Capitolo XI
"Renzo, salito per un di que' valichi sul terreno
più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo
a una città, ma sorgesse in un deserto;
e si fermò su due piedi, dimenticando
tutti i suoi guai, a contemplare
anche da lontano quell'ottava meraviglia,
di cui aveva tanto sentito parlare
fin da bambino..."
Personaggi: Don Rodrigo, il Griso, i bravi, il conte Attilio, Tonio, Gervaso, Perpetua, don Abbondio, Menico, Renzo, il frate portinaio, il popolo di Milano
Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, il palazzotto di don Rodrigo, Milano
Tempo: Dalla sera del 10 novembre al 12 novembre 1628
Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino, La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere
Trama: Il Griso riferisce a don Rodrigo l'esito infelice della spedizione per rapire Lucia. Colloquio tra don Rodrigo e Attilio. Reazione del paese alla scomparsa di Renzo, Lucia, Agnese. Il Griso scopre che Lucia è a Monza e viene mandato lì dal padrone. Renzo giunge a Milano, nel giorno del tumulto per il pane.
Il Griso e i bravi tornano al palazzo di don Rodrigo
Il Griso e i bravi fanno ritorno al palazzotto di don Rodrigo, la notte in cui hanno tentato vanamente di rapire Lucia, simili a un branco di segugi con i musi bassi e la coda tra le zampe. Il signorotto cammina nervosamente in una sala all'ultimo piano, buia, mentre attende con impazienza l'esito della spedizione: rassicura se stesso circa le possibili conseguenze dell'atto scellerato, dicendosi certo che né Renzo, né tanto meno padre Cristoforo o Agnese verranno a cercare Lucia nel suo palazzo e, quanto alla giustizia, egli può contare sull'appoggio del podestà di Lecco. Don Rodrigo già pregusta la soddisfazione di vincere la scommessa sul conte Attilio e pensa alle infami lusinghe che rivolgerà a Lucia prigioniera, quando sente dei passi in strada e, affacciatosi dalla finestra, vede con sorpresa che i bravi sono tutti rientrati senza la bussola. Il Griso va subito a fargli rapporto e il nobile, che lo attende in cima alle scale, lo apostrofa con parole dure e di scherno per il fallimento dell'impresa, al che il Griso riferisce fedelmente al padrone tutto quanto è avvenuto nelle ore precedenti, incluso ovviamente il fatto che Lucia e Agnese non si trovavano in casa. Don Rodrigo sospetta che ci possa essere una spia a palazzo, come del resto pensa anche il bravo, il quale rassicura tuttavia il padrone sul fatto che, come spera, lui e i suoi uomini non sono stati riconosciuti. Il signorotto ordina al Griso di provvedere il mattino dopo a mandare due sgherri a minacciare il console del paese (cosa che l'autore ha già narrato nelle pagine precedenti), di provvedere a portar via la bussola dal casolare vicino alla casa delle due donne, e infine di sguinzagliare altri uomini nel villaggio per scoprire cosa sia accaduto la notte prima. A questo punto sia don Rodrigo sia il Griso vanno a dormire, quest'ultimo (osserva con ironia l'autore) stanco per i rischi corsi e avendo ricevuto ingiusti rimproveri.
Colloquio tra don Rodrigo e il conte Attilio
Il mattino seguente don Rodrigo cerca il conte Attilio e questi lo prende in giro ricordandogli che è S. Martino e che ormai la scommessa è perduta. Il cugino gli rivela cosa è accaduto la notte scorsa e Attilio, con fare serio, osserva che padre Cristoforo è certamente coinvolto, rimproverando tra l'altro Rodrigo di non aver fatto bastonare il frate quando due giorni prima lo aveva affrontato nel suo palazzo. Il conte promette che penserà lui a punire come si deve il cappuccino, rivolgendosi al conte zio del Consiglio Segreto di Milano dove Attilio si recherà di lì a due giorni, benché l'altro lo preghi di non peggiorare le cose. In seguito i due fanno colazione e il padrone di casa si dice certo di non avere problemi con la giustizia, tanto più che (come ricorda Attilio) il podestà è dalla sua parte, anche se Rodrigo accusa il cugino di provocare di continuo il magistrato mettendo lui in una posizione scomoda. Attilio osserva che don Rodrigo sembra avere un po' di paura, quindi lo rassicura e promette che presto andrà dal podestà a portargli i suoi ossequi e a far sentire il peso del suo potere. Il conte esce poi dal palazzo per andare a caccia, mentre don Rodrigo attende il ritorno del Griso con le informazioni raccolte sulla notte precedente.
La reazione del paese alla scomparsa di Renzo, Lucia, Agnese
La confusione in paese della notte precedente è stata troppa perché coloro che ne sono informati non si lascino sfuggire qualche dettaglio, a cominciare da Perpetua che rivela a molte persone il fatto che Renzo, Agnese e Lucia hanno tentato il "matrimonio a sorpresa" ai danni di don Abbondio, benché la donna taccia il fatto di essere stata raggirata da Agnese. Anche Gervaso è eccitato all'idea di rivelare ciò a cui ha preso parte e che lo fa sembrare un uomo come gli altri, incurante del fatto che il fratello Tonio lo minacci perché non dica nulla, e del resto Tonio stesso si lascia scappare qualche ammissione con la moglie che a sua volta ne parla in giro. Solo Menico osserva il silenzio, in quanto i suoi genitori, atterriti all'idea che il ragazzo abbia sventato una trama di don Rodrigo, lo tengono chiuso in casa per alcuni giorni, salvo poi essere loro stessi a rivelare ai compaesani dettagli di quella vicenda, incluso quello molto importante che i tre scomparsi si sono rifugiati a Pescarenico.
Gli abitanti del villaggio non sanno tuttavia spiegare l'incursione dei bravi nella casa di Agnese e Lucia, né la presenza degli altri all'osteria (il cui padrone è abile a eludere qualsiasi domanda), mentre il pellegrino visto da due paesani confonde le idee a tutti, poiché ovviamente nessuno sospetta che si trattasse del Griso travestito. Quest'ultimo riesce poi a mettere insieme i pezzi della vicenda grazie a tutte queste informazioni raccolte da lui stesso e dai suoi bravi, così all'ora di pranzo raggiunge don Rodrigo al suo palazzo e gli fa una relazione abbastanza precisa dell'accaduto: riferisce lo stratagemma tentato dai due promessi, che spiega l'assenza di Agnese e Lucia smentendo l'ipotesi di una spia, quindi afferma che i tre si sono rifugiati a Pescarenico, dove evidentemente hanno avuto l'assistenza di padre Cristoforo. Il signorotto è furibondo per la fuga dei due giovani e per la parte avuta dal frate, perciò manda subito il Griso a Pescarenico a raccogliere altre più dettagliate informazioni, promettendogli denaro e la sua protezione.
Don Rodrigo manda il Griso a Monza
L'autore osserva con una certa ironia che l'amicizia è una gran consolazione, specie perché consente di rivelare ad altri dei segreti, ma poiché gli amici non formano coppie come gli sposi è abbastanza ovvio che questi segreti vengano ampiamente diffusi tra un gran numero di persone. Così il conduttore di calesse che ha portato i tre fuggitivi a Monza confida la cosa a un amico fidato, e questi fa la stessa cosa ad altri, finché il "segreto", passando di bocca in bocca, giunge all'orecchio del Griso che può rivelare a don Rodrigo, a tarda sera, che Agnese e Lucia si sono rifugiate in un convento a Monza e Renzo ha proseguito per Milano. Il signorotto si rallegra della separazione dei due giovani e il giorno seguente chiama subito il Griso, dandogli il denaro promesso e ordinandogli di recarsi a Monza per raccogliere ulteriori notizie sulle due donne.
Il bravo si mostra esitante e chiede al padrone di mandare qualcun altro a Monza, poiché egli ha in quella città una taglia di cento scudi sopra la sua testa e teme quindi di finire nei guai con la giustizia, cosa che ovviamente non rischia in paese in quanto è protetto dal nobile e dal podestà. Don Rodrigo lo rimprovera aspramente della sua vigliaccheria e gli dice che non dovrà certo andare da solo a Monza e che potrà farsi accompagnare dallo Sfregiato e dal Tiradritto (due bravi al suo servizio), dicendosi certo che il suo nome è abbastanza noto anche in quella città per assicurargli una certa protezione. Il Griso parte dunque per la sua missione, non senza una certa vergogna, simile a un lupo affamato che scende dai monti innevati in cerca di preda, mentre annusa l'aria sospettoso (l'autore cita un verso di un poema ancora inedito di Tommaso Grossi, amico di Manzoni che egli loda con bonaria ironia).
In seguito don Rodrigo pensa alla maniera per sbarazzarsi di Renzo usando la giustizia, magari inducendo il podestà a farlo arrestare o bandire dallo Stato per il tentativo fatto in casa del curato, ripromettendosi di parlarne al dottor Azzecca-garbugli. Il signorotto, tuttavia, non può immaginare che Renzo nel frattempo si sta comportando in modo tale da mettersi da solo nei guai con la legge, senza bisogno di alcun intervento da parte sua.
Digressione dell'autore
Manzoni interrompe la narrazione e afferma, non senza una certa ironia, di aver visto più volte un "caro fanciullo" tentare senza successo di radunare i suoi porcellini d'India che ha lasciato correre liberi per il giardino, poiché gli animali gli sfuggivano da ogni parte e non si lasciavano ricondurre al coperto: alla fine il ragazzo finiva per spingere dentro il recinto quelli più vicini all'uscio, andando poi a recuperare gli altri a seconda di dove si trovassero. L'autore dovrà fare qualcosa di simile con i personaggi del romanzo, poiché, dopo aver lasciato Agnese e Lucia per parlare di don Rodrigo, dovrà ora tornare a Renzo che è in cammino verso Milano.
Renzo giunge in vista di Milano
Renzo percorre la strada che da Monza conduce a Milano, pieno di pensieri cupi e di rabbia verso don Rodrigo che lo ha costretto a lasciare il paese e Lucia, anche se il ricordo della preghiera recitata con padre Cristoforo lo raddolcisce e lo induce a inginocchiarsi in preghiera ogni volta che trova un'immagine votiva (l'autore osserva ironicamente che, durante il viaggio, uccide e resuscita col pensiero il signorotto varie volte). Il giovane percorre una strada infossata tra due rive nel terreno, per poi salire in posizione più elevata grazie a un sentiero a scalini più ripido: da lì scorge a un tratto la sagoma del duomo di Milano, restando meravigliato di fronte a quel monumento di cui ha tanto sentito parlare fin da bambino. In seguito Renzo si volta e vede le sue montagne, tra cui il Resegone che ha dovuto lasciare, quindi prosegue e giunge in prossimità della città, di cui vede ormai case ed edifici. Si avvicina a un distinto viandante e gli chiede con cortesia quale strada conduca al convento di padre Bonaventura: l'uomo, che si allontana di fretta da Milano a causa del tumulto che è in atto, dice con altrettanta cortesia a Renzo che per indirizzarlo dovrebbe sapere di che convento si tratta, al che il giovane gli mostra la lettera avuta da fra Cristoforo. L'uomo legge "Porta Orientale" e mostra a Renzo la via per arrivarci, dicendogli di costeggiare il fossato che circonda il lazzaretto fino ad arrivare alla porta, superata la quale troverà il convento molto facilmente. L'uomo si congeda con grande gentilezza e Renzo rimane stupito dei modi garbati dei Milanesi, non sapendo che in quella giornata tutti i signori si mostrano gentili con i popolani a causa della rivolta.
Renzo trova i pani per terra. Il tumulto
Renzo segue le indicazioni e giunge presto a Porta Orientale, che all'epoca è costituita da due pilastri sormontati da una tettoia e con accanto la casupola che ospita i gabellieri. La strada che conduce entro le mura della città è tortuosa, con al centro un piccolo fossato che la divide in due e che si perde in una fogna presso la via del Borghetto (lì vicino c'è una grande croce detta di S. Dionigi, posta su di una colonna). Renzo passa attraverso la porta senza che i gabellieri si interessino a lui, cosa che lo stupisce molto ricordando i racconti di chi era stato a Milano e aveva riferito dei controlli minuziosi che aveva dovuto subire. La strada è deserta e la città pare disabitata, salvo il fatto che in lontananza si sente un vocio confuso.
Renzo prosegue il cammino e, a un tratto, vede sul terreno delle lunghe strisce bianche che sembrano di neve, cosa impossibile anche per la stagione dell'anno; il giovane osserva con più attenzione e scopre, con enorme sorpresa, che si tratta di farina. Renzo pensa che a Milano debba regnare l'abbondanza, visto che la farina viene sciupata in questo modo, ma poco dopo, giunto vicino alla colonna di S. Dionigi, vede sugli scalini del piedistallo delle cose simili a pagnotte e, incuriosito, ne raccoglie una: si tratta proprio di un pane tondo e soffice, bianchissimo, il che riempie il giovane di meraviglia e lo induce a pensare che questo sia il "paese di cuccagna", visto che il pane viene gettato via così e per di più in tempo di carestia. Renzo riflette sul da farsi e poi decide di raccogliere alcuni pani, dal momento che sono stati buttati per terra, ripromettendosi di pagarli al proprietario se mai lo incontrasse. Ne raccoglie due e ne mangia un terzo, proseguendo il cammino e desideroso di capire cosa stia succedendo in questa città.
La famiglia dei rivoltosi
Renzo prosegue e dopo un po' vede arrivare gente, a cominciare da una donna, un uomo e un ragazzo: tutti e tre portano un carico pesante, sono infarinati e sembrano pesti, doloranti. L'uomo regge sulle spalle un gran sacco che perde farina, mentre la donna regge i lembi della gonna che contiene anch'essa farina, in quantità tale che ne vola via un po' a ogni passo. Il ragazzo porta sulla testa una cesta di pani e, nel tentativo di tenere il passo dei genitori, fa cadere ogni tanto alcune pagnotte a terra. La madre lo rimprovera aspramente e, muovendosi, fa cadere anche lei un buon quantitativo di farina. Il marito invita ad andare via in fretta, mentre alcuni nuovi arrivati da fuori città chiedono ai tre dove si va a prendere il pane: la donna risponde di andare più avanti e poi osserva con l'uomo che i contadini finiranno per depredare tutti i forni di Milano, mentre il marito la invita a pensare che finalmente c'è abbondanza per tutti.
Renzo ha capito che è in corso un tumulto popolare e che i rivoltosi saccheggiano i forni per rubare il pane, cosa che gli fa istintivamente piacere sia per le ingiustizie da lui sofferte, sia per la convinzione (generalmente diffusa) che la carestia sia causata dagli incettatori di pane e che per questo sia giusto, all'occasione, impadronirsi di ciò che viene negato al popolo affamato. Decide comunque, per il momento, di tenersi fuori dalla sommossa e si affretta a raggiungere il convento dove è stato indirizzato.
Renzo arriva al convento, poi si avvicina al tumulto
Renzo raggiunge il convento dei cappuccini, che sorge in una piazzetta con quattro grandi olmi davanti: mette via il pane che stava mangiando, prepara la lettera di padre Cristoforo e tira il campanello. Si apre uno sportello con una grata e il frate portinaio gli domanda cosa voglia: Renzo dice di dover consegnare al padre Bonaventura una lettera di padre Cristoforo, al che il frate gli domanda di darla a lui. Il giovane rifiuta e afferma di doverla dare in mano a padre Bonaventura, ma il portinaio gli dice che è assente e rifiuta di fare entrare Renzo, consigliandogli di attendere in chiesa il ritorno del padre. Lo sportello si richiude e il giovane, dopo essersi incamminato verso la chiesa, è poi attratto dall'idea di vedere da vicino il tumulto: si dirige pertanto verso il vociare del popolo, incuriosito, mentre sbocconcella la mezza pagnotta che gli è rimasta. L'autore interrompe il racconto per spiegare le cause e le origini di quella sommossa popolare.
Temi principali e collegamenti
- La prima parte del capitolo è un flashback con cui Manzoni torna alla notte del 10 novembre in cui c'è stato il fallito tentativo di rapire Lucia, per poi narrare le trame di Don Rodrigo e la reazione del paese il giorno seguente, l'11 novembre. Nella seconda parte l'attenzione si sposta su Renzo, che giunge a Milano il giorno di S. Martino quando è in corso il tumulto popolare per il pane, nel quale, un po' per caso e un po' per sua colpa, si troverà coinvolto.
- Il monologo di Don Rodrigo che attende il ritorno dei bravi mostra la sua piccolezza morale e la sua mediocrità, dal momento che sembra persino timoroso dell'azione che ha ordinato: si preoccupa di chi possa venire a chiedergliene conto, confida nell'appoggio del podestà che saprà proteggerlo dalla giustizia, è certo che Renzo e gli altri non potranno trovare dei protettori perché poveri e privi di un padrone (il suo atteggiamento è lontanissimo da quello tragicamente cupo dell'innominato, come si vedrà nei capp. XX e seguenti). -
- Anche il giorno dopo cerca l'aiuto e il consiglio del conte Attilio, che osserva che il cugino è impaurito e sembra prendere troppo sul serio la giustizia (il nobile nomina il conte zio, l'influente membro del governo milanese che apparirà nei capp. XVIII-XIX).
- Nel ricostruire la reazione del paese ai fatti della "notte degli imbrogli" Manzoni offre un piccolo saggio della condotta sgangherata e ingenua del popolo: tutti sono presi dal desiderio di parlare, si fanno le congetture più assurde circa l'identità del pellegrino che altri non era se non il Griso travestito, senza che si giunga ad alcuna conclusione. Alla fine il Griso scopre senza difficoltà che cosa è successo e dove si sono rifugiati i tre fuggitivi, mentre il "matrimonio a sorpresa" sembra escludere la presenza di una spia al palazzotto (ciò salva probabilmente la vita al vecchio servitore che ha informato padre Cristoforo)
- Il Griso è bersaglio di feroce ironia da parte del narratore, che lo presenta come spaventato all'idea di partire per Monza dove, a suo dire, gli pende una taglia sulla testa: don Rodrigo lo definisce un "can da pagliaio", mentre l'autore lo paragona poi a un lupo che scende affamato dalle montagne, citando tra l'altro un verso tratto dal poema di T. Grossi I Lombardi alla prima crociata (le similitudini animalesche sono frequenti per questo personaggio, dominato da bassi istinti come la violenza, l'avidità, la paura). Il bravo darà prova di viltà anche nel cap. XXXIII, quando tradirà don Rodrigo ammalato di peste.
- Milano appare nel capitolo come ambientazione diretta del romanzo, proprio nel giorno (11 nov. 1628) in cui inizia il tumulto popolare che dà l'assalto ai forni: nel cap. XII l'autore si soffermerà sulle ragioni che hanno scatenato la sommossa, in cui anche Renzo si troverà coinvolto per le circostanze e, in parte, per la sua ingenuità (il giovane avrebbe la possibilità di entrare in chiesa e di tenersi fuori dai guai, ma la curiosità ha il sopravvento e questo sarà fonte per lui di innumerevoli guai). Viene nominato per la prima volta il lazzaretto, il luogo che sarà più ampiamente descritto nei capitoli dedicati alla peste.
- La rivolta per il pane è preannunciata, oltre che dai pani raccolti per terra da Renzo, anche dalla scombinata famigliola che porta via pane e farina, protagonista di un felicissimo bozzetto finalizzato a dare della sommossa una rappresentazione grottesca (Manzoni condanna aspramente i tumulti e l'intera descrizione dell'assalto ai forni sarà profondamente negativa).
- Con la fine del capitolo si apre una lunga parentesi narrativa che vedrà Renzo quale unico protagonista (le sue disavventure a Milano e la successiva fuga nel Bergamasco dureranno sino al cap. XVII, mentre solo nel XVIII torneranno in scena gli altri personaggi principali del romanzo).
L'inutilità delle rivolte e dei tumulti popolari
Manzoni non prova alcuna simpatia per le sollevazioni di popolo che, usando la violenza e la sopraffazione, sovvertono l'ordine costituito per fare una sorta di giustizia sommaria, quand'anche le ragioni del furore popolare siano in parte giustificate: ciò deriva dalla mentalità conservatrice dello scrittore e dalla convinzione che solo una forma di riformismo illuminato dall'alto possa modificare la situazione politica, il che lo porta anche a condannare il giacobinismo e la Rivoluzione francese che tanti orrori e lutti ha provocato negli anni del Terrore. La cosa emerge chiaramente nel romanzo nei capp. XI-XII, quando viene descritto l'assalto ai forni di Milano causato dall'insensata politica delle autorità cittadine, che però non è in alcun modo giustificato e, soprattutto, finisce per peggiorare la situazione aggravando la carestia che affligge la popolazione. È significativo a riguardo che il punto di vista sulla rivolta sia quello di Renzo, un contadino "inurbato" che osserva i fatti dall'esterno con una mentalità tipicamente campagnola, che prova un'istintiva simpatia per i rivoltosi ma non ne comprende fino in fondo le ragioni e i comportamenti: fin dal suo ingresso in città, del resto, lo spettacolo della sommossa è rappresentato con una prospettiva "straniante", in quanto il giovane vede cose che non capisce e che gli sembrano un rovesciamento della realtà (la farina sparsa a terra che scambia per neve, le pagnotte che gli sembrano sassi e che lo spingono a chiedersi se questo sia il "paese di cuccagna"). Milano appare realmente come un "mondo alla rovescia", in cui sembra regnare l'abbondanza mentre fuori, nelle campagne, infuria la carestia, anche se l'autore si affretta a precisare che ciò è solo un'illusione, dovuta al fatto che questo è un giorno speciale in cui "le cappe" si inchinano "ai farsetti" e si assiste a un temporaneo rovesciamento dei ruoli causato dall'insurrezione popolare. Questa dimensione "carnevalesca" della rivolta, in cui per un solo giorno i poveri vivono "nell'abbondanza" e comandano in base alle loro leggi, ne stravolge il significato profondo e la svilisce, specie perché tutto è visto attraverso lo sguardo incuriosito e un po' attonito di Renzo che, simile allo spettatore di una sagra paesana, osserva il tutto mangiando il pane che ha raccolto: il momento culminante della rivolta è naturalmente l'assalto al forno delle Grucce (XII), che tuttavia porta non solo allo spreco incredibile del pane e della farina (come già da parte della famigliola incontrata da Renzo all'ingresso in città), ma anche alla totale distruzione della bottega, che il popolo infuriato fa a pezzi senza una ragione precisa e guidato solo dalla cieca bestialità. Renzo osserva, col suo sano buon senso contadino, che la distruzione dei forni non è il mezzo migliore per produrre il pane ("se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne' pozzi?"), mentre la folla si abbandona a un vero rito carnascialesco gettando in un falò varie suppellettili della bottega, levando poi grida liberatorie quali "Viva l'abbondanza!", "Viva il pane!", mentre è chiaro che non c'è un preciso disegno dietro questa azione e che ben presto, alla fine di questa sfrenata "festa", si tornerà ai problemi e alle difficoltà consuete. Infatti nei giorni seguenti il governo tornerà ad abbassare il prezzo del pane e l'abbondanza sembrerà davvero tornata a Milano, ma il pane si esaurirà assai presto e il popolo dovrà accorgersi che la carestia non era un'invenzione e che la dissennata insurrezione ne ha acuito drammaticamente la portata: la condanna dei moti popolari non deriva quindi solo dal timore della violenza che inevitabilmente essi portano con sé, ma anche da considerazioni ben più profonde di carattere economico e sociale, tutte fondate sull'idea che il popolo di per sé non sa decidere in autonomia e dev'essere guidato dall'alto da chi è intellettualmente preparato per farlo, dunque solo un illuminato progetto di riforme può risolvere i problemi che il popolo, ribellandosi, aggrava ancor di più. Ciò non vuol dire che Manzoni abbracci posizioni reazionarie o che disprezzi le classi inferiori per difendere i privilegi nobiliari, ma solo che egli diffida profondamente del popolo in quanto incapace di dare un indirizzo politico alla sua azione quando è guidato dagli istinti "bestiali" della fame e del bisogno, dunque il suo è un richiamo alla responsabilità delle classi superiori nell'indirizzare il popolo verso forme di partecipazione politica che siano aliene dalla violenza, volte a una pacifica azione riformatrice della società e dei suoi problemi (in questo è ben visibile la matrice illuminista del suo pensiero, che si esprime anche in opere storiografiche come il Saggio incompiuto sulla Rivoluzione francese).
Capitolo XI
Come un branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati verso il padrone, co’ musi bassi, e con le code ciondoloni, così, in quella scompigliata notte, tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata dell’ultimo piano, che rispondeva [1] sulla spianata. Ogni tanto si fermava, tendeva l’orecchio, guardava dalle fessure dell’imposte intarlate, pieno d’impazienza e non privo d’inquietudine, non solo per l’incertezza della riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perché era la più grossa e la più arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano. S’andava però rassicurando col pensiero delle precauzioni prese per distrugger gl’indizi, se non i sospetti. “In quanto ai sospetti”, pensava, “me ne rido. Vorrei un po’ sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c’è o non c’è una ragazza. Venga, venga quel tanghero [2], che sarà ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia [3]. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà s’io fo ciarle o fatti. E poi... se mai nascesse qualche imbroglio... che so io? qualche nemico che volesse cogliere quest’occasione,... anche Attilio saprà consigliarmi: c’è impegnato l’onore di tutto il parentado”. Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perché in esso trovava insieme un acquietamento de’ dubbi, e un pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia. “Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che... il viso più umano qui son io, per bacco... che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei a pregare; e se prega”.
Mentre fa questi bei conti, sente un calpestìo, va alla finestra, apre un poco, fa capolino; son loro. “E la bussola [4]? Diavolo! dov’è la bussola? Tre, cinque, otto: ci son tutti; c’è anche il Griso; la bussola non c’è: diavolo! diavolo! il Griso me ne renderà conto”.
Entrati che furono, il Griso posò in un angolo d’una stanza terrena il suo bordone, posò il cappellaccio e il sanrocchino [5], e, come richiedeva la sua carica, che in quel momento nessuno gl’invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo. Questo l’aspettava in cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, - ebbene, - gli disse, o gli gridò: - signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame [6]?
- L’è dura, - rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, - l’è dura di ricever de’ rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.
- Com’è andata? Sentiremo, sentiremo, - disse don Rodrigo, e s’avviò verso la sua camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva disposto, fatto, veduto e non veduto, sentito, temuto, riparato; e la fece con quell’ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee.
- Tu non hai torto, e ti sei portato bene, - disse don Rodrigo: - hai fatto quello che si poteva; ma... ma, che sotto questo tetto ci fosse una spia! Se c’è, se lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c’è, te l’accomodo io; ti so dir io, Griso, che lo concio per il dì delle feste.
- Anche a me, signore, - disse il Griso, - è passato per la mente un tal sospetto: e se fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor padrone lo deve metter nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me a pagarlo. Però, da varie cose m’è parso di poter rilevare che ci dev’essere qualche altro intrigo, che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne verrà in chiaro.
- Non siete stati riconosciuti almeno?
Il Griso rispose che sperava di no; e la conclusione del discorso fu che don Rodrigo gli ordinò, per il giorno dopo, tre cose che colui avrebbe sapute ben pensare anche da sé. Spedire la mattina presto due uomini a fare al console quella tale intimazione [7], che fu poi fatta, come abbiam veduto; due altri al casolare a far la ronda, per tenerne lontano ogni ozioso che vi capitasse, e sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla notte prossima, in cui si manderebbe a prenderla; giacché per allora non conveniva fare altri movimenti da dar sospetto; andar poi lui, e mandare anche altri, de’ più disinvolti e di buona testa, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno all’imbroglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n’andò a dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle quali traspariva evidentemente l’intenzione di risarcirlo degl’improperi precipitati coi quali lo aveva accolto.
Va a dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader sotto l’unghie de’ villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa.
La mattina seguente, il Griso era fuori di nuovo in faccende, quando don Rodrigo s’alzò. Questo cercò subito del conte Attilio, il quale, vedendolo spuntare, fece un viso e un atto canzonatorio, e gli gridò: - san Martino!
- Non so cosa vi dire, - rispose don Rodrigo, arrivandogli accanto: - pagherò la scommessa; ma non è questo quel che più mi scotta. Non v’avevo detto nulla, perche, lo confesso, pensavo di farvi rimanere stamattina. Ma... basta, ora vi racconterò tutto.
- Ci ha messo uno zampino quel frate in quest’affare, - disse il cugino, dopo aver sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così balzano. - Quel frate, - continuò, - con quel suo fare di gatta morta, e con quelle sue proposizioni sciocche, io l’ho per un dirittone, e per un impiccione. E voi non vi siete fidato di me, non m’avete mai detto chiaro cosa sia venuto qui a impastocchiarvi l’altro giorno -. Don Rodrigo riferì il dialogo. - E voi avete avuto tanta sofferenza [8]? - esclamò il conte Attilio: - e l’avete lasciato andare com’era venuto?
- Che volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia?
- Non so, - disse il conte Attilio, - se, in quel momento, mi sarei ricordato che ci fossero al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, anche nelle regole della prudenza, manca la maniera di prendersi soddisfazione anche d’un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro. Basta; ha scansato la punizione che gli stava più bene; ma lo prendo io sotto la mia protezione, e voglio aver la consolazione d’insegnargli come si parla co’ pari nostri.
- Non mi fate peggio.
- Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.
- Cosa pensate di fare?
- Non lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e... il signor conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! Doman l’altro sarò a Milano, e, in una maniera o in un’altra, il frate sarà servito.
Venne intanto la colazione, la quale non interruppe il discorso d’un affare di quell’importanza. Il conte Attilio ne parlava con disinvoltura; e, sebbene ci prendesse quella parte che richiedeva la sua amicizia per il cugino, e l’onore del nome comune, secondo le idee che aveva d’amicizia e d’onore, pure ogni tanto non poteva tenersi di non rider sotto i baffi, di quella bella riuscita. Ma don Rodrigo, ch’era in causa propria, e che, credendo di far quietamente un gran colpo, gli era andato fallito con fracasso, era agitato da passioni più gravi, e distratto da pensieri più fastidiosi. - Di belle ciarle, - diceva, - faranno questi mascalzoni, in tutto il contorno. Ma che m’importa? In quanto alla giustizia, me ne rido: prove non ce n’è; quando ce ne fosse, me ne riderei ugualmente: a buon conto, ho fatto stamattina avvertire il console che guardi bene di non far deposizione dell’avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le ciarle, quando vanno in lungo, mi seccano. È anche troppo ch’io sia stato burlato così barbaramente.
- Avete fatto benissimo, - rispondeva il conte Attilio. - Codesto vostro podestà... gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d’un podestà... è poi un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s’ha che fare con persone tali, bisogna aver più riguardo di non metterle in impicci. Se un mascalzone di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben intenzionato, bisogna pure che...
- Ma voi, - interruppe, con un po’ di stizza, don Rodrigo, - voi guastate le mie faccende, con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo anche, all’occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo!
- Sapete, cugino, - disse guardandolo, maravigliato, il conte Attilio, - sapete, che comincio a credere che abbiate un po’ di paura? Mi prendete sul serio anche il podestà...
- Via via, non avete detto voi stesso che bisogna tenerlo di conto?
- L’ho detto: e quando si tratta d’un affare serio, vi farò vedere che non sono un ragazzo. Sapete cosa mi basta l’animo di far per voi? Son uomo da andare in persona a far visita al signor podestà. Ah! sarà contento dell’onore? E son uomo da lasciarlo parlare per mezz’ora del conte duca, e del nostro signor castellano spagnolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle così massicce. Butterò poi là qualche parolina sul conte zio del Consiglio segreto: e sapete che effetto fanno quelle paroline nell’orecchio del signor podestà. Alla fin de’ conti, ha più bisogno lui della nostra protezione, che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e ci anderò, e ve lo lascerò meglio disposto che mai.
Dopo queste e altre simili parole, il conte Attilio uscì, per andare a caccia; e don Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno del Griso. Venne costui finalmente, sull’ora del desinare, a far la sua relazione.
Lo scompiglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre persone da un paesello era un tal avvenimento, che le ricerche, e per premura e per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e dall’altra parte, gl’informati di qualche cosa eran troppi, per andar tutti d’accordo a tacer tutto. Perpetua non poteva farsi veder sull’uscio, che non fosse tempestata da quello e da quell’altro, perché dicesse chi era stato a far quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, ripensando a tutte le circostanze del fatto, e raccapezzandosi finalmente ch’era stata infinocchiata da Agnese, sentiva tanta rabbia di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d’un po’ di sfogo. Non già che andasse lamentandosi col terzo e col quarto della maniera tenuta per infinocchiar lei: su questo non fiatava; ma il tiro fatto al suo povero padrone non lo poteva passare affatto sotto silenzio; e sopra tutto, che un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quel giovine dabbene, da quella buona vedova, da quella madonnina infilzata [9]. Don Abbondio poteva ben comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che stesse zitta; lei poteva bene ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che grilla e gorgoglia e ribolle [10], e, se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno [11], e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è. Gervaso, a cui non pareva vero d’essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una gran paura, a cui, per aver tenuto dl mano a una cosa che puzzava di criminale, pareva d’esser diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava seriamente all’inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli comandasse, co’ pugni sul viso, di non dir nulla a nessuno, pure non ci fu verso di soffogargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio, anche lui, dopo essere stato quella notte fuor di casa in ora insolita, tornandovi, con un passo e con un sembiante insolito, e con un’agitazion d’animo che lo disponeva alla sincerità, non poté dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era muta. Chi parlò meno, fu Menico; perché, appena ebbe raccontata ai genitori la storia e il motivo della sua spedizione, parve a questi una cosa così terribile che un loro figliuolo avesse avuto parte a buttare all’aria un’impresa di don Rodrigo, che quasi quasi non lasciaron finire al ragazzo il suo racconto. Gli fecero poi subito i più forti e minacciosi comandi che guardasse bene di non far neppure un cenno di nulla: e la mattina seguente, non parendo loro d’essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa, per quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? essi medesimi poi, chiacchierando con la gente del paese, e senza voler mostrar di saperne più di loro, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de’ nostri tre poveretti, e del come, e del perché, e del dove, aggiungevano, come cosa conosciuta, che s’eran rifugiati a Pescarenico. Così anche questa circostanza entrò ne’ discorsi comuni.
Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e cuciti come s’usa, e con la frangia che ci s’attacca naturalmente nel cucire, c’era da fare una storia d’una certezza e d’una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più critico. Ma quella invasion de’ bravi, accidente troppo grave e troppo rumoroso per esser lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po’ positiva, quell’accidente era ciò che imbrogliava tutta la storia. Si mormorava il nome di don Rodrigo: in questo andavan tutti d’accordo; nel resto tutto era oscurità e congetture diverse. Si parlava molto de’ due bravacci ch’erano stati veduti nella strada, sul far della sera, e dell’altro che stava sull’uscio dell’osteria; ma che lume si poteva ricavare da questo fatto così asciutto? Si domandava bene all’oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l’oste, a dargli retta, non sl rammentava neppure se avesse veduto gente quella sera; e badava a dire che l’osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le teste, e disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che se n’era andato con loro, o che essi avevan portato via. Cos’era venuto a fare? Era un’anima del purgatorio, comparsa per aiutar le donne; era un’anima dannata d’un pellegrino birbante e impostore, che veniva sempre di notte a unirsi con chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e vero, che coloro avevan voluto ammazzare, per timor che gridasse, e destasse il paese; era (vedete un po’ cosa si va a pensare!) uno di quegli stessi malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che tutta la sagacità e l’esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi fosse, se il Griso avesse dovuto rilevar questa parte della storia da’ discorsi altrui. Ma, come il lettore sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre notizie raccolte da lui immediatamente, o col mezzo degli esploratori subordinati, poté di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente distinta. Si chiuse subito con lui, e l’informò del colpo tentato dai poveri sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vota e il sonare a martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse qualche traditore, come dicevano que’ due galantuomini. L’informò della fuga; e anche a questa era facile trovarci le sue ragioni: il timore degli sposi colti in fallo, o qualche avviso dell’invasione, dato loro quand’era scoperta, e il paese tutto a soqquadro. Disse finalmente che s’eran ricoverati a Pescarenico; più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l’esser certo che nessuno l’aveva tradito, e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto; ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. - Fuggiti insieme! - gridò: - insieme! E quel frate birbante! Quel frate! - la parola gli usciva arrantolata dalla gola, e smozzicata tra’ denti, che mordevano il dito: il suo aspetto era brutto come le sue passioni. - Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi sono... voglio sapere, voglio trovare... questa sera, voglio saper dove sono. Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare... Quattro scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E quel birbone...! quel frate...!
Il Griso di nuovo in campo; e, la sera di quel giorno medesimo, poté riportare al suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco in qual maniera.
Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quell’immensa catena, tanto che arriva all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di seguirne la traccia. Il nostro autore [12] non ha potuto accertarsi per quante bocche fosse passato il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: il fatto sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando, verso le ventitre, col suo baroccio, a Pescarenico, s’abbatté, prima d’arrivare a casa, in un amico fidato, al quale raccontò, in gran confidenza, l’opera buona che aveva fatta, e il rimanente; e il fatto sta che il Griso poté, due ore dopo, correre al palazzotto, a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre s’eran ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua strada fino a Milano.
Don Rodrigo provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un po’ di quella scellerata speranza d’arrivare al suo intento. Pensò alla maniera, gran parte della notte; e s’alzò presto, con due disegni, l’uno stabilito, l’altro abbozzato. Il primo era di spedire immantinente il Griso a Monza, per aver più chiare notizie di Lucia, e sapere se ci fosse da tentar qualche cosa. Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i quattro scudi, lo lodò di nuovo dell’abilità con cui gli aveva guadagnati, e gli diede l’ordine che aveva premeditato.
- Signore... - disse, tentennando, il Griso.
- Che? non ho io parlato chiaro?
- Se potesse mandar qualchedun altro...
- Come?
- Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone: è il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo la vita de’ suoi sudditi.
- Ebbene?
- Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch’io ho addosso: e... Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor podestà è amico di casa; i birri mi portan rispetto; e anch’io... è cosa che fa poco onore, ma per viver quieto... li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza... ci sono conosciuto io in vece. E sa vossignoria che, non fo per dire, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l’uno sull’altro, e la facoltà di liberar due banditi.
- Che diavolo! - disse don Rodrigo: - tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d’allontanarsi!
- Credo, signor padrone, d’aver date prove...
- Dunque!
- Dunque, - ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, - dunque vossignoria faccia conto ch’io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, e son pronto a partire.
- E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de’ meglio... lo Sfregiato, e il Tiradritto; e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo! Tre figure come le vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuoi che non sia contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a’ birri di Monza fosse ben venuta a noia la vita, per metterla su contro cento scudi a un gioco così rischioso. E poi, e poi, non credo d’esser così sconosciuto da quelle parti, che la qualità di mio servitore non ci si conti per nulla.
Svergognato così un poco il Griso, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. Il Griso prese i due compagni, e partì con faccia allegra e baldanzosa, ma bestemmiando in cuor suo Monza e le taglie e le donne e i capricci de’ padroni; e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con le costole che gli si potrebber contare, scende da’ suoi monti, dove non c’è che neve, s’avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata,
Leva il muso, adorando il vento infido [13],
se mai gli porti odore d’uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni, da cui traluce insieme l’ardore della preda e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel rumore; e io l’ho preso, perche mi veniva in taglio; e dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse che sia una mia astuzia per far sapere che l’autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch’io frugo a piacer mio ne’ suoi manoscritti.
L’altra cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse più tornar con Lucia, né metter piede in paese; e a questo fine, macchinava di fare sparger voci di minacce e d’insidie, che, venendogli all’orecchio, per mezzo di qualche amico, gli facessero passar la voglia di tornar da quelle parti. Pensava però che la più sicura sarebbe se si potesse farlo sfrattar [14] dallo stato: e per riuscire in questo, vedeva che più della forza gli avrebbe potuto servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po’ di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come un’aggressione, un atto sedizioso, e, per mezzo del dottore, fare intendere al podestà ch’era il caso di spedir contro Renzo una buona cattura. Ma pensò che non conveniva a lui di rimestar quella brutta faccenda; e senza star altro a lambiccarsi il cervello, si risolvette d’aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio. “Le gride son tante!” pensava: “e il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome”. Ma (come vanno alle volte le cose di questo mondo!) intanto che colui pensava al dottore, come all’uomo più abile a servirlo in questo, un altr’uomo, l’uomo che nessuno s’immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla, lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare.
Ho visto più volte un caro fanciullo [15], vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodoché, dopo essersi un po’ impazientito, s’adattava al loro genio, spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien fare co’ nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista.
Dopo la separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso Milano, in quello stato d’animo che ognuno può immaginarsi facilmente. Abbandonar la casa, tralasciare il - mestiere, e quel ch’era più di tutto, allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a posarsi; e tutto per causa di quel birbone! Quando si tratteneva col pensiero sull’una o sull’altra di queste cose, s’ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si ravvedeva: gli si risvegliava ancora la stizza; ma vedendo un’immagine sul muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte. La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde [16], che, dopo una pioggia, divenivan rigagnoli; e in certe parti più basse, s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca. A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi. Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina [17] del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s’accorse d’esser ben vicino alla città, s’accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel garbo che seppe, gli disse: - di grazia, quel signore. - Che volete, bravo giovine?
- Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de’ cappuccini dove sta il padre Bonaventura?
L’uomo a cui Renzo s’indirizzava, era un agiato abitante del contorno, che, andato quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava, senza aver fatto nulla, in gran fretta, ché non vedeva l’ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno d’impazienza, rispose molto gentilmente: - figliuol caro, de’ conventi ce n’è più d’uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate -. Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale, gliela rendette dicendo: - siete fortunato, bravo giovine; il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in pochi minuti arriverete a una cantonata d’una fabbrica lunga e bassa: è il lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a porta orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi, vedrete una piazzetta con de’ begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare. Dio v’assista, bravo giovine -. E, accompagnando l’ultime parole con un gesto grazioso della mano, se n’andò. Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de’ cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch’era un giorno fuor dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti [18]. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l’immagini che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una casuccia per i gabellini [19]. I bastioni scendevano in pendìo irregolare, e il terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso. La strada che s’apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango, secondo la stagione. Al punto dov’era, e dov’è tuttora quella viuzza chiamata di Borghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo entra, passa; nessuno de’ gabellini gli bada: cosa che gli parve strana, giacché, da que’ pochi del suo paese che potevan vantarsi d’essere stati a Milano, aveva sentito raccontar cose grosse de’ frugamenti e dell’interrogazioni a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era deserta, dimodoché, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un gran movimento, gli sarebbe parso d’entrare in una città disabitata. Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch’era farina. “Grand’abbondanza”, disse tra sé, “ci dev’essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna”. Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; perché, diamine! non era luogo da pani quello. “Vediamo un po’ che affare è questo”, disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. - È pane davvero! - disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: - così lo seminano in questo paese? in quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo? - Dopo dieci miglia di strada, all’aria fresca della mattina, quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l’appetito. “Lo piglio?” deliberava tra sé: “poh! l’hanno lasciato qui alla discrezion de’ cani; tant’è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se comparisce il padrone, glielo pagherò”. Così pensando, si mise in una tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell’altra; un terzo, e cominciò a mangiare; e si rincamminò, più incerto che mai, e desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar gente che veniva dall’interno della città, e guardò attentamente quelli che apparivano i primi. Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un ragazzotto; tutt’e tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro forze, e tutt’e tre in una figura strana. I vestiti o gli stracci infarinati; infarinati i visi, e di più stravolti e accesi; e andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia [20], come se gli fossero state peste l’ossa. L’uomo reggeva a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne seminava un poco, a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva stare, e un po’ di più; dimodoché, quasi a ogni passo, ne volava via una ventata. Il ragazzotto teneva con tutt’e due le mani sul capo una paniera colma di pani; ma, per aver le gambe più corte de’ suoi genitori, rimaneva a poco a poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per raggiungerli, la paniera perdeva l’equilibrio, e qualche pane cadeva.
- Buttane via ancor un altro, buono a niente che sei, - disse la madre, digrignando i denti verso il ragazzo.
- Io non li butto via; cascan da sé: com’ho a fare? - rispose quello.
- Ih! buon per te, che ho le mani impicciate, - riprese la donna, dimenando i pugni, come se desse una buona scossa al povero ragazzo; e, con quel movimento, fece volar via più farina, di quel che ci sarebbe voluto per farne i due pani lasciati cadere allora dal ragazzo. - Via, via, - disse l’uomo: - torneremo indietro a raccoglierli, o qualcheduno li raccoglierà. Si stenta da tanto tempo: ora che viene un po’ d’abbondanza, godiamola in santa pace.
In tanto arrivava altra gente dalla porta; e uno di questi, accostatosi alla donna, le domandò: - dove si va a prendere il pane?
- Più avanti, - rispose quella; e quando furon lontani dieci passi, soggiunse borbottando: - questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.
- Un po’ per uno, tormento che sei, - disse il marito: - abbondanza, abbondanza.
Da queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, Renzo cominciò a raccapezzarsi ch’era arrivato in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell’andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell’opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl’incettatori e da’ fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, si propose di star fuori del tumulto, e si rallegrò d’esser diretto a un cappuccino, che gli troverebbe ricovero, e gli farebbe da padre. Così pensando, e guardando intanto i nuovi conquistatori che venivano carichi di preda, fece quella po’ di strada che gli rimaneva per arrivare al convento.
Dove ora sorge quel bel palazzo [21], con quell’alto loggiato, c’era allora, e c’era ancora non son molt’anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il convento de’ cappuccini, con quattro grand’olmi davanti. Noi ci rallegriamo, non senza invidia, con que’ nostri lettori che non han visto le cose in quello stato: ciò vuol dire che son molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte corbellerie. Renzo andò diritto alla porta, si ripose in seno il mezzo pane che gli rimaneva, levò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il campanello. S’aprì uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia del frate portinaio a domandar chi era.
- Uno di campagna, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante [22] del padre Cristoforo.
- Date qui, - disse il portinaio, mettendo una mano alla grata.
- No, no, - disse Renzo: - gliela devo consegnare in proprie mani.
- Non è in convento.
- Mi lasci entrare, che l’aspetterò.
- Fate a mio modo, - rispose il frate: - andate a aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di bene. In convento, per adesso, non s’entra -. E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase lì, con la sua lettera in mano. Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al tumulto. Attraversò la piazzetta, si portò sull’orlo della strada, e si fermò, con le braccia incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l’interno della città, dove il brulichìo era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore. “Andiamo a vedere”, disse tra sé; tirò fuori il suo mezzo pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto che s’incammina, noi racconteremo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di quello sconvolgimento.
Note
1. Si affacciava.
2. Si tratta di Renzo, definito un villano.
3. Allude ad Agnese, che penserà che i rapitori venissero da Bergamo in quanto uno dei bravi (il Grignapoco) era originario di quel territorio e aveva ordine di parlare per far credere che anche gli altri fossero suoi compaesani.
4. La portantina che avrebbe dovuto trasportare Lucia.
5. Il bastone da pellegrino, il mantello e il cappello erano il travestimento del Griso (cfr. cap. VIII).
6. Don Rodrigo allude all'ultima battuta del Griso quando aveva ricevuto l'ordine di rapire Lucia (cfr. cap. VII).
7. Si riferisce all'episodio accennato nel cap. VIII.
8. Sopportazione.
9. L'espressione indica una giovane pudica, con riferimento alle immagini popolari della Madonna dei Dolori col cuore trafitto da sette spade (cfr. cap. XXXVIII, quando anche don Abbondio chiamerà così Lucia).
10. Che bolle, fermenta.
11. Esce goccia a goccia intorno al tappo.
12. L'anonimo autore del manoscritto.
13. Il verso è tratto da I Lombardi alla prima crociata (X, 16), poema allora inedito di Tommaso Grossi, amico del Manzoni e autore anche del romanzo storico Marco Visconti (il poema è stato del tutto dimenticato, poiché privo di valore artistico).
14. Bandire.
15. Si tratta certamente di uno dei figli dell'autore.
16. Sono i segni tracciati dalle ruote dei carri sul terreno.
17. Fabbricato, edificio.
18. Significa che i nobili, che indossavano le cappe, si inchinavano ai popolani, che portavano i farsetti (delle giubbe corte). È un'allusione al fatto che in città è giorno di insurrezione popolare, di tumulto.
19. Gabellieri (le guardie addette al controllo di chi entra o esce dalla città, per riscuotere i dazi).
20. Indolenziti, sofferenti.
21. È il palazzo Rocca-Saporiti, costruito nel 1812.
22. Urgente.
fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xi.html