Capitolo XII
"All'intorno era un batter di mani
e di piedi, un frastuono di mille grida
di trionfo e d'imprecazione. L'uomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e s'addensa;
la fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon più forti. - Viva l'abbondanza!
Moiano gli affamatori! Viva il pane! ..."
Personaggi: Renzo, Antonio Ferrer, don Gonzalo, il capitano di giustizia, il popolo di Milano
Luoghi: Milano, il forno delle Grucce
Tempo: 11 novembre 1628 (nella digressione: fra l'estate 1627 e l'autunno 1628)
Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino, La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere
Trama: Digressione dell'autore sulle cause della carestia e sul calmiere imposto da Ferrer. Lo scoppio della rivolta. Renzo assiste all'assalto al forno delle Grucce. La folla si sposta alla casa del vicario di Provvisione.
Le ragioni della carestia
L'autore apre una digressione storica per spiegare le ragioni della carestia, che ha fatto seguito a un anno di raccolta scarsa (il 1627) in cui le scorte precedenti hanno in parte attenuato la penuria, mentre il 1628 è stato un anno ancora più scarso per colpa del cattivo tempo e dell'azione degli uomini. Tutto è da ricondurre all'insensata guerra di Mantova e del Monferrato accennata in precedenza, a causa della quale sono state imposte tasse troppo alte e si sono sottoposte le terre alle devastazioni delle truppe alloggiate nei paesi (spesso i contadini sono costretti ad abbandonarle e andare a mendicare il pane come miseri accattoni). Lo scarso raccolto dell'annata non è stato ancora riposto nei granai che subito esso è depredato dalle tasse e dalla cupidigia delle soldatesche, il che inasprisce ancor di più la penuria: e, sottolinea l'autore, la conseguenza inevitabile e tuttavia salutare di essa è il rincaro, ovvero l'aumento del prezzo del grano e del pane. Quando però il rincaro è ingente nasce nel popolo (e anche fra i nobili e gli intellettuali) l'idea che la causa di tutto non sia la scarsezza di grano, ma gli accaparratori che ne fanno incetta per rivenderlo a prezzo maggiorato: fornai e proprietari terrieri vengono accusati un po' da tutti di far questo, molti credono di sapere dove siano i magazzini ricolmi di frumento, altri affermano che il grano viene spedito in paesi stranieri. Il popolo di Milano chiede a gran voce ai magistrati dei provvedimenti contro i presunti incettatori e qualcosa viene fatto, come fissare il prezzo massimo di alcune merci, imporre a tutti di vendere, ma questo ovviamente non risolve il problema della carestia e non fa saltare fuori il grano che non c'è. Il popolo reclama altri provvedimenti più incisivi e purtroppo trova un uomo disposto ad assecondare i suoi voleri.
Ferrer impone il calmiere sul prezzo del pane
Il governatore dello Stato di Milano, don Gonzalo Fernandez de Cordoba, è impegnato nell'assedio di Casale e in sua vece la città è amministrata da Antonio Ferrer, gran cancelliere spagnolo. Egli pensa che sia giusto far sì che il pane abbia un prezzo ribassato, quindi fissa per legge un calmiere (un tetto massimo) sul prezzo del grano, come se questo si vendesse a 33 lire il moggio, mentre in realtà di vende sino a 80 lire: agisce come una donna non più giovane, che spera di ringiovanire alterando la carta d'identità. In altre occasioni un provvedimento così insensato rimarrebbe lettera morta, ma questa volta il popolo affamato ne pretende l'immediata esecuzione e accorre in massa ai forni, per acquistare il pane a prezzo ribassato. I fornai ovviamente protestano, ma le pene minacciate dai magistrati e l'assillo della folla li obbligano a produrre pane in continuazione, anche perché i popolani intuiscono che tale legge è contraria alle dinamiche del mercato e non durerà a lungo. I fornai tentano di far capire ai magistrati che la cosa prima o poi sarà impossibile per la penuria del grano e della farina e chiedono che il calmiere venga revocato, minacciando di smettere di produrre il pane, ma Ferrer (per incompetenza, testardaggine o semplice convinzione di essere nel giusto) non intende acconsentire e il prezzo del pane resta ribassato in forza di legge. I decurioni, magistrati cittadini che si occupano di queste faccende, informano per lettera don Gonzalo e invocano il suo intervento per risolvere la situazione che sta diventando insostenibile.
Il governatore, impegnato più mai negli affari della guerra, nomina una commissione di magistrati alla quale dà il compito di fissare il giusto prezzo al pane: i deputati si riuniscono e, dopo una seduta in cui prevalgono i complimenti e le discussioni oziose, prendono l'unica decisione logica, ovvero rincarare il pane secondo le leggi di mercato. La cosa acquieta i fornai, ma fa imbestialire il popolo, che la sera del 10 novembre 1628, prima dell'arrivo di Renzo, si riversa in strada dove si formano gruppi spontanei, tutti uniti dalla rabbia e dall'avversione per la revoca del calmiere. Molti improvvisati oratori fanno discorsi con cui spingono la folla a fare qualcosa di violento e molti mestatori di popolo ascoltano compiaciuti, decisi a intorbidire le acque quando il tumulto sarà scoppiato. Infatti il giorno seguente (S. Martino, l'11 novembre) le strade si riempiono nuovamente di popolo brulicante e irritato, in cerca di un'occasione per dare inizio alla sommossa.
Alle prime luci del giorno i garzoni escono dalle botteghe dei fornai con le gerle di pane sulle spalle, per portarlo nelle case dei nobili, e un ragazzo viene notato dalla folla che subito inveisce contro di lui accusando i fornai di nascondere il pane. Alcuni lo strattonano e tentano di afferrare la gerla, al che il garzone se ne libera e si dà alla fuga, mentre i popolani afferrano le pagnotte ancora fragranti e le distribuiscono ai presenti; quelli a cui non tocca nulla vanno in cerca di altri garzoni, che subiscono lo stesso trattamento. Il bottino è comunque assai misero e sono ancora molti quelli rimasti a bocca asciutta, per cui il popolo in rivolta si muove deciso a dare l'assalto ai forni della città.
L'assalto al forno delle Grucce. Il capitano di giustizia
Nella strada chiamata Corsia dei Servi c'è un forno che ai tempi dell'autore ha ancora lo stesso nome, ovvero il forno delle Grucce (questo è il nome in toscano, mentre quello in milanese, osserva con ironia Manzoni, è formato da parole dal suono sgradevole). Il popolo in tumulto corre verso questa bottega, dove il garzone è appena tornato privo del suo carico, e ben presto chi è all'interno sente l'urlo orrendo della folla che si avvicina. I proprietari si affrettano a sprangare porte e finestre e qualcuno va a chiedere l'intervento del capitano di giustizia, mentre intanto il popolo urla all'esterno "pane! aprite!"
Poco dopo sopraggiunge con una squadra di alabardieri al comando del capitano di giustizia, che tenta invano di disperdere la folla e di indurre i presenti a tornare a casa: l'ufficiale e i soldati si appostano di fronte all'uscio del forno, ma gli inviti del capitano ad avere giudizio e ad andarsene non valgono a nulla, anche perché la folla si ingrossa ogni momento e preme contro la porta della bottega. Il capitano dà ordine di respingere i rivoltosi senza far male a nessuno e intanto picchia alla porta, gridando che aprano e lo facciano entrare; la porta si apre, così lui e gli alabardieri riescono a entrare nella bottega e il capitano sale al piano di sopra, affacciandosi a una finestra.
Il forno viene saccheggiato dalla folla
Il capitano si rivolge alla folla e tenta di placarla con parole diplomatiche, invitando i rivoltosi a tornare a casa in cambio del perdono giudiziario, ma quelli intanto stanno già sconficcando la porta e togliendo le inferriate dalle finestre. Alcuni di loro lanciano pietre contro il capitano e una lo colpisce alla fronte, per cui l'ufficiale muta d'improvviso il tono del suo discorso e grida improperi alla folla. L'uomo si ritira all'interno e poco dopo i proprietari del forno iniziano a gettare di sotto delle pietre che hanno raccolto in precedenza, colpendo più di un rivoltoso (due ragazzi muoiono nella calca): ciò accresce ulteriormente il furore della folla, che riesce a penetrare nella bottega mentre quelli all'interno si rifugiano in soffitta o escono dagli abbaini sui tetti. I popolani saccheggiano il forno portando via il pane, oppure rubando il denaro dalla cassa, mentre altri afferrano i sacchi di farina spargendone una gran quantità in terra e sciupandola. Nel trambusto generale si solleva in aria una nube bianca di farina e all'esterno della bottega si formano ben presto due processioni di persone, una che esce dal forno col bottino e l'altra che vi entra per saccheggiarlo a sua volta.
Renzo assiste all'assalto al forno delle Grucce
Mentre la folla in tumulto dà l'assalto al forno delle Grucce, molte altre botteghe a Milano sono bersaglio della rivolta, ma qui le cose vanno diversamente in quanto i proprietari respingono i malintenzionati con l'aiuto di altri uomini, oppure distribuiscono pane ottenendo l'allontanamento dei pochi convenuti, senza contare che i soldati e le forze di polizia si fanno vedere in qualche punto della città. Ciò spinge i popolani che non hanno potuto partecipare alla sommossa a radunarsi al forno delle Grucce, in quanto lì la folla è più numerosa e non incontra resistenza, ed è proprio in questo momento che Renzo arriva sgranocchiando il pane che aveva trovato in terra, al suo ingresso in città. Il giovane osserva incuriosito il tumulto e ascolta vari discorsi della folla, che inveisce contro il governo di Milano accusandolo di nascondere il grano e il pane, mentre altri dicono che tutto è inutile e il pane verrà avvelenato dai nobili per sterminare la povera gente. Un altro rivoltoso si allontana reggendo sulle spalle un enorme sacco di farina e un altro ancora scappa via per prudenza, dicendosi certo che in mezzo alla folla ci sono poliziotti travestiti che prendono nota dei presenti, per arrestarli alla fine della rivolta. Alcuni popolani iniziano anche ad accusare il vicario di Provvisione, ovvero il magistrato che sovrintende all'approvvigionamento della città, affermando che la colpa della scarsezza di grano e della carestia è sua; altri prendono le difese del gran cancelliere Ferrer, considerato al contrario un benefattore del popolo in quanto ha imposto il calmiere sul prezzo del pane.
Renzo ascolta questi discorsi e giunge finalmente al forno delle Grucce, che ormai è semidistrutto dal furore della folla: il giovane contadino trova la cosa inopportuna, dal momento che i forni sono l'unico posto dove è possibile produrre il pane, poi vede molti rivoltosi che escono dalla bottega ciascuno con in mano un pezzo del mobilio o una suppellettile, dirigendosi tutti nella stessa direzione. Renzo è curioso e decide di seguirli, quindi vede che vanno tutti lungo la strada che costeggia il duomo e sbocca nella piazza dove altri popolani hanno acceso un gran falò, nel quale ognuno getta ciò che ha in mano per bruciarlo. Tutti i rivoltosi saltano e gridano attorno alle fiamme, inneggiando all'abbondanza e protestando contro la carestia e la Provvisione.
La folla si dirige alla casa del vicario di Provvisione
L'autore osserva con amara ironia che distruggere i forni non è il mezzo migliore per produrre il pane, ma questo è un pensiero troppo sottile per la folla in tumulto: anche Renzo ovviamente lo pensa, benché si tenga certe idee per sé temendo che i rivoltosi possano reagire in modo violento. Intanto il falò si spegne lentamente e si sparge d'improvviso la voce che nella piazza del Cordusio si dà l'assalto a un altro forno, per cui la massa dei rivoltosi inizia a dirigersi in quella direzione a piccoli gruppi. Renzo pensa dapprima se non sia meglio tornare al convento a cercare il padre Bonaventura, poi prevale la curiosità e il giovane decide di seguire la sommossa per osservare da una certa distanza gli avvenimenti (tira fuori dalla tasca il secondo pane raccolto e inizia a sbocconcellare anche questo).
Il gruppo dei rivoltosi ha imboccato la strada di Pescheria Vecchia ed è entrato nella piazza dei Mercanti, dove passa di fronte alla statua che raffigura re Filippo II che ha il braccio teso e l'atteggiamento minaccioso, tanto che i popolani non possono fare a meno di guardarlo (l'autore spiega che quella statua ai suoi tempi non c'è più, essendo stata alterata durante il periodo rivoluzionario e in seguito distrutta). Dalla piazza la folla si dirige per la via dei Fustagnai e sbocca infine al Cordusio, ma qui rimane delusa in quanto il forno è ben chiuso e protetto da gente armata all'interno, per cui i rivoltosi restano per qualche tempo incerti sul da farsi ed esitanti; a un tratto qualcuno propone a gran voce di dirigersi alla casa del vicario di Provvisione, che si trova poco distante, per assediarla e linciare il povero funzionario. Tutti accolgono la proposta come se fosse una decisione già presa in precedenza e la folla si mette subito in cammino.
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo si apre con una digressione storica che spiega le ragioni della carestia (lo sperpero e le spese inutili della guerra di Mantova e del Monferrato, di cui si è già parlato nel cap. V) e le cause della sommossa, scatenata dall'imposizione dissennata del calmiere sul prezzo del pane e poi dalla sua revoca, che fa imbestialire il popolo. L'autore critica la politica imprevidente dello Stato di Milano, che pensa più agli affari militari e di politica internazionale che non al benessere della popolazione, e sottolinea che nelle questioni economiche deve prevalere la logica di mercato, giacché imporre per legge un prezzo ribassato al pane ottiene come effetto quello di esaurire più in fretta le scorte e aggravare così la penuria (lo stesso risultato sortisce infine la rivolta).
- In tutto l'episodio è evidente la condanna morale da parte di Manzoni della sommossa e dell'atteggiamento del popolo in rivolta, definito più volte col termine spregiativo di "moltitudine" e descritto come un'orda bestiale che agisce in modo violento sotto la spinta degli impulsi primari, come la fame e la rabbia. La stessa rivolta porta a risultati contraddittori, poiché il forno delle Grucce viene completamente distrutto e vi è lo spreco di moltissima farina, il che viene criticato da Renzo col suo buon senso contadino ("se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne' pozzi?") e dall'autore stesso con amara ironia ("questa è una di quelle sottigliezze metafisiche che una moltitudine non ci arriva"). La rivolta viene presentata come un assurdo rito carnevalesco, in cui per un giorno i ruoli sociali si invertono e il popolo comanda con le sue leggi stravolte, il che è evidente soprattutto nel falò che viene acceso sulla piazza del duomo (cfr. l'approfondimento al cap. XI).
- Nella digressione viene presentato il personaggio storico di Antonio Ferrer, che comparirà direttamente sulla scena nel cap. XIII quando giungerà in carrozza per trarre in salvo il vicario di Provvisione. Già qui la sua figura è tratteggiata con ironia impietosa, poiché la sua decisione di imporre il calmiere viene derisa come assurda e contraria alle dinamiche del mercato.
Il personaggio del capitano di giustizia, ovvero l'ufficiale che aveva il compito di sovrintendere all'ordine pubblico, è uno dei più ironici e comici del romanzo: giunge in fretta e furia coi suoi alabardieri per disperdere i rivoltosi, ma questi sono in numero troppo grande perché egli possa fare qualcosa; tenta di blandire la folla con parole lusinghiere e promesse di impunità, ma non viene neppure ascoltato; quando una pietra lo colpisce in testa, il tono del suo discorso muta improvvisamente e l'uomo prorompe in un insulto ai popolani ("canaglia"), per poi nascondersi quando i rivoltosi riescono a penetrare nel forno. Il capitano rappresenta l'impotenza delle autorità cittadine di fronte al tumulto, che è conseguenza dell'inefficienza delle leggi e del sistema giudiziario.
- L'accenno alla "protuberanza sinistra della profondità metafisica", dove viene colpito da un sasso il capitano di giustizia, è forse un'ironica irrisione delle teorie del frenologo tedesco Franz Joseph Gall (1758-1828), secondo il quale lo spirito umano sarebbe ospitato in varie regioni del cervello e lo spirito metafisico si troverebbe nella bozza frontale sinistra.
- Alla fine del capitolo Renzo riflette se non sia meglio tornare al convento e attendere il ritorno del padre Bonaventura, decidendo infine di seguire la folla che si dirige alla casa del vicario: è il momento saliente della sua avventura a Milano, poiché questa sua sciagurata decisione lo porterà ad attirare l'attenzione del poliziotto travestito che causerà poi il suo arresto e la fuga nel Bergamasco (capp. XIV-XVI).
Cause e rimedi della carestia: le idee liberiste di Manzoni
La carestia che affligge il Milanese negli anni 1627-28 fa da sfondo alle prime vicende del romanzo e all'inizio del cap. XII l'autore ne illustra le ragioni profonde, da ricondurre alle cattive condizioni del tempo nei due anni precedenti e, soprattutto, agli sperperi e ai guasti provocati dalla guerra di successione del ducato di Mantova, tanto più esecrabile in quanto nata da futili ragioni dinastiche e di potere. Tuttavia le vere cause della penuria sembrano sfuggire ai più e si diffonde ben presto la voce (del tutto infondata) che il grano c'è in abbondanza, ma è accaparrato e nascosto da fornai e incettatori che lo rivendono a prezzo maggiorato: un'evidente insensatezza, ma il romanziere sottolinea che a crederci è la "moltitudine male e ben vestita", ovvero popolo e aristocrazia, come dimostrato dai discorsi sconclusionati fatti da don Rodrigo e dai suoi commensali nel banchetto del cap. V (il conte Attilio giunge a invocare una giustizia sommaria contro i fornai, che dovrebbero essere impiccati per dare l'esempio). La scarsezza del grano ha come inevitabile effetto il rincaro della farina e quindi del pane, cosa che secondo Manzoni è spiacevole per tutti ma "salutare", in quanto in base alle dinamiche di mercato il prezzo di una merce sale al diminuire della sua disponibilità e questo fa sì che essa non venga presto esaurita, come avverrebbe se fosse venduta a basso costo come nei tempi normali. È il motivo per il quale egli critica con impietosa ironia la decisione del gran cancelliere Ferrer di imporre un calmiere sul prezzo del pane, provvedimento contrario alla legge della domanda e dell'offerta e che sortisce come unico effetto l'accorrere degli acquirenti ai forni, con le proteste più che giustificate dei fornai e il rapido esaurimento delle scorte di farina, che è effettivamente scarsa e non può certo essere moltiplicata da un provvedimento di legge (Ferrer è paragonato a una donna non più giovane che pretenda di ringiovanire alterando la "fede di battesimo", ovvero l'anno di nascita). La caparbia ostinazione di Ferrer nel mantenere il calmiere dimostra la sua ignoranza in materia economica, mentre la revoca del provvedimento fa imbestialire il popolo e dunque la sommossa del giorno di S. Martino del 1628 è l'inevitabile conseguenza della dissennata politica economica e commerciale dello Stato di Milano, che non solo scatena la rabbia popolare contro i fornai e l'incolpevole vicario di Provvisione, ma aggrava la carestia accelerando l'esaurimento delle scorte di grano e precipitando la città di Milano e il Ducato in una terribile condizione di povertà. In seguito al tumulto, infatti, il prezzo del pane verrà nuovamente ribassato in forza di legge (cap. XXVIII) e lo stesso Ferrer emanerà una grida in cui si intimano pene severissime ai fornai che non vendano il pane alla nuova tariffa, per cui Manzoni osserva ironicamente che "Chi sa immaginarsi una tale grida eseguita, deve avere una bella immaginazione"; più avanti l'autore osserva che "La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con l'incendio", mentre "il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda" e tutto ciò nasce dal primo insensato provvedimento, "che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato naturalmente dalla proporzione tra il bisogno e la quantità". Il risultato ultimo è ovviamente il rapido esaurimento delle scorte e una diffusa, crescente miseria tra la popolazione nel suo complesso, situazione già terribile di per sé e ancor più grave in quanto prepara il terreno per il successivo diffondersi della peste, quando il contagio sarà stato portato nel Milanese dalle truppe tedesche.
Manzoni ha dunque una visione liberista dell'economia e del commercio in base alla quale giudica assolutamente errato qualunque intervento d'autorità per regolare lo scambio delle merci, e ciò deriva sia dalla sua formazione illuminista (è anche molto vicino alle idee di Adam Smith, pur non condividendo a pieno il suo ottimismo), sia dalla sua diretta esperienza come possidente terriero impegnato in un'opera di modernizzazione dell'agricoltura, in quanto il romanziere si occupò delle tenute di famiglia con spirito imprenditoriale e dedicò grande attenzione allo studio dei rapporti con fittavoli e operai, nonché alla sperimentazione di nuove tecniche agrarie e di nuove colture, come quella del caffè (peraltro con scarso successo). Ciò spiega in gran parte la preferenza da lui accordata all'ambiente contadino rispetto a quello urbano, come la sua convinzione che la base dell'economia debba essere l'agricoltura i cui prodotti devono circolare liberamente fra i territori e il cui prezzo deve essere fissato dalle dinamiche naturali del mercato, senza interventi statali che in questo campo non possono che essere deleteri. Naturalmente questa visione libero-scambista dei rapporti economici non deve per Manzoni essere soggetta alla logica del profitto a ogni costo, bensì regolata e temperata da un atteggiamento compassionevole e cristiano verso il prossimo, specie i più deboli che devono essere oggetto di cure e provvisioni da parte dell'autorità costituita: è in fondo la situazione che Renzo trova nel Bergamasco dopo la sua fuga da Milano, poiché Bortolo lo informa che qui "si fanno le cose con un po' più di giudizio" e la Repubblica Veneta si occupa di far arrivare il pane anche nelle campagne, superando la politica dei dazi doganali e consentendo il libero passaggio del grano da una regione all'altra, in forza della situazione di necessità. È indubbiamente questo il modello di politica economica cui Manzoni aderisce e non è certo un caso se, alla fine della vicenda del romanzo, Renzo e Lucia si stabiliscono proprio nel territorio di Bergamo, dove il giovane si trasforma in un piccolo imprenditore tessile e si integra nel tessuto sociale della nuova patria (cfr. il secondo approfondimento del cap. XXXVIII), dimostrando quelle virtù che, secondo l'autore, doveva avere anche l'aristocrazia del XIX secolo nell'adattarsi all'economia borghese nata dalla Rivoluzione e dal periodo napoleonico (la sua esaltazione dell'economia di scambio e del libero mercato è parallela alla critica dell'aristocrazia feudale e improduttiva che sfrutta la terra unicamente per mantenere i propri vizi, di cui don Rodrigo è il tipico rappresentante del XVII secolo e che all'inizio dell'Ottocento attraversava ancora un travagliato processo di trasformazione sociale).
Per approfondire: U. Dotti, Guerra, fame, peste.
Capitolo XII
Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni [1] rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta [2], alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra [3], era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell’ordinario rimanevano incolti e abbandonati da’ contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran costretti d’andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più dell’ordinario; perché le insopportabili gravezze [4], imposte con una cupidigia e con un’insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle truppe alloggiate ne’ paesi, condotta che i dolorosi documenti di que’ tempi uguagliano a quella d’un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d’un mal cronico. E quella qualunque [5] raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l’esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.
Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d’averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl’incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d’averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abbominio della moltitudine male e ben vestita [6]. Si diceva di sicuro dov’erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s’indicava il numero de’ sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell’immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne’ quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. S’imploravan da’ magistrati que’ provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l’abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d’alcune derrate, d’intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore.
Nell’assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l’assedio di Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta [7] del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio [8]: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo [9].
Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d’una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all’esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che dànno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare [10], infornare e sfornare senza posa; perché il popolo, sentendo in confuso che l’era una cosa violenta [11], assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci [12], ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dall’altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non c’era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continuare in quell’impresa, non bastava che fosse lor comandato, né che avessero molta paura; bisognava potere: e un po’ più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto. Facevan vedere ai magistrati l’iniquità e l’insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o l’altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s’erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s’avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell’abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti l’impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri l’odiosità di rivocarlo; giacché, chi può ora entrar nel cervello d’Antonio Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.
Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s’immagina certamente: nominò una giunta [13], alla quale conferì l’autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l’altra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d’allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c’era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.
La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l’aveva proferito. Tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano d’intorbidarla di più, con que’ ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell’acqua, senza farci un po’ di pesca. Migliaia d’uomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe. Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al più vicino la stessa domanda ch’era allora stata fatta a lui; quest’altro ripeteva l’esclamazione che s’era sentita risonare agli orecchi; per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi.
Non mancava altro che un’occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de’ fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d’uno di que’ malcapitati ragazzi dov’era un crocchio di gente, fu come il cadere d’un salterello [14] acceso in una polveriera. - Ecco se c’è il pane! - gridarono cento voci insieme. - Sì, per i tiranni, che notano nell’abbondanza, e voglion far morir noi di fame, - dice uno; s’accosta al ragazzetto, avventa la mano all’orlo della gerla, dà una stratta [15] , e dice: - lascia vedere -. Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne [16]. - Giù quella gerla, - si grida intanto. Molte mani l’afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all’intorno. - Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi, - dice il primo; prende un pan tondo, l’alza, facendolo vedere alla folla, l’addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell’impresa, si mossero a branchi, in cerca d’altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c’era neppur bisogno di dar l’assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c’eran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine più co’ fiocchi. - Al forno! al forno! - si grida.
Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi, c’era, e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche, che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono (El prestin di scansc.). A quella parte s’avventò la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s’avvicina; compariscono i forieri della masnada.
Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia [17]; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: - pane! pane! aprite! aprite!
Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d’alabardieri. - Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia, - grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po’ di luogo; dimodoche quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega.
- Ma figliuoli, - predicava di lì il capitano, - che fate qui? A casa, a casa. Dov’è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati? Niente di bene, ne per l’anima, né per il corpo. A casa, a casa.
Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole, quand’anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti com’erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch’essi da altri, come flutti da flutti, via via fino al l’estremità della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. - Fateli dare addietro ch’io possa riprender fiato, - diceva agli alabardieri: - ma non fate male a nessuno. Vediamo d’entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro.
- Indietro! indietro! - gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con l’aste dell’alabarde. Quelli urlano, si tirano indietro, come possono; dànno con le schiene ne’ petti, co’ gomiti nelle pance, co’ calcagni sulle punte de’ piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigìo, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un po’ di vòto s’è fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anch’essi l’un dopo l’altro, gli ultimi rattenendo la folla con l’alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e s’affaccia a una finestra. Uh, che formicolaio!
- Figliuoli, - grida: molti si voltano in su; - figliuoli, andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa.
- Pane! pane! aprite! aprite! - eran le parole più distinte nell’urlìo orrendo, che la folla mandava in risposta.
- Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!... eh! che fate laggiu! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que’ ferri; giu quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi... Ah canaglia!
Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. - Canaglia! canaglia! - continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto n’aveva in canna, le sue parole, buone e cattive, s’eran tutte dileguate e disfatte a mezz’aria, nella tempesta delle grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere l’inferriate: e già l’opera era molto avanzata.
Intanto, padroni e garzoni della bottega, ch’erano alle finestre de’ piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano di volerle buttare. Visto ch’era tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacché la calca era tale, che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe andato in terra.
- Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Ora, ora! - s’urlava di giù. Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne’ cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe’ tetti, come i gatti.
La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in vece corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrà. La folla si sparge ne’ magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: - aspetta, aspetta, - si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una madia, e prende un pezzo di pasta, che s’allunga, e gli scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello [18], lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s’intralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne.
Mentre quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari [19], e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s’eran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che [20] se n’andassero. E quelli se n’andavano, non tanto perché fosser soddisfatti, quanto perché gli alabardieri e la sbirraglia, stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla. Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato forno; perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell’impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l’impunità sicura.
A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s’avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da quel ronzìo confuso di discorsi qualche notizia più positiva dello stato delle cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscì di rilevare in tutta la strada che fece.
- Ora è scoperta, - gridava uno, - l’impostura infame di que’ birboni, che dicevano che non c’era né pane, né farina, né grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza!
- Vi dico io che tutto questo non serve a nulla, - diceva un altro: - è un buco nell’acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come mosche. Già lo dicono che siam troppi; l’hanno detto nella giunta; e lo so di certo, per averlo sentito dir io, con quest’orecchi, da una mia comare, che è amica d’un parente d’uno sguattero d’uno di que’ signori.
Parole da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto su’ capelli arruffati e insanguinati. E qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco.
- Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un povero padre di famiglia, che porta da mangiare a cinque figliuoli -. Così diceva uno che veniva barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s’ingegnava di ritirarsi, per fargli largo.
- Io? - diceva un altro, quasi sottovoce, a un suo compagno: - io me la batto. Son uomo di mondo, e so come vanno queste cose. Questi merlotti [21] che fanno ora tanto fracasso, domani o doman l’altro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura. Ho già visto certi visi, certi galantuomini che giran, facendo l’indiano, e notano chi c’è e chi non c’è: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti, e a chi tocca, tocca.
- Quello che protegge i fornai, - gridava una voce sonora, che attirò l’attenzione di Renzo, - è il vicario di provvisione.
- Son tutti birboni, - diceva un vicino.
- Sì; ma il capo è lui, - replicava il primo.
Il vicario di provvisione, eletto ogn’anno dal governatore tra sei nobili proposti dal Consiglio de’ decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con altre attribuzioni, quella principalmente dell’annona [22]. Chi occupava un tal posto doveva necessariamente, in tempi di fame e d’ignoranza, esser detto l’autore de’ mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee.
- Scellerati! - esclamava un altro: - si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver di vecce e di loglio, come volevano trattar noi.
- Pane eh? - diceva uno che cercava d’andar in fretta: - sassate di libbra: pietre di questa fatta, che venivan giù come la grandine. E che schiacciata di costole! Non vedo l’ora d’essere a casa mia.
Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta.
“Questa poi non è una bella cosa”, disse Renzo tra sé: “se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?”
Ogni tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone [23], la stanga d’una gramola [24], una panca, una paniera, un libro di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: - largo, largo, - passava tra la gente. Tutti questi s’incamminavano dalla stessa parte, e a un luogo convenuto, si vedeva. “Cos’è quest’altra storia?” pensò di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d’asse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che c’erano, e da poco in qua non ci son più [25]. La voglia d’osservar gli avvenimenti non poté fare che il montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo, per raggiunger colui che aveva preso come per guida; voltò il canto, diede un’occhiata anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal compimento [26]; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La gente era più fitta quanto più s’andava avanti, ma al portatore gli si faceva largo: egli fendeva l’onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato, arrivò con lui al centro della folla. Lì c’era uno spazio vòto, e in mezzo, un mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All’intorno era un batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e d’imprecazione.
L’uomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e s’addensa; la fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon più forti. - Viva l’abbondanza! Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane!
Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finch’è nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderle. A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli tornava ogni momento. Lo tenne per altro in sé; perché, di tanti visi, non ce n’era uno che sembrasse dire: fratello, se fallo, correggimi, che l’avrò caro.
Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s’era messo l’assedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, l’annunzio d’una cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là: - io vo; tu, vai? vengo; andiamo, - si sentiva per tutto: la calca si rompe, e diventa una processione. Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se dovesse uscir dal baccano, e ritornare al convento, in cerca del padre Bonaventura, o andare a vedere anche quest’altra. Prevalse di nuovo la curiosità. Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi ammaccar l’ossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche distanza, a osservare. E trovandosi già un poco al largo, si levò di tasca il secondo pane, e attaccandoci un morso, s’avviò alla coda dell’esercito tumultuoso.
Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II [27], che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.
Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!
Dalla piazza de’ Mercanti, la marmaglia insaccò, per quell’altr’arco, nella via de’ fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi, guardava subito verso il forno ch’era stato indicato. Ma in vece della moltitudine d’amici che s’aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava [28], chi rideva; chi si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi voleva tornare indietro, chi diceva: - avanti, avanti -. C’era un incalzare e un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: - c’è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco -. Parve il rammentarsi comune d’un concerto preso, piuttosto che l’accettazione d’una proposta. - Dal vicario! dal vicario! - è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov’era la casa nominata in un così cattivo punto.
Note
1. Le scorte accumulate.
2. Del tutto priva di scorte.
3. La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato, citata nel cap. V.
4. Le tasse, le gabelle.
5. Misera, scarsa.
6. Di tutte le classi sociali, dal popolo alla nobiltà.
7. Il tetto massimo, il calmiere.
8. Misura di capacità del grano, corrispondente a un ettolitro e mezzo circa.
9. L'anno di nascita riportato sull'attestato del battesimo.
10. Stemperare la farina con l'acqua e impastarla.
11. Contro natura, impossibile da mantenere.
12. Rimetterci (i fornai avevano ovviamente acquistato il grano a un prezzo più alto).
13. Una commissione (dallo spagnolo junta).
14. Un petardo.
15. Uno strattone.
16. Dalle cinghie.
17. Era l'ufficiale che aveva il compito di mantenere l'ordine pubblico.
18. Uno straccio lungo e stretto inchiodato ad alcune stecche, che serviva per abburattare la farina.
19. Aiutanti, gente che difendesse la bottega.
20. A patto che.
21. Sempliciotti, ingenui.
22. Il vettovagliamento della città.
23. La cassa di legno che serviva a separare la farina dalla crusca.
24. Attrezzo che veniva usato per battere la pasta e renderla soda.
25. Si tratta della via degli Scalini, che al tempo del Manzoni costeggiava il duomo a partire dall'odierno corso Vittorio Emanuele: i cinque scalini furono rimossi nel 1821.
26. La facciata del duomo fu iniziata nel 1609 e portata a termine nel 1813 per volontà di Napoleone.
27. Si tratta del re spagnolo che fu al potere tra 1556 e 1598.
28. Imprecava.
fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xii.html