino eccessivo di Lucia risalta per contrasto con la condotta peccaminosa di Gertrude, che anche per questo mostra di apprezzare la sua protetta).

- Ritorna in scena fra Galdino, il laico cercatore delle noci già apparso nel cap. III che qui informa Agnese della partenza di padre Cristoforo per Rimini: l'uomo dimostra ancora una volta la sua estrema semplicità, anzitutto quando attribuisce l'ordine di trasferimento da parte del padre provinciale alla volontà di mandare a Rimini un valente predicatore, in seguito quando propone ingenuamente ad Agnese di parlare con altri frati del convento, passandoli in rassegna come se fossero merci da valorizzare (la descrizione di padre Zaccaria, quasi l'opposto di padre Cristoforo, è un felice esempio dell'arte manzoniana di realizzare bozzetti in poche righe). In realtà, come si vedrà nel cap. XIX, il padre provinciale ha agito su impulso del conte zio e non certo per motivi caritatevoli. Nel Fermo e Lucia (II, 8) padre Cristoforo veniva invece trasferito a Palermo e la notizia veniva a data ad Agnese da un frate portinaio.

- Il conte zio è il protagonista dell'ultima parte del capitolo e rappresenta la quintessenza della politica come arte della finzione e della simulazione, esecrata in quanto tale dal romanziere: tronfio e vanaglorioso, mostra più di un'affinità col gran cancelliere spagnolo Antonio Ferrer e accetta di intervenire contro padre Cristoforo per la solita malintesa concezione dell'onore cavalleresco, che è la leva abilmente usata dal nipote Attilio per muoverlo a suo piacimento (cfr. E. Donadoni, Il conte zio).

F. Gonin, Attilio e don Rodrigo
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F. Gonin, Attilio e don Rodrigo

Il conte Attilio, vero motore degli intrighi del romanzo

Se don Rodrigo è il responsabile della persecuzione ai danni di Lucia e, quindi, della macchina narrativa che dà avvio al romanzo, è però vero che il signorotto ha una sorta di alter ego nel cugino Attilio, che con la sua frivolezza e il suo atteggiamento beffardo è in un certo senso il mandante delle sue malefatte, prodigandosi anche a spianargli la strada nella realizzazione dei suoi intenti: non va dimenticato che tutto nasce dalla famosa scommessa fatta con il conte e che è proprio Attilio a incitare il cugino ad andare avanti a dispetto delle difficoltà, ogni volta che il nobile è tentato all'idea di rinunciare all'impresa (ciò avviene nel cap. XI, dopo lo scadere del termine posto alla scommessa, e poi nel cap. XVIII, quando Attilio provvede a rimuovere l'ostacolo di padre Cristoforo grazie all'intervento del potente conte zio). Attilio è il tipico rappresentante di quella nobiltà oziosa e improduttiva cui appartiene anche Rodrigo e che è fortemente criticata dall'autore, anche perché i suoi membri non esitano a commettere odiosi soprusi ai danni dei contadini e dei poveri, per soddisfare capricciose passioni (come nel caso di don Rodrigo) oppure, che è più grave, per trovare uno sciocco diversivo alla loro vita inerte e annoiata (ed è proprio il caso dello "spensierato" Attilio, come il narratore lo definisce presentandolo in scena nel cap. V). Egli è divertito all'idea che il cugino si sia messo in testa di sedurre una povera popolana e lo incita continuamente nel perseguire questo obiettivo, dapprima con la scusa della scommessa e poi, dopo S. Martino, col pretesto di non venir meno all'onore che contraddistingue la condizione dei nobili e a cui il conte si mostra gelosamente attaccato anche più di don Rodrigo (del resto era lui a discutere col podestà di una questione di puntiglio cavalleresco, durante la quale gli aveva ricordato di sapere bene "ciò che conviene a un cavaliere"). Ed è chiaro che la persecuzione ai danni di Lucia diventa per lui un turpe oggetto di beffa e divertimento, forse ai danni dello stesso Rodrigo che, più o meno consapevolmente, si trasforma in bersaglio delle sue ironie (lui stesso nel cap. XVIII si mostra preoccupato che Attilio abbia "preso la tromba" e l'abbia deriso agli occhi degli altri amici nobili, stimolo che lo induce a non desistere dal suo infame proposito), mentre il conte è assai meno preoccupato del cugino delle possibili implicazioni giudiziarie della faccenda, tanto che dopo il fallito rapimento della ragazza canzona il signorotto accusandolo di prendere "sul serio anche il podestà". Per Attilio tutto è divertimento perché nulla è davvero serio, quindi la sua assoluta mancanza di scrupoli spinge sempre più don Rodrigo sulla strada del male, mostrando anche una certa capacità di iniziativa che è sconosciuta al suo complice e grazie alla quale non solo intuisce che la presenza di padre Cristoforo può costituire un impaccio alla soddisfazione delle brame del cugino, ma decide di provvedere prima possibile al suo allontanamento da Pescarenico, scopo per il quale non esita a coinvolgere l'influente e altolocato conte zio.
È del resto Attilio a mantenere le "pubbliche relazioni" col potente uomo di Stato, come appare chiaro durante il loro colloquio (XIX) che è anche il compendio di tutte le doti negative del giovane nobile, ovvero la capacità di simulare, di mentire, di sfruttare i difetti dell'interlocutore per farli tornare a proprio vantaggio: infatti Attilio si mostra untuoso e servile con lo zio, ricordandogli spesso gli affari di Stato e solleticando in questo modo la sua vanità, mentre la sua richiesta di intervento contro il frate cappuccino è tutta basata sul concetto di "onore" nobiliare, cui lo zio è evidentemente assai sensibile. Il nipote è del resto abile a distorcere i fatti manipolando la realtà a vantaggio di don Rodrigo, senza dire nulla di realmente falso e, tuttavia, facendo apparire le cose in maniera lontanissima dal vero: non nega l'interesse del cugino per Lucia, che neppure nomina, ma minimizza la cosa insinuando anzi il sospetto che il frate sia invaghito di lei; accentua lo scontro tra lui e Rodrigo, che in effetti c'è stato ma per impedire un sopruso che lui si guarda bene dal citare; evidenzia i rapporti tra il cappuccino e Renzo, presentato come sovversivo ricercato dalla legge, e, dunque, pericoloso soggetto; sottolinea le origini borghesi di padre Cristoforo e ricorda con malizia che ha ucciso un nobile in un duello, fatto reale ma che ha provocato una grave lacerazione interiore in Lodovico, che naturalmente il conte ignora. Alla fine la necessità di prevenire uno scandalo e preservare così l'onore del casato convince il conte zio a intervenire, accogliendo il suggerimento di Attilio di fare pressioni sul padre provinciale dei cappuccini, anche se egli è abile a farglielo balenare come se fosse un'idea balzana (il nipote si fa beffe dello zio, specie quando scuote la testa accusando se stesso di superficialità: "Ah è vero!... Son io l'uomo da dar pareri al signore zio!") e sapendo bene che otterrà il suo intento mettendo al proprio servizio lo zio di cui non ha certo una grande stima, come era chiaro già nel cap. XI ("Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro!"). Non è dunque casuale che il personaggio del conte Attilio scompaia dal romanzo dopo questo colloquio, dal momento che in seguito ci sarà l'intervento dell'innominato e, dopo la sua conversione e la liberazione di Lucia, tutti i piani di don Rodrigo andranno in fumo, per cui verrà meno qualsiasi necessità di un suo diretto intervento nelle vicende dei protagonisti, non essendoci più alcuna ragione di divertimento e di beffa; la presenza sulla scena del personaggio è funzionale alle malefatte di don Rodrigo, di cui egli è ispiratore e suggeritore, mentre diventa superflua quando ogni occasione di svago è preclusa e quando la vicenda si sposta su fatti più seri e drammatici, come la calata in Lombardia dei lanzichenecchi e il propagarsi dell'epidemia di peste, durante la quale il nobile trova la morte (e giova ricordare che essa è citata all'inizio del cap. XXXIII con beffarda ironia, col dire che il suo bizzarro elogio funebre è stato recitato da don Rodrigo a una brigata di amici, né si poteva immaginare un commiato migliore per il frivolo conte, che ha trascorso un'inutile esistenza tra gli scherzi e le beffe e se ne va accompagnato da un macabro scherzo del suo compagno di bagordi, nonché, si può dire, dello stesso romanziere).
Per approfondire: G. Bàrberi Squarotti, Il conte Attilio, ritratto di un'anima frivola.


Capitolo XVIII
Quello stesso giorno, 13 di novembre, arriva un espresso al signor podestà di Lecco, e gli presenta un dispaccio del signor capitano di giustizia, contenente un ordine di fare ogni possibile e più opportuna inquisizione, per iscoprire se un certo giovine nominato Lorenzo Tramaglino, filatore di seta, scappato dalle forze praedicti egregii domini capitanei, sia tornato, palam vel clam, al suo paese, ignotum quale per l’appunto, verum in territorio Leuci: quod si compertum fuerit sic esse, cerchi il detto signor podestà, quanta maxima diligentia fieri poterit [1], d’averlo nelle mani, e, legato a dovere, videlizet [2] con buone manette, attesa l’esperimentata insufficienza de’ manichini per il nominato soggetto, lo faccia condurre nelle carceri, e lo ritenga lì, sotto buona custodia, per farne consegna a chi sarà spedito a prenderlo; e tanto nel caso del sì, come nel caso del no, accedatis ad domum praedicti Laurentii Tramaliini; et, facta debita diligentia, quidquid ad rem repertum fuerit auferatis; et informationes de illius prava qualitate, vita, et complicibus sumatis [3]; e di tutto il detto e il fatto, il trovato e il non trovato, il preso e il lasciato, diligenter referatis [4]. Il signor podestà, dopo essersi umanamente cerziorato che il soggetto non era tornato in paese, fa chiamare il console del villaggio, e si fa condur da lui alla casa indicata, con gran treno di notaio e di birri. La casa è chiusa; chi ha le chiavi non c’è, o non si lascia trovare. Si sfonda l’uscio; si fa la debita diligenza, vale a dire che si fa come in una città presa d’assalto. La voce di quella spedizione si sparge immediatamente per tutto il contorno; viene agli orecchi del padre Cristoforo; il quale, attonito non meno che afflitto, domanda al terzo e al quarto, per aver qualche lume intorno alla cagione d’un fatto così inaspettato; ma non raccoglie altro che congetture in aria, e scrive subito al padre Bonaventura [5], dal quale spera di poter ricevere qualche notizia più precisa. Intanto i parenti e gli amici di Renzo vengono citati a deporre ciò che posson sapere della sua prava qualità: aver nome Tramaglino è una disgrazia, una vergogna, un delitto: il paese è sottosopra. A poco a poco, si viene a sapere che Renzo è scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e poi scomparso; corre voce che abbia fatto qualcosa di grosso; ma la cosa poi non si sa dire, o si racconta in cento maniere. Quanto più è grossa, tanto meno vien creduta nel paese, dove Renzo è conosciuto per un bravo giovine: i più presumono, e vanno susurrandosi agli orecchi l’uno con l’altro, che è una macchina [6] mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo povero rivale. Tant’è vero che, a giudicar per induzione, e senza la necessaria cognizione de’ fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti.
Ma noi, co’ fatti alla mano, come si suol dire, possiamo affermare che, se colui non aveva avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però, come se fosse opera sua, e ne trionfò co’ suoi fidati, e principalmente col conte Attilio. Questo, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell’ora trovarsi già in Milano; ma, alle prime notizie del tumulto, e della canaglia che girava per le strade, in tutt’altra attitudine che di ricever bastonate, aveva creduto bene di trattenersi in campagna, fino a cose quiete. Tanto più che, avendo offeso molti, aveva qualche ragion di temere che alcuno de’ tanti, che solo per impotenza stavano cheti, non prendesse animo dalle circostanze, e giudicasse il momento buono da far le vendette di tutti. Questa sospensione non fu di lunga durata: l’ordine venuto da Milano dell’esecuzione da farsi contro Renzo era già un indizio che le cose avevan ripreso il corso ordinario; e, quasi nello stesso tempo, se n’ebbe la certezza positiva. Il conte Attilio partì immediatamente, animando il cugino a persister nell’impresa, a spuntar l’impegno, e promettendogli che, dal canto suo, metterebbe subito mano a sbrigarlo dal frate; al qual affare, il fortunato accidente dell’abietto rivale doveva fare un gioco mirabile. Appena partito Attilio, arrivò il Griso da Monza sano e salvo, e riferì al suo padrone ciò che aveva potuto raccogliere: che Lucia era ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signora; e stava sempre nascosta, come se fosse una monaca anche lei, non mettendo mai piede fuor della porta, e assistendo alle funzioni di chiesa da una finestrina con la grata: cosa che dispiaceva a molti, i quali avendo sentito motivar non so che di sue avventure, e dir gran cose del suo viso, avrebbero voluto un poco vedere come fosse fatto.
Questa relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o, per dir meglio, rendé più cattivo quello che già ci stava di casa. Tante circostanze favorevoli al suo disegno infiammavano sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio, di rabbia e d’infame capriccio, di cui la sua passione era composta. Renzo assente, sfrattato, bandito, di maniera che ogni cosa diventava lecita contro di lui, e anche la sua sposa poteva esser considerata, in certo modo, come roba di rubello [7]: il solo uomo al mondo che volesse e potesse prender le sue parti, e fare un rumore da esser sentito anche lontano e da persone alte, l’arrabbiato frate, tra poco sarebbe probabilmente anche lui fuor del caso di nuocere. Ed ecco che un nuovo impedimento, non che contrappesare tutti que’ vantaggi, li rendeva, si può dire, inutili. Un monastero di Monza, quand’anche non ci fosse stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva immaginar né via né verso d’espugnarlo, né con la forza, né per insidie. Fu quasi quasi per abbandonar l’impresa; fu per risolversi d’andare a Milano, allungando anche la strada, per non passar neppure da Monza; e a Milano, gettarsi in mezzo agli amici e ai divertimenti, per discacciar, con pensieri affatto allegri, quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici; piano un poco con questi amici. In vece d’una distrazione, poteva aspettarsi di trovar nella loro compagnia, nuovi dispiaceri: perché Attilio certamente avrebbe già preso la tromba, e messo tutti in aspettativa. Da ogni parte gli verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S’era voluto, s’era tentato; cosa s’era ottenuto? S’era preso un impegno: un impegno un po’ ignobile [8], a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s’usciva da quest’impegno? Dandola vinta a un villano e a un frate! Uh! E quando una buona sorte inaspettata, senza fatica del buon a nulla, aveva tolto di mezzo l’uno, e un abile amico l’altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della congiuntura, - e si ritirava vilmente dall’impresa. Ce n’era più del bisogno, per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada alle mani. E poi, come tornare, o come rimanere in quella villa, in quel paese, dove, lasciando da parte i ricordi incessanti e pungenti della passione, si porterebbe lo sfregio d’un colpo fallito? dove, nello stesso tempo, sarebbe cresciuto l’odio pubblico, e scemata la riputazion del potere? dove sul viso d’ogni mascalzone, anche in mezzo agl’inchini, si potrebbe leggere un amaro: l’hai ingoiata, ci ho gusto? La strada dell’iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benché vada all’ingiù.
A don Rodrigo, il quale non voleva uscirne, né dare addietro, né fermarsi, e non poteva andare avanti da sé, veniva bensì in mente un mezzo con cui potrebbe: ed era di chieder l’aiuto d’un tale [9], le cui mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà dell’imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé. Ma questo partito aveva anche i suoi inconvenienti e i suoi rischi, tanto più gravi quanto meno si potevano calcolar prima; giacché nessuno avrebbe saputo prevedere fin dove anderebbe, una volta che si fosse imbarcato con quell’uomo, potente ausiliario certamente, ma non meno assoluto e pericoloso condottiere.
Tali pensieri tennero per più giorni don Rodrigo tra un sì e un no, l’uno e l’altro più che noiosi. Venne intanto una lettera del cugino, la quale diceva che la trama era ben avviata. Poco dopo il baleno, scoppiò il tuono; vale a dire che, una bella mattina, si sentì che il padre Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico. Questo buon successo così pronto, la lettera d’Attilio che faceva un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature, fecero inclinar sempre più don Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l’ultima spinta, fu la notizia inaspettata che Agnese era tornata a casa sua: un impedimento di meno vicino a Lucia. Rendiam conto di questi due avvenimenti, cominciando dall’ultimo.
Le due povere donne s’erano appena accomodate nel loro ricovero, che si sparse per Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova di quel gran fracasso di Milano; e dietro alla nuova grande, una serie infinita di particolari, che andavano crescendo e variandosi ogni momento. La fattoressa, che, dalla sua casa, poteva tenere un orecchio alla strada, e uno al monastero, raccoglieva notizie di qui, notizie di lì, e ne faceva parte all’ospiti.
- Due, sei, otto, quattro, sette ne hanno messi in prigione; gl’impiccheranno, parte davanti al forno delle grucce, parte in cima alla strada dove c’è la casa del vicario di provvisione... Ehi, ehi, sentite questa! n’è scappato uno, che è di Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che me lo saprà dire; per veder se lo conoscete.
Quest’annunzio, con la circostanza d’esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale, diede qualche inquietudine alle donne, e principalmente a Lucia; ma pensate cosa fu quando la fattoressa venne a dir loro: - e proprio del vostro paese quello che se l’è battuta, per non essere impiccato; un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo conoscete?
A Lucia, ch’era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro di mano; impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se ne sarebbe avvista certamente, se le fosse stata più vicina. Ma era ritta sulla soglia con Agnese; la quale, conturbata anche lei, però non tanto, poté star forte; e, per risponder qualcosa, disse che, in un piccolo paese, tutti si conoscono, e che lo conosceva; ma che non sapeva pensare come mai gli fosse potuta seguire una cosa simile; perché era un giovine posato. Domandò poi se era scappato di certo, e dove.
- Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che l’accalappino ancora, può essere che sia in salvo; ma se gli torna sotto l’unghie, il vostro giovine posato...
Qui, per buona sorte, la fattoressa fu chiamata, e se n’andò: figuratevi come rimanessero la madre e la figlia. Più d’un giorno, dovettero la povera donna e la desolata fanciulla stare in una tale incertezza, a mulinare [10] sul come, sul perché, sulle conseguenze di quel fatto doloroso, a commentare, ognuna tra sé, o sottovoce tra loro, quando potevano, quelle terribili parole.
Un giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar d’Agnese. Era un pesciaiolo [11] di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l’ordinario, a spacciar la sua mercanzia; e il buon frate Cristoforo l’aveva pregato che, passando per Monza, facesse una scappata al monastero, salutasse le donne da parte sua, raccontasse loro quel che si sapeva del tristo caso di Renzo, raccomandasse loro d’aver pazienza, e confidare in Dio; e che lui povero frate non si dimenticherebbe certamente di loro, e spierebbe l’occasione di poterle aiutare; e intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro saper le sue nuove, per quel mezzo, o altrimenti. Intorno a Renzo, il messo non seppe dir altro di nuovo e di certo, se non la visita fattagli in casa, e le ricerche per averlo nelle mani; ma insieme ch’erano andate tutte a voto, e si sapeva di certo che s’era messo in salvo sul bergamasco. Una tale certezza, e non fa bisogno di dirlo, fu un gran balsamo per Lucia: d’allora in poi le sue lacrime scorsero più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la madre; e in tutte le sue preghiere, c’era mescolato un ringraziamento.
Gertrude la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta lungamente, compiacendosi dell’ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel sentirsi ringraziare e benedire ogni momento. Le raccontava anche, in confidenza, una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva patito, per andar lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia s’andava cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che sufficienti a spiegar ciò che c’era d’un po’ strano nelle maniere della sua benefattrice; tanto più con l’aiuto di quella dottrina d’Agnese su’ cervelli de’ signori. Per quanto però si sentisse portata a contraccambiare la confidenza che Gertrude le dimostrava, non le passò neppur per la testa di parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua nuova disgrazia, di dirle chi fosse quel filatore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandolo. Si schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle domande curiose di quella, sulla storia antecedente alla promessa; ma qui non eran ragioni di prudenza. Era perché alla povera innocente quella storia pareva più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c’era tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua c’era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore!
Qualche volta, Gertrude quasi s’indispettiva di quello star così sulle difese; ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza, e anche tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore così delicato, così ombroso, le dispiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella soavità d’un pensiero che le tornava ogni momento, guardando Lucia: “a questa fo del bene”. Ed era vero; perché, oltre il ricovero, que’ discorsi, quelle carezze famigliari erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel lavorar di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e dietro all’aspo, quante cose!
Il secondo giovedì, tornò quel pesciaiolo o un altro messo, co’ saluti del padre Cristoforo, e con la conferma della fuga felice di Renzo. Notizie più positive intorno a’ suoi guai, nessuna; perché, come abbiam detto al lettore, il cappuccino aveva sperato d’averle dal suo confratello di Milano, a cui l’aveva raccomandato; e questo rispose di non aver veduto né la persona, né la lettera; che uno di campagna era bensì venuto al convento, a cercar di lui; ma che, non avendocelo trovato, era andato via, e non era più comparso.
Il terzo giovedì, non si vide nessuno; e, per le povere donne, fu non solo una privazione d’un conforto desiderato e sperato, ma, come accade per ogni piccola cosa a chi è afflitto e impicciato, una cagione d’inquietudine, di cento sospetti molesti. Già prima d’allora, Agnese aveva pensato a fare una scappata a casa; questa novità di non vedere l’ambasciatore promesso, la fece risolvere. Per Lucia era una faccenda seria il rimanere distaccata dalla gonnella della madre; ma la smania di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in quell’asilo così guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deciso tra loro che Agnese anderebbe il giorno seguente ad aspettar sulla strada il pesciaiolo che doveva passar di lì, tornando da Milano; e gli chiederebbe in cortesia un posto sul baroccio, per farsi condurre a’ suoi monti. Lo trovò in fatti, gli domandò se il padre Cristoforo non gli aveva data qualche commissione per lei: il pesciaiolo, tutto il giorno avanti la sua partenza era stato a pescare, e non aveva saputo niente del padre. La donna non ebbe bisogno di pregare, per ottenere il piacere che desiderava: prese congedo dalla signora e dalla figlia, non senza lacrime, promettendo di mandar subito le sue nuove, e di tornar presto; e partì.
Nel viaggio, non accadde nulla di particolare. Riposarono parte della notte in un’osteria, secondo il solito; ripartirono innanzi giorno; e arrivaron di buon’ora a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del convento, lasciò andare il suo conduttore con molti: Dio ve ne renda merito; e giacché era lì, volle, prima d’andare a casa, vedere il suo buon frate benefattore. Sonò il campanello; chi venne a aprire, fu fra Galdino, quel delle noci.
- Oh! la mia donna, che vento v’ha portata?
- Vengo a cercare il padre Cristoforo.
- Il padre Cristoforo? Non c’è.
- Oh! starà molto a tornare?
- Ma...? - disse il frate, alzando le spalle, e ritirando nel cappuccio la testa rasa.
- Dov’è andato?
- A Rimini.
- A?
- A Rimini.
- Dov’è questo paese?
- Eh eh eh! - rispose il frate, trinciando verticalmente l’aria con la mano distesa, per significare una gran distanza.
- Oh povera me! Ma perché è andato via così all’improvviso?
- Perché ha voluto così il padre provinciale.
- E perché mandarlo via? che faceva tanto bene qui? Oh Signore!
- Se i superiori dovessero render conto degli ordini che dànno, dove sarebbe l’ubbidienza, la mia donna?
- Sì; ma questa e la mia rovina.
- Sapete cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d’un buon predicatore (ce n’abbiamo per tutto; ma alle volte ci vuol quell’uomo fatto apposta); il padre provinciale di là avrà scritto al padre provinciale di qui, se aveva un soggetto così e così; e il padre provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre Cristoforo. Dev’esser proprio così, vedete.
- Oh poveri noi! Ouand’è partito?
- Ierlaltro.
- Ecco! s’io davo retta alla mia ispirazione di venir via qualche giorno prima! E non si sa quando possa tornare? così a un di presso?
- Eh la mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui. Quando un nostro padre predicatore ha preso il volo, non si può prevedere su che ramo potrà andarsi a posare. Li cercan di qua, li cercan di là: e abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo. Supponete che, a Rimini, il padre Cristoforo faccia un gran fracasso col suo quaresimale [12]: perché non predica sempre a braccio, come faceva qui, per i pescatori e i contadini: per i pulpiti delle città, ha le sue belle prediche scritte; e fior di roba. Si sparge la voce, da quelle parti, di questo gran predicatore; e lo possono cercare da... da che so io? E allora, bisogna mandarlo; perché noi viviamo della carità di tutto il mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo.
Oh Signore! Signore! - esclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: - come devo fare, senza quell’uomo? Era quello che ci faceva da padre! Per noi è una rovina.
- Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma ce n’abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di talento, e che sanno trattare ugualmente co’ signori e co’ poveri. Volete il padre Atanasio? volete il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così mingherlino, con una vocina fessa, e una barbetta misera misera: non dico per predicare, perché ognuno ha i suoi doni; ma per dar pareri, è un uomo, sapete?
- Oh per carità! - esclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e d’impazienza, che si prova a un’esibizione in cui si trovi più la buona volontà altrui, che la propria convenienza: - cosa m’importa a me che uomo sia o non sia un altro, quando quel pover’uomo che non c’è più, era quello che sapeva le nostre cose, e aveva preparato tutto per aiutarci?
- Allora, bisogna aver pazienza.
- Questo lo so, - rispose Agnese: - scusate dell’incomodo.
- Di che cosa, la mia donna? mi dispiace per voi. E se vi risolvete di cercar qualcheduno de’ nostri padri, il convento è qui che non si move. Ehi, mi lascerò poi veder presto, per la cerca dell’olio.
- State bene, - disse Agnese; e s’incamminò verso il suo paesetto, desolata, confusa, sconcertata, come il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.
Un po’ meglio informati che fra Galdino, noi possiamo dire come andò veramente la cosa. Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva promesso a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada [13], da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato, assumeva temporaneamente il governo). Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per non dir altro, il conte duca [14] l’aveva trattato con una degnazione particolare, e ammesso alla sua confidenza, a segno d’avergli una volta domandato, in presenza, si può dire, di mezza la corte come gli piacesse Madrid, e d’avergli un’altra volta detto a quattr’occhi, nel vano d’una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.
Fatti i suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del cugino, Attilio, con un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo, disse: - credo di fare il mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signore zio d’un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar delle conseguenze...
- Qualcheduna delle sue, m’immagino.
- Per giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è riscaldato; e, come dico, non c’è che il signore zio, che possa...
- Vediamo, vediamo.
- C’è da quelle parti un frate cappuccino che l’ha con Rodrigo e la cosa è arrivata a un punto che...
- Quante volte v’ho detto, all’uno e all’altro, che i frati bisogna lasciarli cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che dànno a chi deve... a chi tocca... - E qui soffiò. - Ma voi altri che potete scansarli...
- Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l’avrebbe scansato, se avesse potuto. E il frate che l’ha con lui, che l’ha preso a provocarlo in tutte la maniere...
- Che diavolo ha codesto frate con mio nipote?
- Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di prendersela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una carità... non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa.
- Intendo, - disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere.
- Ora, da qualche tempo, - continuò Attilio, - s’è cacciato in testa questo frate, che Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa...
- S’è cacciato in testa, s’è cacciato in testa: lo conosco anch’io il signor don Rodrigo; e ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste materie.
- Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, e finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trattenerne il signore zio; il serio è che il frate s’è messo a parlar di Rodrigo come si farebbe d’un mascalzone, cerca d’aizzargli contro tutto il paese...
- E gli altri frati?
- Non se ne impicciano, perché lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall’altra parte, questo frate ha un gran credito presso i villani, perché fa poi anche il santo, e...
- M’immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.
- Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.
- Come? Come?
- Perché, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perché questo ha un protettor naturale, di tanta autorita come vossignoria: e che lui se la ride de’ grandi e de’ politici, e che il cordone di san Francesco tien legate anche le spade [15], e che...
- Oh frate temerario! Come si chiama costui?
- Fra Cristoforo da *** - disse Attilio; e il conte zio, preso da una cassetta del suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando, quel povero nome. Intanto Attilio seguitava: - è sempre stato di quell’umore, costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla vincer con tutti, ne ammazzò uno; onde, per iscansar la forca, si fece frate.
- Ma bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo, - diceva il conte zio, seguitando a soffiare.
- Ora poi, - continuava Attilio, - è più arrabbiato che mai, perché gli è andato a monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo il signore zio capirà che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai pericoli del mondo, lei m’intende, o per che altro si fosse, la voleva maritare assolutamente; e aveva trovato il... l’uomo: un’altra sua creatura, un soggetto, che, forse e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome; perché tengo per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel degno soggetto.
- Chi è costui?
- Un filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che...
- Lorenzo Tramaglino! - esclamò il conte zio. - Ma bene! ma bravo, padre! Sicuro... infatti..., aveva una lettera per un... Peccato che... Ma non importa; va bene. E perché il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto questo? perché lascia andar le cose tant’avanti, e non si rivolge a chi lo può e vuole dirigere e sostenere?
- Dirò il vero anche in questo, - proseguiva Attilio. - Da una parte, sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signore zio... - (questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica ch’era a farcele star tutte) - s’è fatto scrupolo di darle una briga di più. E poi, dirò tutto: da quello che ho potuto capire, è così irritato, così fuor de’ gangheri, così stucco [16] delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sé, in qualche maniera sommaria, che d’ottenerla in una maniera regolare, dalla prudenza e dal braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare; ma vedendo che la cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d’avvertir di tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della casa...
- Avresti fatto meglio a parlare un poco prima.
- È vero; ma io andavo sperando che la cosa svanirebbe da sé, o che il frate tornerebbe finalmente in cervello, o che se n’anderebbe da quel convento, come accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe finito. Ma...
- Ora toccherà a me a raccomodarla.
- Così ho pensato anch’io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua avvedutezza, con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo, e insieme salvar l’onore di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, dicevo io, l’ha sempre col cordone di san Francesco; ma per adoprarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario d’averlo intorno alla pancia. Il signore zio ha cento mezzi ch’io non conosco: so che il padre provinciale ha, com’è giusto, una gran deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole...
- Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria, - disse un po’ ruvidamente il conte zio.
- Ah è vero! - esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un sogghigno di compassione per sé stesso. - Son io l’uomo da dar pareri al signore zio! Ma è la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche paura d’aver fatto un altro male, - soggiunse con un’aria pensierosa: - ho paura d’aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signore zio. Non mi darei pace, se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede in lei, tutta quella sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in questo caso è proprio...
- Via, via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre amici, finché l’uno non metta giudizio. Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate una; e a me tocca di rattopparle: che... mi fareste dire uno sproposito, mi date più da pensare voi altri due, che, - e qui immaginatevi che soffio mise, - tutti questi benedetti affari di stato.
Attilio fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi si licenziò, e se n’andò, accompagnato da un - e abbiamo giudizio, - ch’era la formola di commiato del conte zio per i suoi nipoti.


Note
1. "...scappato dalle forze del suddetto egregio signor capitano, sia tornato, palesemente o di nascosto, al suo paese, del quale non si conosce il nome, quale per l'appunto, ma comunque nel territorio di Lecco: e se risulterà che è così, cerchi il detto signor podestà, con la massima diligenza che sarà possibile, d'averlo nelle mani...". Manzoni imita perfettamente il latino cancelleresco dei documenti giudiziari dell'epoca, pieno di complimenti cerimoniosi e di frasi fatte.
2. "Cioè", "vale a dire" (dal latino classico videlicet).
3. "...recatevi alla casa del suddetto Lorenzo Tramaglino; e, con la dovuta diligenza, portate via tutto ciò che sarà stato trovato di pertinente al caso; e prendete informazioni sul suo malvagio carattere, sulla sua vita e sui suoi complici".
4. "...riferite diligentemente".
5. È il frate cappuccino del convento di Porta Orientale, a Milano, cui Renzo avrebbe dovuto consegnare la lettera di padre Cristoforo.
6. Una macchinazione, un intrigo.
7. Anche la sua promessa sposa poteva esser considerata di un ribelle, quindi alla mercé di chiunque.
8. Indegno di un nobile, poiché Lucia è una contadina.
9. Si tratta dell'innominato.
10. A fantasticare, a lambiccarsi la mente.
11. Un pescivendolo.
12. Serie di prediche che si tengono durante la Quaresima.
13. Magistrati e militari.
14. Il primo ministro spagnolo, l'Olivares.
15. Attilio intende dire che, secondo il frate, l'ordine dei cappuccini può tener testa all'aristocrazia.
16. Infastidito.


fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xviii.html

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