Capitolo XIV
"-Al pane, - disse Renzo, ad alta voce
e ridendo, - ci ha pensato la provvidenza. -
E tirato fuori il terzo e ultimo di que' pani
raccolti sotto la croce di san Dionigi,
l'alzò per aria, gridando:
- ecco il pane della provvidenza!
All'esclamazione, molti si voltarono;
e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò:
- viva il pane a buon mercato! ..."
Personaggi: Renzo, Ambrogio Fusella, l'oste della Luna Piena, il popolo di Milano
Luoghi: Milano, l'osteria della Luna Piena
Tempo: 11 novembre 1628, pomeriggio-sera
Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino
Trama: Renzo arringa la folla in tumulto con un discorso, attirando l'attenzione di un poliziotto travestito che poi lo conduce all'osteria della Luna Piena. Renzo si ubriaca e finisce per rivelare il proprio nome al poliziotto, che poi lo lascia solo. Renzo, completamente ubriaco, diventa lo zimbello degli avventori.
La folla dei rivoltosi inizia a disperdersi
La folla in tumulto inizia a disperdersi e molti tornano alle proprie case, mentre un gruppo di facinorosi più violenti, insoddisfatti della conclusione della rivolta senza spargimento di sangue, si trattiene presso la porta della casa del vicario di Provvisione per vedere se si possa tentare ancora qualcosa: tuttavia i soldati spagnoli prendono posizione accanto alla casa e i rivoltosi se ne vanno, alcuni con passo più spedito e altri facendo finta di nulla. Lì intorno le strade sono ancora piene di drappelli di popolani, che si formano spontaneamente e dove tutti sembrano avere qualcosa da dire su quella giornata: alcuni sono contenti che la cosa sia finita bene e lodano il comportamento di Ferrer, pronosticando seri guai per il vicario, mentre altri (più astuti) osservano che il gran cancelliere ha preso in giro i rivoltosi e che al vicario non succederà nulla, poiché i signori si proteggono l'un l'altro. Intanto il sole sta tramontando e i popolani, stanchi di tutti gli avvenimenti della giornata, iniziano ad allontanarsi.
Renzo arringa la folla con un discorso
Renzo nel frattempo si è sottratto alla calca e inizia a sentire il bisogno di sfamarsi e di riposare, ancora agitato per le molte emozioni vissute durante la giornata. Sta cercando un'insegna di osteria dove alloggiare, dal momento che è troppo tardi per tornare al convento, quando si imbatte in un capannello di popolani intenti a discutere e, ancora eccitato per tutto ciò che ha visto in precedenza, decide di dire anche lui la sua opinione, convinto che basti manifestare un proposito di fronte alla folla perché questo venga subito messo in opera.
Renzo inizia a dire che, secondo lui, la faccenda del pane a buon mercato non è la sola che meriti l'attenzione del popolo, giacché ci sono dei tiranni che opprimono la povera gente ed esercitano contro di essa degli autentici soprusi: egli è certo che ci siano dei signori prepotenti a Milano come in campagna e una voce gli dà prontamente ragione. Renzo aggiunge che le gride ci sono, stampate in bella evidenza, ma non vengono applicate e non viene fatta giustizia ai poveri, perché c'è una "lega" di birboni che si proteggono l'uno con l'altro, anche se il re e gli altri uomini di governo vorrebbero che i malvagi venissero puniti per i loro delitti. Il giovane propone di recarsi tutti il giorno dopo da Ferrer, che si è dimostrato un galantuomo, per fargli sapere come stanno le cose e invocare il suo aiuto: Renzo rammenta la sua triste esperienza dal dottor Azzecca-garbugli, dove ha visto coi suoi occhi una grida firmata da Ferrer in persona e che riguardava proprio un caso simile al suo, anche se non ha potuto ottenere soddisfazione. Il gran cancelliere non potrà certo andare in giro in carrozza ad arrestare tutti i birboni, ma potrà comandare ai giudici e ai podestà di applicare la legge e dare la giusta punizione a chi sgarra, con l'aiuto dei popolani che saranno pronti a darsi da fare come è accaduto in questa giornata. L'uditorio ha ascoltato con interesse le sue parole e molti alla fine si complimentano e applaudono, anche se alcuni disapprovano e osservano che tutti i montanari vorranno dir la loro e questo, alla lunga, si volgerà in peggio per i poveri.
Il poliziotto conduce Renzo all'osteria
Renzo chiede a qualcuno della folla di indicargli un'osteria dove ricoverarsi, al che un tale, che ha ascoltato attentamente il suo discorso senza dir nulla, si fa avanti dicendosi pronto ad accompagnarlo in una locanda di cui conosce il padrone e dove il giovane starà benissimo. Renzo accetta volentieri e, dopo aver stretto molte mani di sconosciuti, si incammina con l'estraneo che in realtà non è altri che un poliziotto travestito, che ha intenzione di condurlo al palazzo di giustizia. Infatti l'uomo finge di discorrere alla buona col giovane, chiedendogli da dove viene e osservando che al suo paese deve aver subìto molte angherie, al che Renzo ribatte con naturale prudenza dicendo solo di venire dal territorio di Lecco. Il giovane è molto stanco e non intende camminare oltre, perciò quando vede un'insegna di osteria con sopra il simbolo della Luna Piena decide di entrare lì: l'uomo tenta di convincerlo a seguirlo oltre, adducendo come pretesto che in quella locanda non si troverebbe bene, ma Renzo non sente ragioni ed entra nel locale, seguito dal poliziotto che non intende lasciarlo (Renzo lo invita a bere un bicchiere e l'altro accetta con fare manierato). Il poliziotto, che sembra pratico del luogo, lo guida all'interno dell'osteria attraverso un piccolo cortile, entrando poi in un ampio locale illuminato dalla debole luce di due lumi che pendono dal soffitto e dove c'è una lunga tavola con due panche ai lati, con piatti, fiaschi, carte e dadi dappertutto. Molti avventori sono intenti a giocare e a bare, facendo un gran chiasso, mentre sulla tavola ci sono molte monete che, probabilmente, sono il frutto di ruberie avvenute in quella giornata di tumulto.
Renzo mostra il pane gli avventori
L'oste siede accanto al camino, attento a tutto quel che succede nel locale, poi si alza e si avvicina ai due nuovi arrivati, riconoscendo il poliziotto e imprecando tra sé poiché gli capita sempre tra i piedi quando meno lo vorrebbe: quanto a Renzo, l'uomo è convinto che sia un altro sbirro o una sua preda e da come il giovane parlerà lo capirà subito. L'oste chiede ai due cosa vogliano e Renzo ordina un fiasco di vino, quindi il giovane si siede su una panca di fronte al poliziotto e, quando l'oste porta il vino, ne beve subito un sorso. Ordina poi dello stufato e l'oste dichiara che non potrà servirgli del pane, al che Renzo tira fuori l'ultima delle pagnotte che aveva trovato vicino alla croce di S. Dionigi, al suo arrivo a Milano, mostrandola agli avventori e dicendo a voce alta che si tratta del pane della Provvidenza. Il giovane dichiara di aver avuto quel pane gratis, ma si affretta a precisare di averlo trovato e non rubato, dicendosi pronto a pagarlo al proprietario qualora lo incontrasse (le sue parole suscitano una risata generale).
Renzo spiega al poliziotto che ha davvero trovato quel pane, quindi inizia a mangiarlo e a bere vino, mentre lo sbirro dice all'oste che il giovane ha intenzione di dormire nella locanda. L'oste si avvicina con in mano un foglio di carta e una penna, chiedendo a Renzo di dirgli nome, cognome e città di provenienza, così come prescrive una grida agli osti che diano ricovero a un forestiero nella loro locanda (l'oste nel dir questo guarda fisso in volto il poliziotto).
L'oste mostra la grida a Renzo
Renzo non intende dire il proprio nome all'oste e, bevendo un altro bicchiere di vino, impreca contro tutte le gride e le leggi scritte: l'oste va a prendere un esemplare della grida di cui ha parlato e la mostra al giovane, che per tutta risposta pronuncia frasi irriguardose all'indirizzo dello stemma del governatore in cui campeggia il volto di un re moro incatenato per la gola. Renzo aggiunge che quella grida non è certo in grado di aiutarlo ad avere giustizia riguardo al suo matrimonio mandato a monte da un prepotente, quindi non ha intenzione di dire il suo nome a qualcuno che non sia un frate cappuccino da cui sia andato a confessarsi. L'oste non sa che fare e chiede indicazioni al poliziotto, il quale gli suggerisce di non insistere oltre, tanto più che Renzo ha attirato l'attenzione di tutti gli avventori che applaudono alle sue parole contro le gride. L'oste si allontana, dopo che Renzo gli ha consegnato il fiasco vuoto e gli ha chiesto di portargliene un altro con lo stesso vino: mentre si allontana, l'oste impreca tra sé contro l'ingenuità di Renzo, che è finito nelle mani della giustizia e si sta mettendo nei guai senza neppure rendersene conto, rischiando di causare fastidi anche a lui.
Renzo torna a predicare contro l'abitudine dei potenti di usare sempre la penna e la parola scritta, suscitando la battuta sarcastica di un avventore secondo il quale ciò dipende dal fatto che i signori mangiano oche e si ritrovano dunque con tante penne di cui non sanno che fare. Tutti ridono e Renzo osserva che chi ha parlato è un poeta, cioè un cervello balzano, aggiungendo poi che la parola scritta è un inganno usato dai potenti per esercitare soprusi contro i più deboli, specie quando parlano in latino per confondere le idee a un povero contadino che a malapena capisce il volgare.
Il poliziotto estorce a Renzo il suo nome
Il poliziotto si trattiene ancora in compagnia di Renzo, ricominciando a un tratto il discorso del pane a buon mercato e dicendo di avere un suo progetto grazie al quale sarebbe possibile assicurare a tutti il giusto quantitativo di pane. Renzo ascolta con attenzione, anche se la sua mente è annebbiata dai fumi dell'alcool, e l'uomo afferma che si dovrebbe imporre un prezzo massimo che vada bene per tutti, badando a distribuire il pane a seconda delle necessità di ogni famiglia. Per ottenere questo bisognerebbe dare a ciascuno un biglietto, con scritto il nome, la professione e il numero di bocche da sfamare, in modo da poter comprare il pane in proporzione adeguata: a lui, per esempio, ne dovrebbero dare uno con scritto "Ambrogio Fusella, professione spadaio, una moglie e quattro figli a carico". L'uomo chiede poi a Renzo cosa ci dovrebbe essere scritto sul suo biglietto e il giovane dice ingenuamente di chiamarsi Lorenzo Tramaglino, non ancora sposato e dunque senza figli, al che il poliziotto sembra soddisfatto e si affretta ad alzarsi, accomiatandosi da Renzo e dicendo che la sua famiglia lo sta aspettando a casa.
Renzo, ubriaco, diventa lo zimbello degli avventori
Renzo tenta invano di trattenere il poliziotto e di fargli bere un altro bicchiere di vino, ma l'uomo si libera di lui con uno strattone e si affretta a uscire in strada: il giovane fissa il bicchiere che ha riempito e, dopo aver detto alcune frasi sconclusionate al garzone dell'osteria, lo vuota d'un fiato. L'autore osserva che sarà necessario un grande amore per la verità a proseguire nel racconto in cui il protagonista della vicenda non farà una gran figura, anche se a sua parziale scusante va ricordato che Renzo non è avvezzo al bere e quei pochi bicchieri sono stati sufficienti a dargli alla testa, specie in quella giornata in cui ha vissuto forti emozioni. Il giovane tenta ancora di parlare al suo improvvisato uditorio, ma l'alcool gli annebbia il cervello e formulare le frasi diventa via via più difficile, cosa per cui beve ancora dell'altro vino; si abbandona poi a un discorso confuso, in cui accusa ancora l'oste di avergli voluto estorcere il nome per scriverlo su un foglio e gli ricorda che sono i popolani a venire a bere nella sua locanda, non certo i signori come Ferrer che si tengono lontani da certi posti (un vicino ricorda che essi bevono acqua per mantenersi lucidi e poter mentire alla povera gente). Il giovane rievoca ancora in modo confuso gli eventi della giornata e allude, senza fare nomi, alla sua vicenda personale, ricordando il suono delle campane a martello la "notte degli imbrogli", quando non era riuscito a sposare la sua promessa.
Così facendo, Renzo diventa lo zimbello di tutti gli avventori dell'osteria, che fanno a gara a prenderlo in giro e a stuzzicarlo con domande canzonatorie, alle quali il giovane montanaro talvolta risponde in modo sconclusionato, senza tuttavia mai fare i nomi delle persone conosciute (la sbornia non gli ha tolto del tutto la naturale prudenza contadina). Per buona sorte, osserva amaramente l'autore, Renzo non fa mai il nome di Lucia, giacché sarebbe un peccato vederlo diventare oggetto di burla da parte di quegli ubriaconi.
Temi principali e collegamenti
- L'episodio è fondamentale nel percorso di "formazione" di Renzo, che dopo aver assistito al tumulto per il pane si mette a "predicare in piazza" attirando l'attenzione di un poliziotto, il che sarà poi causa del suo arresto e della sua fuga nel Bergamasco (il giovane paga lo scotto della sua condotta imprudente e della sua ingenuità, specie quando rivela allo sbirro il proprio nome). Gli altri protagonisti del capitolo sono il sedicente Ambrogio Fusella, abile nel raggirare Renzo per estorcergli il suo nome, e l'oste della Luna Piena, costretto a reggere il gioco al poliziotto e irritato contro il montanaro per la sua ingenuità (i tre danno vita a una sorta di commedia delle parti, in cui Renzo è ovviamente la vittima designata e viene ingannato anche a causa della sua ubriachezza).
- Il discorso che Renzo rivolge alla folla dopo il tumulto è un piccolo capolavoro di oratoria popolare, in cui emerge tutta l'amarezza del giovane contadino per le angherie e i soprusi patiti al suo paese: ai suoi occhi di montanaro inurbato la sommossa è stata un atto di giustizia e il popolo dovrebbe andare da Ferrer per far rispettare la legge, facendo in modo che le gride siano finalmente applicate, senza rendersi conto che l'unico a subire le ritorsioni della giustizia sarà lui stesso, pur non avendo fatto nulla di male.
- L'autore guarda con simpatia Renzo e i suoi guai, ma vuole anche mettere in guardia contro i moti di piazza e le soluzioni sediziose ai problemi politici, poiché le rivolte causano troppo spesso disordini e violenze indiscriminate (alla fine del romanzo Renzo dirà di aver imparato "a non predicare in piazza", condannando in modo implicito la sua partecipazione ai tumulti di Milano).
- L'autore svela la reale identità di Ambrogio Fusella nel cap. XV, quando dirà che è un "bargello travestito" sguinzagliato dal capitano di giustizia per trovare dei capipopolo da arrestare e con cui dare un esempio alla folla in tumulto: del resto già nel cap. XII un popolano aveva detto di aver visto "certi galantuomini che giran, facendo l'indiano", alludendo proprio alla presenza di poliziotti mescolati alla folla, mentre lo stesso oste della Luna Piena lo designa come "cane", alludendo al fatto che l'uomo va a caccia di criminali. Il nome che egli fornisce a Renzo è dunque falso, come il particolare pietoso dei quattro figli che lo attendono a casa.
- Nel finale del capitolo Renzo viene mostrato completamente ubriaco, intento a dare un pessimo spettacolo di sé agli altri avventori dell'osteria: l'autore disapprova esplicitamente la sua condotta e in seguito il giovane si mostrerà assai più morigerato nel bere (specie quando andrà all'osteria di Gorgonzola, durante la sua fuga verso il Bergamasco). Durante l'intero episodio la voce del narratore si fa spesso sentire per giudicare negativamente il comportamento del protagonista, come del resto è avvenuto in diversi momenti dell'avventura milanese di Renzo (la curiosità verso il tumulto lo ha "perduto", mentre avrebbe potuto attendere in chiesa come gli era stato suggerito dal frate e come lui stesso rimpiangerà durante la sua fuga dopo l'arresto). Per approfondire: E. Raimondi, Renzo eroe cercatore.
- Renzo definisce "poeta", vale a dire cervello balzano, un avventore che pronuncia una battuta sarcastica e Manzoni osserva con ironia che questo è il significato dato alla parola da quel "guastamestieri del volgo", mentre il poeta dovrebbe essere "un sacro ingegno": è ovvio che l'autore la pensa in realtà come il popolo e che la definizione da lui data di poeta ("un abitator di Pindo, un allievo delle Muse") corrisponde alla concezione neoclassica che Manzoni ha del tutto abbandonato in questa fase della sua attività di scrittore.
Renzo all'osteria, vittima della giustizia sommaria
Il tema della giustizia negata caratterizza l'intero cap. XIV, a partire dall'improvvisato discorso che Renzo rivolge alla folla in seguito al tumulto di piazza (in cui il giovane afferma che le gride ci sono e basterebbe applicarle, per cui è necessario coinvolgere Ferrer che ai suoi occhi è il garante della legge) e in seguito nell'episodio all'osteria della Luna Piena, quando l'ingenuo montanaro è vittima dei raggiri del poliziotto travestito, che si finge suo amico al solo scopo di estorcere il suo nome per spiccare contro di lui un mandato di arresto. Nel triste "gioco delle parti" che si crea intorno a Renzo ha un ruolo chiave l'astuto oste, che tiene mano allo sbirro non certo per amore della giustizia ma solo per evitare i guai che la presenza di un sospetto sedizioso può portare al suo locale: egli è lesto a raccogliere l'indicazione che Renzo intende dormire alla locanda, chiedendogli poi il nome in virtù di una grida che mostra al giovane e che, come si apprenderà in seguito, prevede pene molto severe contro i gestori di taverne (e le gride contro gli osti "contano", a differenza delle altre che solitamente sono inapplicate e permettono ai nobili prepotenti di farla da padrone senza conseguenze). È abbastanza chiaro che questa triste commedia di cui Renzo è involontario protagonista è una parodia che svilisce la giustizia, mettendone tra l'altro in luce i meccanismi perversi che rischiano spesso di condannare un innocente sulla base di prove inconsistenti: il poliziotto ha notato Renzo quando ha arringato la folla e lo ha subito "battezzato" come uno dei capi della rivolta, pur non avendo alcuna prova a suo carico (e infatti il giovane non ha commesso alcun atto di violenza, né ha preso parte al saccheggio dei forni); in seguito, quando Renzo mostra ingenuamente il "pane della provvidenza" che afferma di aver trovato, ciò risulta una prova schiacciante della sua colpevolezza, anche se nulla dimostra che abbia rubato quella pagnotta nel corso di un assalto (infatti l'ha davvero trovata, benché le sue parole risultino poco credibili nel contesto in cui sono pronunciate e alla luce degli eventi della giornata). Il poliziotto mira soltanto a "incastrare" un popolano che ha mostrato la testa calda, per assicurare alla legge uno che abbia fama di sedizioso e ridurre la folla a più miti consigli con delle condanne esemplari, dunque il suo scopo non è quello di accertare la verità con un'indagine che si basi su prove certe e testimonianze, bensì ottenere il nome di Renzo la cui colpevolezza è già stata dimostrata senza bisogno di alcun processo, intento per il quale l'uomo (che agisce sotto mentite spoglie e non nella sua qualità di funzionario di legge) non esiterà a mentire al suo compagno ricorrendo a un subdolo raggiro, che rischia di diventare una condanna a morte per l'ingenuo contadino offuscato dai fumi dell'alcool. Tutto ciò è un chiaro esempio di giustizia sommaria, ovvero il capovolgimento di quell'ideale di giustizia "dei poveri" che Renzo ha predicato in piazza e che oltretutto rischia di rovesciarsi addosso a lui con serissime conseguenze, con un meccanismo infernale che sfugge nei suoi dettagli al povero contadino: l'autore concentra la sua critica sull'inefficienza e sulla corruzione della giustizia del Seicento, ma simili storture esistevano ancora nel XIX secolo ed erano state oggetto della pubblicistica dell'Illuminismo, come gli scritti di Pietro Verri e Cesare Beccaria dimostrano (nel trattato Dei delitti e delle pene si sottolinea la necessità di serie riforme giudiziarie, in cui all'accusato siano riconosciuti quei diritti fondamentali che oggi sono alla base della moderna civiltà giuridica). Un ulteriore esempio di giustizia sommaria in cui ai giudici non interessa scoprire la verità, ma solo trovare dei colpevoli da gettare in pasto all'opinione pubblica, è poi rappresentato dal caso, ben più clamoroso e nefasto nelle sue conseguenze, del processo agli untori, cui Manzoni accenna nel corso del cap. XXXII e che ricostruisce in tutti i suoi dettagli nella Storia della colonna infame pubblicata in appendice al romanzo: anche in questo caso i magistrati si comportano come il notaio criminale che arresta Renzo nel cap. XV e che nel colloquio con l'oste dimostra di aver già formulato un giudizio su Renzo e sulla sua attività di capo-sommossa, che si basa su pure congetture e che, soprattutto, non concede all'accusato la possibilità di difendersi, così come nella realtà storica non verrà concesso al Piazza e al Mora accusati di spargere la peste con unguenti venefici. Fortunatamente Renzo riuscirà a sfuggire all'arresto e a rifugiarsi nel Bergamasco dove sarà al riparo da ulteriori rappresaglie, mentre in seguito la sua "cattura" verrà revocata grazie all'intervento del marchese erede di don Rodrigo (ed è chiaro che al tempo della peste la sua vicenda è caduta nel dimenticatoio, venuto meno il fine immediato di eseguire condanne sommarie dopo la rivolta), ma nella realtà non sempre la conclusione di analoghe vicende giudiziarie è altrettanto felice e se Renzo riesce a scamparla vi sono invece molti altri innocenti caduti nelle mani della giustizia e condannati per colpe che non hanno commesso, senza aver avuto la reale possibilità di discolparsi. La morale che Manzoni intende trarre da questa vicenda e da quella, storica, degli untori non è semplicemente la massima consolatoria per cui è bene tenersi alla larga dai tumulti ed evitare di "predicare in piazza" (come Renzo dirà in modo semplicistico alla fine del romanzo), ma è la necessità di operare delle profonde riforme del sistema giudiziario che assicurino maggiori diritti all'imputato e non consentano alla magistratura di estorcere false confessioni con l'inganno o l'uso della tortura, nel solco del pensiero illuminista che l'autore segue e che rappresenta la matrice della sua visione della società (del resto il tema della giustizia attraversa largamente il romanzo e balza in evidenza sin dal cap. I, con la digressione sulle gride e sui bravi e l'affermazione che la giustizia terrena è spesso negata agli umili, al contrario di quella divina che ripartirà equamente premi e castighi nell'Aldilà).
Per approfondire: E. Raimondi, Renzo eroe cercatore.
Capitolo XIV
La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue faccende; chi s’allontanava, per respirare un po’ al largo, dopo tante ore di stretta; chi, in cerca d’amici, per ciarlare de’ gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero s’andava facendo dall’altro sbocco della strada, nella quale la gente restò abbastanza rada perché quel drappello di spagnoli potesse, senza trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario. Accosto a quella stava ancor condensato il fondaccio [1], per dir così, del tumulto; un branco di birboni, che malcontenti d’una fine così fredda e così imperfetta d’un così grand’apparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta, ch’era stata di nuovo appuntellata alla meglio. All’arrivar del drappello, tutti coloro, chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se n’andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a’ soldati, che lo presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi [2]: dove c’eran due o tre persone ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava; là tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa, e gira per l’azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi, sghignazzando, diceva: - non abbiate paura, che non l’ammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo -; chi più stizzosamente mormorava che non s’eran fatte le cose a dovere, ch’era un inganno, e ch’era stata una pazzia il far tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.
Intanto il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte d’un colore; e molti, stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il nostro giovine, dopo avere aiutato il passaggio della carrozza, finché c’era stato bisogno d’aiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le file de’ soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, e fuor di pericolo; fece un po’ di strada con la folla, e n’uscì, alla prima cantonata, per respirare anche lui un po’ liberamente. Fatto ch’ebbe pochi passi al largo, in mezzo all’agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini, recenti e confuse, sentì un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò a guardare in su, da una parte e dall’altra, cercando un’insegna d’osteria; giacché, per andare al convento de’ cappuccini, era troppo tardi. Camminando così con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e fermatosi, sentì che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato un momento a sentire, non poté tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormal, per mandare a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade, - signori miei! - gridò, in tono d’esordio: - devo dire anch’io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell’affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s’è visto chiaro che, a farsi sentire, s’ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po’ più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c’è una mano [3] di tiranni, che fanno proprio al rovescio de’ dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n’hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta, che par che gli s’abbia a rifare il resto? Già anche in Milano ce ne dev’essere la sua parte.
- Pur troppo, - disse una voce.
- Lo dicevo io, - riprese Renzo: - già le storie si raccontano anche da noi. E poi la cosa parla da sé. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un po’ in campagna, un po’ in Milano: se è un diavolo là, non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all’inferriata [4]. E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi dànno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perché c’è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s’è potuto vedere com’era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso raccontar delle belle; che ho visto io, co’ miei occhi, una grida con tanto d’arme [5] in cima, ed era stata fatta da tre [6] di quelli che possono, che d’ognuno c’era sotto il suo nome bell’e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, visto da me, co’ miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render giustizia, com’era l’intenzione di que’ tre signori, tra i quali c’era anche Ferrer, questo signor dottore, che m’aveva fatto veder la grida lui medesimo, che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada così, e ci metterà un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride, devono aver piacere che s’ubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio [7] col loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa, e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s’è fatto oggi. Non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti e tiranni: sì; ci vorrebbe l’arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de’ meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a’ dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei?
Renzo aveva parlato tanto di cuore, che, fin dall’esordio, una gran parte de’ radunati, sospeso ogni altro discorso, s’eran rivoltati a lui; e, a un certo punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso d’applausi, di - bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo, - fu come la risposta dell’udienza. Non mancaron però i critici. - Eh sì, - diceva uno: - dar retta a’ montanari: son tutti avvocati -; e se ne andava. - Ora, - mormorava un altro, - ogni scalzacane vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco, non s’avrà il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi -. Renzo però non sentì che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva l’altra. - A rivederci a domani. - Dove? - Sulla piazza del duomo. - Va bene. - Va bene. - E qualcosa si farà. - E qualcosa si farà.
- Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un’osteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo? - disse Renzo.
- Son qui io a servirvi, quel bravo giovine, - disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. - Conosco appunto un’osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo.
- Qui vicino? - domandò Renzo. - Poco distante, - rispose colui.
La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s’avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia.
- Di che cosa? - diceva colui: - una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo? - E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una, ora un’altra domanda. - Non per sapere i fatti vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite?
- Vengo, - rispose Renzo, - fino, fino da Lecco.
- Fin da Lecco? Di Lecco siete?
- Di Lecco... cioè del territorio.
- Povero giovine! per quanto ho potuto intendere da’ vostri discorsi, ve n’hanno fatte delle grosse.
- Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po’ di politica [8], per non dire in pubblico i fatti miei; ma... basta, qualche giorno si saprà; e allora... Ma qui vedo un’insegna d’osteria; e, in fede mia, non ho voglia d’andar più lontano.
- No, no! venite dov’ho detto io, che c’è poco, - disse la guida: - qui non istareste bene.
- Eh, sì; - rispose il giovine: - non sono un signorino avvezzo a star nel cotone: qualcosa alla buona da mettere in castello [9], e un saccone, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto l’uno e l’altro. Alla provvidenza! - Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l’insegna della luna piena. - Bene; vi condurrò qui, giacché vi piace così, - disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.
- Non occorre che v’incomodiate di più, - rispose Renzo. - Però, - soggiunse, - se venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere.
- Accetterò le vostre grazie, - rispose colui; e andò, come più pratico del luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s’accostò all’uscio che metteva in cucina, alzò il saliscendi, aprì, e v’entrò col suo compagno. Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole [10], che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: “noi eravamo stamattina nella ciotola d’un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt’intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private”. Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S’alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista ch’ebbe la guida, “maledetto!” disse tra sé: “che tu m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei!” Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sé: “non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai [11]: quando avrai detto due parole, ti conoscerò”. Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell’oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.
- Cosa comandan questi signori? - disse ad alta voce.
- Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero, - disse Renzo: - e poi un boccone -. Così dicendo, si buttò a sedere sur una panca, verso la cima della tavola, e mandò un - ah! - sonoro, come se volesse dire: fa bene un po’ di panca, dopo essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli venne subito in mente quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto l’ultima volta, con Lucia e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel pensiero: e vide venir l’oste col vino. Il compagno s’era messo a sedere in faccia a Renzo. Questo gli mescé subito da bere, dicendo: per bagnar le labbra -. E riempito l’altro bicchiere, lo tracannò in un sorso.
- Cosa mi darete da mangiare? - disse poi all’oste.
- Ho dello stufato: vi piace? - disse questo.
- Sì, bravo; dello stufato.
- Sarete servito, - disse l’oste a Renzo; e al garzone: - servite questo forestiero -. E s’avviò verso il cammino. - Ma... - riprese poi, tornando verso Renzo: - ma pane, non ce n’ho in questa giornata.
- Al pane, - disse Renzo, ad alta voce e ridendo, - ci ha pensato la provvidenza -. E tirato fuori il terzo e ultimo di que’ pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l’alzò per aria, gridando: - ecco il pane della provvidenza!
All’esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: - viva il pane a buon mercato!
- A buon mercato? - disse Renzo: - gratis et amore.
- Meglio, meglio.
- Ma, - soggiunse subito Renzo, - non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è ch’io l’abbia, come si suol dire, sgraffignato. L’ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo.
- Bravo! bravo! - gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de’ quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero.
- Credono ch’io canzoni; ma l’è proprio così, - disse Renzo alla sua guida; e, girando in mano quel pane, soggiunse: - vedete come l’hanno accomodato; pare una schiacciata: ma ce n’era del prossimo! Se ci si trovavan di quelli che han l’ossa un po’ tenere, saranno stati freschi -. E subito, divorati tre o quattro bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e soggiunse: - da sé non vuol andar giù questo pane. Non ho avuto mai la gola tanto secca. S’è fatto un gran gridare!
- Preparate un buon letto a questo bravo giovine, - disse la guida: - perché ha intenzione di dormir qui.
- Volete dormir qui? - domandò l’oste a Renzo, avvicinandosi alla tavola.
- Sicuro, - rispose Renzo: - un letto alla buona; basta che i lenzoli sian di bucato; perché son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia.
- Oh, in quanto a questo! - disse l’oste: andò al banco, ch’era in un angolo della cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e una penna nell’altra.
- Cosa vuol dir questo? - esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: - è il lenzolo di bucato, codesto?
L’oste, senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: - fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria [12].
- Cosa? - disse Renzo: - cosa c’entrano codeste storie col letto?
- Io fo il mio dovere, - disse l’oste, guardando in viso alla guida: - noi siamo obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene, se ha seco armi... quanto tempo ha di fermarsi in questa città... Son parole della grida.
Prima di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d’ora in poi ho paura che non li potremo più contare. Poi disse: - ah ah! avete la grida! E io fo conto d’esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle gride.
- Dico davvero, - disse l’oste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio, un proprio esemplare della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di Renzo.
- Ah! ecco! - esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e rivotandolo subito, e stendendo poi l’altra mano, con un dito teso, verso la grida: - ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quell’arme; so cosa vuol dire quella faccia d’ariano, con la corda al collo [13] -. (In cima alle gride si metteva allora l’arme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola). - Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don... basta, lo so io; come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrà fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di più. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d’altri furfanti: perché se fosse solo... - e qui finì la frase con un gesto: - se un furfantone volesse saper dov’io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi. Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova. Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste.
L’oste stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e proseguì: - ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterà. Se le gride che parlan bene, in favore de’ buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti quest’imbrogli, e porta in vece un altro fiasco; perché questo è fesso [14] -. Così dicendo, lo percosse leggermente con le nocca, e soggiunse: - senti, senti, oste, come crocchia [15].
Anche questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata l’attenzione di quelli che gli stavan d’intorno: e anche questa volta, fu applaudito dal suo uditorio.
- Cosa devo fare? - disse l’oste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per lui.
- Via, via, - gridaron molti di que’ compagnoni: - ha ragione quel giovine: son tutte angherie, trappole, impicci: legge nuova Oggi, legge nuova. In mezzo a queste grida, lo sconosciuto, dando all’oste un’occhiata di rimprovero, per quell’interrogazione troppo scoperta, disse: - lasciatelo un po’ fare a suo modo: non fate scene.
- Ho fatto il mio dovere, - disse l’oste, forte; e poi tra se: “ora ho le spalle al muro”. E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco voto, per consegnarlo al garzone.
- Porta del medesimo, - disse Renzo: - che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto come l’altro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa città.
- Del medesimo, - disse l’oste al garzone, dandogli il fiasco; e ritornò a sedere sotto la cappa del cammino. “Altro che lepre!” pensava, istoriando di nuovo la cenere: “e in che mani sei capitato! Pezzo d’asino! se vuoi affogare, affoga; ma l’oste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le tue pazzie”.
Renzo ringraziò la guida, e tutti quegli altri che avevan prese le sue parti. - Bravi amici! - disse: - ora vedo proprio che i galantuomini si dànno la mano, e si sostengono -. Poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi di nuovo in attitudine di predicatore, - gran cosa, - esclamò, - che tutti quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que’ signori d’adoprar la penna!
- Ehi, quel galantuomo di campagna! volete saperne la ragione? - disse ridendo uno di que’ giocatori, che vinceva.
- Sentiamo un poco, - rispose Renzo.
- La ragione è questa, - disse colui: - che que’ signori son loro che mangian l’oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne facciano.
Tutti si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva.
- To’, - disse Renzo: - è un poeta costui. Ce n’è anche qui de’ poeti: già ne nasce per tutto. N’ho una vena anch’io, e qualche volta ne dico delle curiose... ma quando le cose vanno bene.
Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo [16], un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perché, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?
- Ma la ragione giusta la dirò io, - soggiunse Renzo: - è perché la penna la tengon loro: e così, le parole che dicon loro, volan via, e spariscono; le parole che dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzan per aria, con quella penna, e te le inchiodano sulla carta, per servirsene, a tempo e luogo. Hanno poi anche un’altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non abbia studiato, ma che abbia un po’ di... so io quel che voglio dire... - e, per farsi intendere, andava picchiando, e come arietando [17] la fronte con la punta dell’indice; - e s’accorgono che comincia a capir l’imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa. Basta; se ne deve smetter dell’usanze! Oggi, a buon conto, s’è fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprà regolarsi, se ne farà anche delle meglio: senza torcere un capello a nessuno, però; tutto per via di giustizia.
Intanto alcuni di que’ compagnoni s’eran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a gridare; alcuni se n’andavano; altra gente arrivava; l’oste badava agli uni e agli altri: tutte cose che non hanno che fare con la nostra storia. Anche la sconosciuta guida non vedeva l’ora d’andarsene; non aveva, a quel che paresse, nessun affare in quel luogo; eppure non voleva partire prima d’aver chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si voltò a lui, riattaccò il discorso del pane; e dopo alcune di quelle frasi che, da qualche tempo, correvano per tutte le bocche, venne a metter fuori un suo progetto. - Eh! se comandassi io, - disse, - lo troverei il verso di fare andar le cose bene.
- Come vorreste fare? - domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti più del dovere, e storcendo un po’ la bocca, come per star più attento.
- Come vorrei fare? - disse colui: - vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto per i poveri, come per i ricchi.
- Ah! così va bene, - disse Renzo.
- Ecco come farei. Una meta [18] onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perché c’è degl’ingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per... il vostro nome?
- Lorenzo Tramaglino, - disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non fece attenzione ch’era tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che, per metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle persone.
- Benissimo, - disse lo sconosciuto: - ma avete moglie e figliuoli?
- Dovrei bene... figliuoli no... troppo presto... ma la moglie... se il mondo andasse come dovrebbe andare...
- Ah siete solo! Dunque abbiate pazienza, ma una porzione più piccola.
- È giusto; ma se presto, come spero... e con l’aiuto di Dio.. Basta; quando avessi moglie anch’io?
- Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione. Come v’ho detto; sempre in ragion delle bocche, - disse lo sconosciuto, alzandosi.
- Così va bene, - gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo il pugno sulla tavola: - e perché non la fanno una legge così?
- Cosa volete che vi dica? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perché penso che la moglie e i figliuoli m’aspetteranno da un pezzo.
- Un altro gocciolino, un altro gocciolino, - gridava Renzo, riempiendo in fretta il bicchiere di colui; e subito alzatosi, e acchiappatolo per una falda del farsetto, tirava forte, per farlo seder di nuovo. - Un altro gocciolino: non mi fate quest’affronto.
Ma l’amico, con una stratta, si liberò, e lasciando Renzo fare un guazzabuglio d’istanze e di rimproveri, disse di nuovo: - buona notte, - e se n’andò. Renzo seguitava ancora a predicargli, che quello era già in istrada; e poi ripiombò sulla panca. Fissò gli occhi su quel bicchiere che aveva riempito; e, vedendo passar davanti alla tavola il garzone, gli accennò di fermarsi, come se avesse qualche affare da comunicargli; poi gli accennò il bicchiere, e con una pronunzia lenta e solenne, spiccando le parole in un certo modo particolare, disse: - ecco, l’avevo preparato per quel galantuomo: vedete; pieno raso, proprio da amico; ma non l’ha voluto. Alle volte, la gente ha dell’idee curiose. Io non ci ho colpa: il mio buon cuore l’ho fatto vedere. Ora, giacché la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andare a male -. Così detto, lo prese, e lo votò in un sorso.
- Ho inteso, - disse il garzone, andandosene.
- Ah! avete inteso anche voi, - riprese Renzo: - dunque è vero. Quando le ragioni son giuste...!
Qui è necessario tutto l’amore, che portiamo alla verità, per farci proseguire fedelmente un racconto di così poco onore a un personaggio tanto principale, si potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa ragione d’imparzialità, dobbiamo però anche avvertire ch’era la prima volta, che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Que’ pochi bicchieri che aveva buttati giù da principio, l’uno dietro l’altro, contro il suo solito, parte per quell’arsione che si sentiva, parte per una certa alterazione d’animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli diedero subito alla testa: a un bevitore un po’ esercitato non avrebbero fatto altro che levargli la sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudini temperate e oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n’allontani, se ne risente subito; dimodoché se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno sproposito gli serve di scola.
Comunque sia, quando que’ primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole continuarono a andare, l’uno in giù e l’altre in su, senza misura né regola: e, al punto a cui l’abbiam lasciato, stava già come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prender per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute via senza farsi pregare, e s’eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficile. Il pensiero, che s’era presentato vivo e risoluto alla sua mente, s’annebbiava e svaniva tutt’a un tratto; e la parola, dopo essersi fatta aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per uno di que’ falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una tale circostanza, chi ha fior di senno [19] lo dica.
Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera: le molte più che tralasciamo, disdirebbero troppo; perché, non solo non hanno senso, ma non fanno vista d’averlo: condizione necessaria in un libro stampato.
- Ah oste, oste! - ricominciò, accompagnandolo con l’occhio intorno alla tavola, o sotto la cappa del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre in mezzo al chiasso della brigata: - oste che tu sei! Non posso mandarla giù... quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo par mio...! Non ti sei portato bene. Che soddisfazione, che sugo, che gusto... di mettere in carta un povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte de’ buoni figliuoli... Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone... per la ragione... Ridono eh? Ho un po’ di brio, sì... ma le ragioni le dico giuste. Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I poveri figliuoli, n’è vero? dico bene? Guarda un po’ se que’ signori delle gride vengono mai da te a bere un bicchierino.
- Tutta gente che beve acqua, - disse un vicino di Renzo.
- Vogliono stare in sé, - soggiunse un altro, - per poter dir le bugie a dovere.
- Ah! - gridò Renzo: - ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri le mie ragioni. Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco d’un quattrino? E quel cane assassino di don...? Sto zitto, perché sono in cervello anche troppo. Ferrer e il padre Crrr... so io, son due galantuomini; ma ce n’è pochi de’ galantuomini. I vecchi peggio de’ giovani; e i giovani... peggio ancora de’ vecchi. Però, son contento che non si sia fatto sangue: oibò; barbarie, da lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma... ne ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!... Eppure, anche Ferrer... qualche parolina in latino... siés baraòs trapolorum... Maledetto vizio! Viva! giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!... Là ci volevano que’ galantuomini... quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi ancora ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, ve’, allora. Tenerlo lì quel signor curato... So io a chi penso!
A questa parola, abbassò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in un pensiero: poi mise un gran sospiro, e alzò il viso, con due occhi inumiditi e lustri, con un certo accoramento così svenevole, così sguaiato, che guai se chi n’era l’oggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che già avevan cominciato a prendersi spasso dell’eloquenza appassionata e imbrogliata di Renzo, tanto più se ne presero della sua aria compunta; i più vicini dicevano agli altri: guardate; e tutti si voltavano a lui; tanto che divenne lo zimbello della brigata. Non già che tutti fossero nel loro buon senno, o nel loro qual si fosse senno ordinario; ma, per dire il vero, nessuno n’era tanto uscito, quanto il povero Renzo: e per di più era contadino. Si misero, or l’uno or l’altro, a stuzzicarlo con domande sciocche e grossolane, con cerimonie canzonatorie. Renzo, ora dava segno d’averselo per male, ora prendeva la cosa in ischerzo, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tutt’altro, ora rispondeva, ora interrogava; sempre a salti, e fuor di proposito. Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un’attenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; dimodoché anche quello che doveva esser più altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: ché troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate.
Note
1. La feccia con gli individui più violenti.
2. Capannelli, gruppi improvvisati di persone.
3. Un gruppo, un certo numero.
4. Dietro le sbarre, in carcere (espr. popolare).
5. Lo stemma del governatore, don Gonzalo.
6. Renzo si riferisce al governatore don Gonzalo, a Platonus (Marcantonio Platone, segretario del Consiglio Segreto) e a Ferrer che avevano siglato la grida letta dall'avvocato (cap. III).
7. Un documento scritto (da epitaffio, qui usato come voce popolare per indicare un avviso scritto attaccato ai muri).
8. Diplomazia, prudenza.
9. Nello stomaco.
10. Tre diversi tipi di monete che avevano corso nello Stato di Milano.
11. O un altro poliziotto, o una sua preda.
12. Luogo di nascita.
13. Renzo allude alla testa di un re moro incatenato alla gola che era mostrata nello stemma del governatore, sulla grida (gli ariani erano eretici, seguaci della dottrina del prete alessandrino Ario, vissuto nel IV sec.).
14. È vuoto.
15. Suona a vuoto.
16. Monte della Tessaglia, sacro ai poeti nell'antichità.
17. Colpendo col dito, come fosse un ariete.
18. Un prezzo massimo, un calmiere.
19. Un po' di senno (fior è voce toscana).
fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xiv.html