Capitolo X
"Quel lato del monastero era contiguo a una casa
abitata da un giovine scellerato di professione.
Il nostro manoscritto lo nomina Egidio,
senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina
che dominava un cortiletto di quel quartiere,
avendo veduta Gertrude qualche volta passare
o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito
dai pericoli e dall'empietà dell'impresa, un giorno
osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose..."
Personaggi: Agnese, Lucia, Gertrude, il principe padre di Gertrude, il vicario delle monache, la madre badessa, Egidio, la conversa
Luoghi: Monza, Milano
Tempi: 11 novembre 1628 (nel flashback: un ampio arco di tempo, molti anni prima)
Temi: Nobiltà e potere, Chiesa e religione
Trama: Gertrude accetta di prendere il velo e supera l'esame del vicario. La sua vita al monastero, fino all'incontro fatale con Egidio. L'assassinio della conversa. I dubbi di Lucia e le rassicurazioni di Agnese.
Il principe convince Gertrude a entrare in monastero
L'autore osserva che ci sono momenti in cui l'animo dei giovani è particolarmente vulnerabile e chi intende forzarli ad accettare un'imposizione può approfittarne per ottenere i propri scopi: il principe, leggendo la lettera di Gertrude, capisce che l'occasione è propizia e le ordina di venire da lui, quindi la giovane raggiunge il padre e gli si inginocchia piangente chiedendo perdono. Il principe risponde che il perdono va meritato con le azioni e aggiunge che, se mai avesse avuto intenzione di dare la figlia in sposa a qualcuno, ora il suo comportamento gli ha fatto capire che ciò sarebbe sconveniente, perciò anche la ragazza dovrebbe aver capito che la vita laica è troppo piena di insidie e tentazioni per la sua debole volontà. Gertrude si lascia sfuggire un "sì", che il padre è abile a interpretare come l'accettazione da parte sua a prendere il velo: l'uomo scuote un campanello e chiama subito la madre e il fratello maggiore della giovane, ai quali comunica lietamente che Gertrude è risoluta a entrare in convento. I due si affrettano a felicitarsi con la ragazza, la quale ascolta frastornata mentre il padre preannuncia che lei sarà la prima monaca del convento e che appena avrà l'età necessaria diventerà badessa. Il principe vorrebbe addirittura che Gertrude si recasse al convento di Monza quel giorno stesso, per chiedere alla badessa di essere ammessa nel chiostro, ma la figlia riesce a ottenere che la cosa venga rimandata all'indomani, illudendosi di poter cambiare qualcosa nel frattempo. Il principe si reca poi dal vicario delle monache, per fissare il giorno dell'esame cui Gertrude dovrà essere sottoposta per accertare la sincerità della sua vocazione (l'appuntamento sarà di lì a due giorni).
Gertrude si prepara alla visita a Monza
Il resto della giornata vede Gertrude impegnata in molteplici occupazioni, che non le lasciano un minuto di tregua e le impediscono di raccogliere i pensieri intorno al passo che sta per compiere in modo irrevocabile: viene condotta nelle stanze della madre per essere pettinata e acconciata, poi va a pranzo ricevendo i complimenti della servitù e di alcuni parenti fatti venire apposta per l'occasione. Tutti la chiamano ormai "sposina", appellativo che viene dato alle giovani monacande, e dopo pranzo la giovane esce in compagnia della madre e due zii per una passeggiata in carrozza, lungo una strada centrale di Milano dove incontrano molti altri nobili. Al ritorno a palazzo, Gertrude deve sostenere la visita di numerosi parenti e amici di famiglia che sono convenuti per congratularsi con lei della sua decisione e ai quali, sia pure a malincuore, la giovane deve rispondere facendo buon viso a cattiva sorte; al termine della serata riceve i complimenti anche del principe padre, lieto del suo comportamento degno del grado e della posizione sociale che ricopre. Dopo la cena, Gertrude pensa di approfittare della benevolenza che sembra essersi conquistata pregando il padre di allontanare da lei la cameriera che le aveva fatto da carceriera, lagnandosi della sua condotta, e il nobile si mostra fin troppo sollecito ad accogliere le sue lamentele e a promettere solenni rimproveri alla domestica. A Gertrude viene quindi assegnata un'altra anziana cameriera e questa non esita a felicitarsi a sua volta con la giovane per la sua decisione di entrare in convento, aggiungendo molte cose circa i vantaggi che a lei verranno dall'appartenere a una delle famiglie più ricche e aristocratiche. La donna parla ancora mentre Gertrude è già andata a letto e ormai dorme, vinta dalla stanchezza della giornata, anche se il sonno è affannoso e turbato da brutti sogni.
La visita al convento di Monza
Il mattino dopo Gertrude è svegliata assai presto dalla cameriera, che la invita ad affrettarsi poiché la madre è già in piedi e anche suo fratello la attende, impaziente come al solito e secondo il suo carattere. La giovane si alza e si lascia vestire e pettinare, quindi è condotta alla presenza dei familiari in una sala dove le è offerta una tazza di cioccolata, gesto che vuol sottolineare la sua raggiunta maturità (si tratta infatti di una bevanda rara e preziosa). Prima di partire alla volta del convento di Monza, dove la badessa, preavvertita, attende la visita di Gertrude, il principe si rivolge alla figlia e la ammonisce a comportarsi bene e a rivolgere la sua supplica di essere ammessa al convento con fare sicuro, con naturalezza, per non dare adito a dubbi e incertezze (il nobile rammenta alla figlia il "fallo" commesso e ricorda che il segreto resterà tale, mentre lei nel chiostro sarà riverita come una sua pari). In seguito Gertrude parte per Monza in carrozza, accompagnata dai genitori e dal principino suo fratello, e l'ingresso in città è accompagnato da un accorrere di gente che si raduna intorno alla nobile famiglia: Gertrude raggiunge l'ingresso del convento dove l'attende la madre badessa, attorniata da tutte le monache del chiostro, dalle converse e da alcune educande sparse qua e là, quindi la superiora chiede alla giovane cosa sia venuta a chiederle in quel luogo dove, afferma, non le si può negar nulla. Gertrude è colta da un'incertezza ed è sul punto di dire una cosa diversa da quella che tutti si attendono, ma poi lo sguardo severo e impaziente del padre spegne in lei ogni velleità di ribellione e la ragazza rivolge alla badessa la supplica di essere ammessa a vestire l'abito monacale in quel convento. La badessa risponde che la decisione sarà presa di concerto con le altre monache e con i superiori, ma intanto lei e le consorelle possono complimentarsi con la giovane per la decisione assunta. Vengono offerti dei dolci alla "sposina" e ai suoi familiari, quindi la badessa conferisce in privato con il principe e, in modo imbarazzato, gli ricorda che se mai avesse forzato la figlia a quel passo incorrerebbe nella scomunica, dicendosi comunque sicura che ciò non sia avvenuto. Poco dopo la famiglia si congeda dalle suore e lascia il convento per rientrare a palazzo, a Milano.
La scelta della "madrina"
Durante il viaggio di ritorno Gertrude ripensa alla sua debolezza e alla difficoltà di recedere dal passo che ormai appare inevitabile, specie al pensiero della severità del padre. Il resto della giornata trascorre nelle stesse occupazioni di quella precedente, quindi al termine della cena il principe inizia a parlare della scelta della madrina, ovvero la dama che dovrà accompagnare Gertrude sino al momento della monacazione facendole visitare chiese, monumenti e ville che rappresentano lo splendore del mondo che lei abbandona. Benché la scelta sia normalmente assegnata ai genitori, il principe la rimette alla decisione della figlia fingendo che questa sia una gran concessione: Gertrude indica il nome della dama che, durante la sera, l'ha lodata e vezzeggiata più delle altre, scelta che trova d'accordo tutti i suoi familiari (è a lei che ha già pensato il padre, tanto più che la dama in questione mira a far sposare sua figlia col principino, dunque ha tutto l'interesse a spingere Gertrude in convento). Gertrude ha affrontato questo passo ben sapendo che è un ulteriore progresso verso la sua entrata in convento, pure non ha avuto il coraggio di deludere le aspettative del padre e del resto della famiglia.
L'esame del vicario
Il giorno dopo Gertrude si sveglia di buon'ora in attesa del vicario delle monache che verrà ad esaminarla e la giovane sta pensando in che modo possa sottrarsi a quel passo decisivo, quando il padre la fa chiamare a sé. Il principe la esorta abilmente a completare l'opera tanto bene intrapresa e a non guastare tutto mostrandosi esitante col vicario o, peggio, facendogli capire che la sua vocazione non è sincera: ciò getterebbe discredito sull'onore della famiglia e del principe stesso, il quale sarebbe costretto a quel punto a rivelare a tutti il "fallo" commesso da Gertrude (la ragazza, al solo sentirne parlare, diventa rossa dall'imbarazzo). L'uomo aggiunge altri suggerimenti e rinnova le promesse di una vita piena di privilegi nel monastero, quindi arriva il vicario e la ragazza viene lasciata sola con lui.
Il vicario è già abbastanza convinto delle intenzioni di Gertrude, dal momento che il principe ne ha tanto lodato la vocazione, pure il prete inizia a chiederle se per caso non abbia subìto minacce o lusinghe per essere forzata alla monacazione. Gertrude pensa subito a come stanno realmente le cose e vorrebbe dire la verità al vicario, ma per far questo dovrebbe scendere in dettagli che la imbarazzano troppo, quindi risponde che si fa monaca per sua volontà e senza subire costrizioni. In seguito dice di aver sempre avuto questo desiderio e nega che a spingerla a ciò sia qualche disgusto o delusione passeggera per la vita mondana, senza lasciare trasparire il turbamento che quelle menzogne provocano nel suo animo. Gertrude sa bene che il vicario potrebbe forse impedirle di entrare in convento, ma non potrebbe far nulla per proteggerla dalla collera del padre all'interno di quella casa, dunque continua a mentire e alla fine convince il prete della bontà della sua vocazione. Il vicario, uscendo dalla stanza del colloquio, si imbatte nel principe che sembra passare di lì per caso e si congratula con il nobile per la buona disposizione d'animo in cui ha trovato la figlia. Ciò solleva il principe dall'incertezza in cui era rimasto sino a quel momento, perciò l'uomo si precipita a complimentarsi con Gertrude e a riempirla di lodi e promesse, manifestando una gioia che, paradossalmente, in questo momento è sincera.
Gertrude diventa monaca
Nei giorni seguenti Gertrude è impegnata in una girandola senza fine di visite, di ricevimenti, di spettacoli che sono per lei occasione di mille ripensamenti e di molta sofferenza, specie al pensiero che a quella vita dovrà rinunciare per sempre andando a rinchiudersi in un freddo e solitario chiostro: tuttavia non ha il coraggio di arrestare la macchina che la conduce a diventar monaca, soprattutto perché non ha la forza di affrontare il padre. Intanto si svolge il capitolo delle monache che devono decidere se accettare Gertrude nel convento e, come previsto, la votazione ha esito positivo. La giovane chiede a quel punto di entrare nel convento prima possibile, per porre fine a quello strazio di feste e divertimenti che sono per lei ragione di sofferenza, e il suo desiderio è presto esaudito: dopo dodici mesi di noviziato giunge il momento di pronunciare solennemente i voti e, dunque, di dire un no più scandaloso che mai, oppure di ripetere un sì già detto tante volte. Gertrude sceglie questa seconda e più facile possibilità, diventando così monaca per sempre.
La religione cristiana è tale, spiega l'autore, che ha la facoltà di dare consolazione a chiunque si rivolga ad essa con animo puro, quindi Gertrude potrebbe diventare una monaca santa e devota comunque lo sia diventata, se solo accettasse con rassegnazione e fortezza d'animo la condizione in cui essa si trova. Ma la giovane, una volta indossato il velo, prova avversione e ripulsa per la vita che è costretta a fare, invidiando la sorte di qualunque altra donna che, liberamente, possa godere dei doni della vita; inoltre detesta le consorelle che hanno avuto una parte nel complotto che l'ha condotta al convento, verso le quali usa numerosi dispetti e sgarbi, mentre disprezza le altre che si mostrano amabili verso di lei, ignorando che esse nel capitolo hanno votato contro il suo ingresso nel chiostro. Poca soddisfazione trae infine dall'essere riverita da tutti in monastero e nell'esser chiamata la "Signora", non trovando peraltro neppure grande conforto nella religione da cui il suo orgoglio nobiliare non fa che allontanarla.
Gertrude maestra delle educande
Poco dopo il suo ingresso in monastero, Gertrude diventa maestra delle educande: la donna pensa con stizza al fatto che molte di loro sono destinate a quella vita nel mondo che a lei è stata negata, perciò le tiranneggia e le tratta duramente, quasi a far loro scontare in anticipo la lieta esistenza che le attenderà un giorno. In altre occasioni la monaca è presa da uno stato d'animo affatto opposto, dettato dall'orrore per il chiostro e per la regola monastica, e in quei momenti eccita la chiassosità delle sue allieve, si mescola ai loro passatempi, ne diventa la confidente e la complice; arriva a imitare la madre badessa come in una commedia, oppure a farsi beffe di altre consorelle, ridendo in modo sguaiato (anche se tutto ciò non le dà molte consolazioni e la lascia paradossalmente più infelice e abbattuta di prima).
La relazione con Egidio e l'assassinio della conversa
Gertrude trascorre così alcuni anni, non trovando altri diversivi alla vita nel chiostro che lei tanto odia, finché un giorno le si presenta un'occasione ben più insidiosa. La monaca ha il privilegio di alloggiare in un quartiere a parte del convento, che da quel lato è attiguo a una casa laica dove vive Egidio, un giovane scapestrato che si circonda di sgherri e si fa beffe delle leggi e della giustizia grazie alle sue amicizie potenti. Costui da una finestrella che dà sul chiostro un giorno nota Gertrude che passeggia solitaria in un piccolo cortile, avendo l'ardire di rivolgerle il discorso senza provare timore per l'empietà dell'impresa: la sventurata risponde a quel giovane, iniziando in seguito con lui una relazione clandestina.
Gertrude prova molta felicità per la sua nuova condizione e molte consorelle notano un cambiamento nei suoi modi, una maggiore tranquillità che invero è solo una forma di ipocrisia per celare la terribile verità (infatti questi modi gentili lasciano ben presto luogo ai soliti comportamenti bisbetici della "Signora", che vengono attribuiti al suo carattere indocile). Un giorno, però, Gertrude ha una violenta discussione con una conversa e la maltratta in modo eccessivo: la donna si lascia sfuggire il fatto che lei è a conoscenza di un segreto sulla monaca, manifestando l'intenzione di svelare tutto al momento opportuno. Gertrude ne è molto turbata e non molto tempo dopo la conversa svanisce nel nulla, finché non viene scoperta una buca nel muro dell'orto che lascia pensare a tutti che la donna sia scappata da lì; le ricerche a Monza e a Meda, donde la conversa è originaria, non approdano a nulla e forse, osserva l'autore, anziché cercare tanto lontano si sarebbe dovuto scavare vicino (la conversa è stata uccisa da Egidio con la complicità di Gertrude e il corpo è stato sepolto nel convento). In seguito si sparge la voce che la conversa è forse fuggita in Olanda e non si parla più di lei, anche se Gertrude è spesso tormentata dal ricordo della donna e preferirebbe trovarsela viva davanti, piuttosto che sentirne la voce nella sua mente che la rimprovera e la minaccia per il delitto commesso, senza lasciarle mai un solo attimo di pace.
Agnese e Lucia al convento
È trascorso circa un anno da quei terribili avvenimenti, quando Agnese e Lucia sono state presentate a Gertrude: nel suo colloquio privato con Lucia, la "Signora" moltiplica le domande riguardo alla persecuzione di don Rodrigo e trova strano il ribrezzo che la giovane mostra per il signorotto, con un atteggiamento che sembra davvero singolare a Lucia visto che una monaca non dovrebbe avere familiarità con simili argomenti. Appena può parlare con la madre, Lucia le confida l'imbarazzo per quelle domande ed Agnese le spiega che i signori, chi più chi meno, sono tutti un po' matti, per cui la figlia non deve farci troppo caso e pensare che, quando conoscerà il mondo, non tarderà a capire che la cosa non è poi troppo strana.
Gertrude in realtà è molto ben disposta verso Lucia ed è davvero intenzionata a proteggerla, perciò lei e la madre vengono alloggiate nelle stanze lasciate libere dalla figlia della fattoressa e adibite al servizio del monastero. Agnese e Lucia sono ben contente di aver trovato questa protezione e vorrebbero che la loro presenza lì rimanesse segreta, ma questo non può avvenire per la caparbia volontà di don Rodrigo di ritrovare Lucia, quindi l'autore torna a mostrarci il signorotto quando, la sera prima, attende al palazzotto l'esito della spedizione che doveva portare al rapimento della giovane.
Temi principali e collegamenti
- Il capitolo costituisce la seconda parte del lungo flashback (iniziato nel cap. IX) con cui l'autore racconta la passata vicenda di Gertrude, che la porta alla forzata monacazione e poi al delitto: il vero protagonista, almeno fino all'ingresso della giovane in convento, è il principe padre, che spinge la figlia a prendere il velo con ostinazione caparbia e con una sottile abilità psicologica che rasenta in certi momenti la perfidia (specie quando ricorda a Gertrude il "fallo" commesso scrivendo il biglietto d'amore al paggio e lasciando intendere che potrà rendere la cosa pubblica per screditarla). Tutto avviene secondo le regole spietate del decoro nobiliare e dell'onore aristocratico, per cui alla fine Gertrude accetta di entrare nel chiostro dove, così almeno crede, potrà godere dei privilegi che le spettano come dovuti al suo rango nobiliare (per approfondire: S. Battaglia, La monaca di Monza personaggio moderno; A. Zottoli, La debolezza di Gertrude ).
- La visita di Gertrude al convento di Monza, dove chiede alla badessa di essere ammessa nel chiostro, avviene in modo pubblico e ha tutti i caratteri di un'esibizione della potenza della famiglia agli occhi degli altri nobili e del popolo: c'è una certa teatralità in questa sorta di messa in scena, in cui gli abitanti della città sono gli spettatori e la badessa e gli altri sono gli attori che recitano la loro parte guidati dal principe, il vero regista di questa triste rappresentazione (Manzoni dice che gli occhi dell'uomo guidano la figlia in ogni suo atto, "come per mezzo di redini invisibili"). La scena ha qualche analogia con quella in cui Lodovico, divenuto fra Cristoforo, va a chiedere perdono al fratello dell'uomo che ha ucciso (cap. IV).
- La cioccolata era a quei tempi una bevanda rara e costosa (cfr. il Giorno di G. Parini), quindi l'offrirla a una ragazza era come il segno della raggiunta maturità, del fatto che fosse diventata adulta, come per i Romani antichi il dare la toga virile a un giovane.
- Compare il personaggio di Egidio, il giovinastro che diventa amante di Gertrude e commette insieme a lei il delitto della conversa che, venuta a sapere del loro segreto, minaccia di rivelarlo: il tutto viene sinteticamente riassunto dall'autore, che non scende nei dettagli della relazione clandestina né del delitto (ben diverso il modo in cui, nel Fermo e Lucia, questa vicenda era stata raccontata con ampiezza di particolari morbosi e truci: cfr. i brani Geltrude ed Egidio, L'uccisione della suora ).
- La spiegazione di Agnese a Lucia circa le stranezze della "Signora" è dettata dal suo sano buon senso di popolana, mentre naturalmente ignora quale sia il terribile segreto della monaca: per Agnese gli aristocratici "han tutti un po' del matto" e bisogna fingere di assecondarli, per approfittare dei vantaggi che la loro protezione può accordare (c'è molta ironia da parte di Manzoni in questa descrizione, ma anche l'affermazione che tra nobili e popolani c'è una sorta di barriera sociale insuperabile).
- Il capitolo si chiude anticipando il flashback che, all'inizio del seguente, ci riporterà al palazzotto di don Rodrigo la sera del 10 novembre, quando il signorotto attende il Griso e i bravi di ritorno dal fallito tentativo di rapire Lucia.
La reticenza di Manzoni nella rappresentazione del male
Nei Promessi sposi l'autore rinuncia programmaticamente a dare delle azioni malvage e delittuose una descrizione abbondante di particolari, che possa riuscire seducente o accattivante per il lettore, limitandosi a descrivere il male per le sofferenze che si ripercuotono sulle vittime e sottacendo i dettagli più sordidi o sconvenienti, proprio come nella tragedia classica in cui le scene cruente non si svolgevano sotto gli occhi del pubblico ma venivano riassunte a parole da un messaggero. Ciò emerge in più di un punto della trama del romanzo (a cominciare dalla persecuzione di don Rodrigo ai danni di Lucia di cui ci viene sommariamente riferita l'origine), ma è particolarmente evidente nella vicenda di Gertrude che intreccia con Egidio una torbida relazione clandestina, che la porterà a commettere un omicidio tra le mura stesse del monastero in cui vive: è significativo che l'inizio di questo rapporto sacrilego venga narrato per sommi capi, con il giovinastro che osa rivolgere la parola alla monaca vedendola passeggiare nel chiostro e la religiosa che ricambia il suo saluto dando inizio alla tresca proibita, mentre la frase con cui Manzoni segnala l'inizio della vicenda ("La sventurata rispose") è divenuta quasi proverbiale e ha in sé una forza narrativa superiore a qualunque più dettagliata descrizione. In seguito i due amanti clandestini non vengono mai mostrati, né vedremo mai Egidio rivolgere la parola a Gertrude, mentre lo stesso delitto della conversa è accennato con assoluta reticenza, senza neppure rivelare quale segreto la donna intenda rivelare e limitandosi a dire che le ricerche darebbero esito più fruttuoso se, anziché cercare lontano, si scavasse vicino. Più avanti, quando Egidio coinvolgerà Gertrude nel complotto che porterà al rapimento di Lucia (XX), il consenso della monaca verrà estorto dall'uomo facendo ovviamente pesare il terribile segreto che unisce i due amanti, ma neppure in questa circostanza sarà riportato dall'autore il dialogo al termine del quale la "Signora" accetterà a malincuore quella proposta "spaventosa" (altrettanto lapidaria la frase con cui Manzoni chiude il paragrafo: "Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì").
Questa sorta di reticenza dell'autore per cui i fatti scabrosi o cruenti vengono relegati in uno spazio "fuori scena" è una conquista del romanzo maggiore, mentre nel Fermo e Lucia questa vicenda (al pari di altre, come il passato del Conte del Sagrato) è narrata con ben maggiori dettagli che, tuttavia, raggiungono risultati artistici decisamente inferiori. Anzitutto la relazione tra Egidio e Gertrude si arricchisce, rispetto ai Promessi sposi, di altri particolari quali la descrizione della casa del giovane e del modo in cui essa è collegata al convento (il che consentirà ai due amanti di vedersi), inoltre il turbamento interiore della monaca dopo che Egidio le ha parlato la prima volta è analizzato in modo minuzioso e con attenzione ai risvolti psicologici, con uno stile che ricorda molto il romanzo d'appendice di inizio Ottocento (II, 5-6; si veda qui il testo). La tresca vede anche due suore addette al servizio della "Signora" come complici, senza tuttavia che sia chiarito il loro ruolo nella relazione sacrilega, mentre è proprio una di queste a eseguire materialmente l'omicidio di una terza suora che ha scoperto tutto (essa viene colpita con uno sgabello e, in seguito, il suo corpo è sepolto da Egidio in una cantina della sua casa; cfr. il testo). Egidio è l'ispiratore del delitto e il maestro di scelleratezze di Gertrude e delle altre due, esercitando su di loro un vero potere psicologico che lo rende simile ai protagonisti di tanti romanzi neri della letteratura europea (francese, soprattutto) del XIX secolo; successivamente egli convince Gertrude a fare uscire Lucia dal convento in modo che venga rapita (II, 9), ma per farlo deve impegnarsi in una estenuante trattativa al termine della quale promette di sbarazzarsi del corpo della suora uccisa, il cui "fantasma" turba i sonni della "Signora" (ciò è rapidamente accennato nei Promessi sposi) e minacciando di troncare la relazione con la sua amante, ciò che soprattutto persuade Gertrude a farsi complice di questa ulteriore scelleratezza per non essere abbandonata dall'uomo di cui si è ormai innamorata. Il confronto tra le due stesure del romanzo è interessante, anche perché mostra il grado di maturazione letteraria raggiunto da Manzoni già nell'edizione del 1827 (in cui tutti questi dettagli sono scomparsi) e fa capire che l'insoddisfazione per quel primo abbozzo avesse anche ragioni narrative, oltre che di stile e di lingua: la grande scommessa (vinta) dallo scrittore è stata quella di rinunciare a quegli elementi che potessero avere una presa sul pubblico per la loro morbosità o l'indulgenza ai dettagli scabrosi, concentrandosi unicamente sulle conseguenze che il male produce sulle persone e trascurando volutamente quanto di conturbante, di sinistramente perverso vi sia nella sua progettazione e realizzazione. Spesso, anzi, le azioni delittuose nei Promessi sposi vengono svilite e mostrate nella loro mediocrità, come la famosa scommessa di don Rodrigo che porta alla persecuzione di Lucia e che non ha nulla in sé di grandioso o tragico, come invece la relazione tra Egidio e Gertrude che si macchia del sangue di un'innocente: quando il male rischia di sembrare affascinante o può turbare le coscienze dei lettori, l'autore si incarica di stendere un velo protettivo che, pur rivelando gli elementi essenziali, lascia all'immaginazione i particolari più sordidi o violenti, e ciò per motivi assai simili a quelli per cui la stessa tragedia classica rinunciava a questo tipo di rappresentazione (non si dimentichi, del resto, che il primo vero banco di prova di Manzoni sono le tragedie e che lo scrittore ha subìto una notevole influenza dalla letteratura classica, forse anche riguardo a questo aspetto della sua arte). Val la pena infine ricordare che un criterio assai simile (ovvero risparmiare ad alcuni lettori l'inutile turbamento della loro sensibilità) spinge l'autore a eliminare da tutte le stesure del romanzo qualunque riferimento troppo diretto all'idillio amoroso dei due promessi, la cui vicenda personale è sottintesa e relegata in un antefatto che non è mai reso esplicito se non per vaghi accenni: nel Fermo e Lucia (II, 1) era presente un'ampia digressione in cui Manzoni, fingendo di dialogare con un lettore immaginario, spiegava i motivi di questa scelta stilistica che, in gran parte, si possono ricondurre alla decisione di coprire e sottacere i particolari più delicati delle vicende narrate, come spiegato a proposito della storia "nera" di Egidio e Gertrude e ad altri episodi sanguinosi del primo abbozzo del romanzo. La digressione viene eliminata nelle successive redazioni dell'opera, tuttavia le ragioni di fondo restano valide e ad esse il romanziere si attiene con assoluta coerenza, con un atteggiamento che è da collegare almeno in parte alla sua visione religiosa e alla convinzione che il fine della letteratura è indurre il lettore a riflettere sui grandi temi della vita umana, non solleticarne la curiosità per i dettagli morbosi; tale criterio guiderà le scelte dello scrittore anche nelle successive opere storiografiche, in cui il male è, sì, rappresentato con precisione, ma per svelare la verità dei fatti e risarcire le vittime delle ingiustizie dei potenti, con la sola differenza che al centro di questi scritti non c'è l'invenzione ma la cruda realtà della violenza storica (e alla storia, com'è noto, Manzoni si dedicherà esclusivamente nell'ultima parte della sua vita).
Capitolo X
Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza [1] basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.
Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: - perdono! - Egli le fece cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domando, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere d’una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand’anche... caso mai... che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo [2], lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacché a un cavalier d’onore, com’era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c’era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più chiaramente indicato: ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei...
- Ah sì! - esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea.
- Ah! lo capite anche voi, - riprese incontanente il principe. - Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perché l’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura -. Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servitore che entrò, disse: - la principessa e il principino subito -. E seguitò poi con Gertrude: - voglio metterli subito a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.
A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente.
Dopo pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in viso, incerti e maravigliati. Ma il principe, con un contegno lieto e amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, - ecco, - disse, - la pecora smarrita: e sia questa l’ultima parola che richiami triste memorie. Ecco la consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che noi desideravamo per suo bene, l’ha voluto lei spontaneamente. È risoluta, m’ha fatto intendere che è risoluta... - A questo passo, alzò essa verso il padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma egli proseguì francamente: - che è risoluta di prendere il velo.
- Brava! bene! - esclamarono, a una voce, la madre e il figlio, e l’uno dopo l’altra abbracciaron Gertrude; la quale ricevette queste accoglienze con lacrime, che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la sorte della figlia. Parlò delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della famiglia; che, appena l’età l’avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi: Gertrude era come dominata da un sogno.
- Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla badessa, - disse il principe. - Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il monastero saprà valutar l’onore che Gertrude gli fa. Anzi... perché non ci andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po’ d’aria.
- Andiamo pure, - disse la principessa.
- Vo a dar gli ordini, - disse il principino.
- Ma... - proferì sommessamente Gertrude.
- Piano, piano, - riprese il principe: - lasciam decidere a lei: forse oggi non si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite: volete che andiamo oggi o domani?
- Domani, - rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora di far qualche cosa, prendendo un po’ di tempo.
- Domani, - disse solennemente il principe: - ha stabilito che si vada domani. Intanto io vo dal vicario delle monache, a fissare un giorno per l’esame -. Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione) dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni.
In tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe un minuto di bene. Avrebbe desiderato riposar l’animo da tante commozioni, lasciar, per dir così, chiarire i suoi pensieri, render conto a se stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che le rimaneva da fare, sapere ciò che volesse, rallentare un momento quella macchina che, appena avviata, andava così precipitosamente; ma non ci fu verso. L’occupazioni si succedevano senza interruzione, s’incastravano l’una con l’altra. Subito dopo partito il principe, fu condotta nel gabinetto [3] della principessa, per essere, sotto la sua direzione, pettinata e rivestita dalla sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l’ultima mano, che furon avvertite ch’era in tavola. Gertrude passò in mezzo agl’inchini della servitù, che accennava di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più prossimi, ch’erano stati invitati in fretta, per farle onore, e per rallegrarsi con lei de’ due felici avvenimenti, la ricuperata salute, e la spiegata [4] vocazione.
La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a’ complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un’accettazione e una conferma; ma come rispondere diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l’ora della trottata. Gertrude entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch’erano stati al pranzo. Dopo un solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual pareva che, più dell’altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora tal altra, si voltò a lei tutt’a un tratto, e le disse: - ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate negl’impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza.
Sul tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce, avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti e gli amici venivano a fare il loro dovere. S’entrò nella sala della conversazione. La sposina ne fu l’idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la voleva per sé: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente, chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapore, della gran figura ch’essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano spiando l’occasione di farsi innanzi, e sentivano un certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro dovere. A poco a poco, la compagnia s’andò dileguando; tutti se n’andarono senza rimorso, e Gertrude rimase sola co’ genitori e il fratello.
- Finalmente, - disse il principe, - ho avuto la consolazione di veder mia figlia trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s’è portata benone, e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura [5], e a sostenere il decoro della famiglia.
Si cenò in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina seguente.
Gertrude contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po’ gonfiata da tutti que’ complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che in una cosa, volle approfittare dell’auge [6] in cui si trovava, per acquietare almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere.
- Come! - disse il principe: - v’ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve vedersi intorno una persona che le dispiaccia -. Così detto, fece chiamare un’altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto. Ciò che, anche suo malgrado, s’impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de’ gran progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s’era sentita d’avere.
La donna che andò ad accompagnarla in camera, era una vecchia di casa, stata già governante del principino, che aveva ricevuto appena uscito dalle fasce, e tirato su fino all’adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione fatta in quel giorno, come d’una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s’eran trovate ben contente d’esser monache, perché, essendo di quella casa, avevan sempre goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude, quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La giovinezza e la fatica erano state più forti de’ pensieri. Il sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce strillante della vecchia, che venne a svegliarla, perché si preparasse per la gita di Monza.
- Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e pettinata, ci vorrà un’ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e l’hanno svegliata quattr’ore prima del solito. Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all’ordine per partire quando si sia. Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso dirlo, che l’ho portato in collo. Ma quand’è pronto, non bisogna farlo aspettare, perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s’impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale [7]; e poi questa volta avrebbe anche un po’ di ragione, perché s’incomoda per lei. Guai chi lo tocca in que’ momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorché per il signor principe. Ma finalmente non ha sopra di sé che il signor principe, e un giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però. Lesta, lesta, signorina! Perché mi guarda così incantata? A quest’ora dovrebbe esser fuor della cuccia.
All’immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s’erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all’apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera [8] di cioccolata: il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile.
Quando vennero a avvertir ch’era attaccato [9], il principe tirò la figlia in disparte, e le disse: - orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi medesima. Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero e nel paese dove siete destinata a far la prima figura. V’aspettano... - È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. - V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che, in quel luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi.
Senza aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza. Gl’impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione, durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l’istruzioni alla figlia, e le ripeté più volte la formola della risposta. All’entrare in Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza, recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s’andò quasi di passo al monastero, tra gli sguardi de’ curiosi, che accorrevano da tutte le parti sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso alla poveretta l’obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a’ quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s’entrò in un altro, e lì si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz’aria alcuni occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più coraggiose tra l’educande, che, ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca, eran riuscite a farsi un po’ di pertugio, per vedere anch’esse qualche cosa. Da quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in segno d’accoglienza e di gioia. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a viso con la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera tra il giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove non c’era chi le potesse negar nulla.
- Son qui..., - cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un’aria di compassione e di malizia insieme, e pareva che dicesse: ah! la c’è cascata la brava. Quella vista, risvegliando più vivi nell’animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po’ di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un’inquietudine così cupa, un’impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: - son qui a chiedere d’esser ammessa a vestir l’abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente -. La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la licenza de’ superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s’avevan per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa risposta; e che intanto nessuna regola proibiva alla badessa e alle suore di manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S’alzò allora un frastono confuso di congratulazioni e d’acclamazioni. Vennero subito gran guantiere [10] colme di dolci, che furon presentati, prima alla sposina, e dopo ai parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre complimentavan la madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove l’attendeva. Era accompagnata da due anziane; e quando lo vide comparire, - signor principe, - disse: - per ubbidire alle regole... per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo caso... pure devo dirle... che, ogni volta che una figlia chiede d’essere ammessa a vestir l’abito,... la superiora, quale io sono indegnamente,... è obbligata d’avvertire i genitori... che se, per caso... forzassero la volontà della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà...
- Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo giusto... Ma lei non può dubitare... - Oh! pensi, signor principe,... ho parlato per obbligo preciso,... del resto...
- Certo, certo, madre badessa.
Barattate queste poche parole, i due interlocutori s’inchinarono vicendevolmente, e si separarono, come se a tutt’e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l’uno fuori, l’altra dentro la soglia claustrale. Dato luogo a un po’ d’altre ciarle, - Oh via, - disse il principe: - Gertrude potrà presto godersi a suo bell’agio la compagnia di queste madri. Per ora le abbiamo incomodate abbastanza -. Così detto, fece un inchino; la famiglia si mosse con lui; si rinnovarono i complimenti, e si partì.
Gertrude, nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata del passo che aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e contro sé stessa, faceva tristamente il conto dell’occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sé stessa che, in questa, o in quella, o in quell’altra, sarebbe più destra e più forte. Con tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel cipiglio del padre; talché, quando, con un’occhiata datagli alla sfuggita, poté chiarirsi che sul volto di lui non c’era più alcun vestigio di collera, quando anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e fu, per un istante, tutta contenta.
Appena arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite, poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa, il principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina. Così si chiamava una dama, la quale, pregata da’ genitori, diventava custode e scorta della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l’entratura nel monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le conversazioni [11], le ville, i santuari: tutte le cose in somma più notabili della città e de’ contorni; affinché le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un calcio. - Bisognerà pensare a una madrina, - disse il principe: - perché domani verrà il vicario delle monache, per la formalità dell’esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo, per esser accettata dalle madri -. Nel dir questo, s’era voltato verso la principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: - ci sarebbe... - Ma il principe interruppe: - No, no, signora principessa: la madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benché l’uso universale dia la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che merita bene che si faccia un’eccezione per lei -. E qui, voltandosi a Gertrude, in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: - ognuna delle dame che si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per esser madrina d’una figlia della nostra casa; non ce n’è nessuna, crederei, che non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi.
Gertrude vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso; ma la proposta veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile, poteva parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel passo; e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella cioè che le aveva fatto più carezze, che l’aveva più lodata, che l’aveva trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne’ primi momenti d’una conoscenza, contraffanno una antica amicizia. - Ottima scelta, - disse il principe, che desiderava e aspettava appunto quella. Fosse arte o caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti facendovi scorrere davanti agli occhi le carte d’un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che ne vediate una sola. Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l’aveva tanto occupata di sé, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per pensarne un’altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero: quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale che s’interessasse per quella cara Gertrude, niente meno de’ suoi parenti più prossimi.
Il giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell’esaminatore che doveva venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quella occasione così decisiva, per tornare indietro, e in qual maniera, il principe la fece chiamare. - Orsù, figliuola, - le disse: - finora vi siete portata egregiamente: oggi si tratta di coronar l’opera. Tutto quel che s’è fatto finora, s’è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi; ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate. Quell’uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perché e il per come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa quanto. Sarebbe un’uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte, ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il mio onore, potrebbe far credere ch’io avessi presa una vostra leggerezza per una ferma risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi... che so io? In questo caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partiti dolorosi: o lasciar che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta: partito che non può stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. O svelare il vero motivo della vostra risoluzione e... - Ma qui, vedendo che Gertrude era diventata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contraeva, come le foglie d’un fiore, nell’afa che precede la burrasca, troncò quel discorso, e, con aria serena, riprese: - via, via, tutto dipende da voi, dal vostro buon giudizio. So che n’avete molto, e non siete ragazza da guastar sulla fine una cosa fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne parli più; e restiam d’accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera di non far nascer dubbi nella testa di quell’uomo dabbene. Così anche voi ne sarete fuori più presto -. E qui, dopo aver suggerita qualche risposta all’interrogazioni più probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e de’ godimenti ch’eran preparati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in quello, fin che venne un servitore ad annunziare il vicario. Il principe rinnovò in fretta gli avvertimenti più importanti, e lasciò la figlia sola con lui, com’era prescritto.
L’uomo dabbene veniva con un po’ d’opinione già fatta che Gertrude avesse una gran vocazione al chiostro: perché così gli aveva detto il principe, quando era stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che la diffidenza era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d’andar adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d’una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta.
Dopo i primi complimenti, - signorina, - le disse, - io vengo a far la parte del diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se le ha ben considerate. Si contenti ch’io le faccia qualche interrogazione.
- Dica pure, - rispose Gertrude.
Il buon prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle regole. - Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s’è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le venga usata violenza in nessun modo.
La vera risposta a una tale domanda s’affacciò subito alla mente di Gertrude, con un’evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia... L’infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un’altra risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio, la più contraria al vero. - Mi fo monaca, - disse, nascondendo il suo turbamento, - mi fo monaca, di mio genio, liberamente.
- Da quanto tempo le è nato codesto pensiero? - domandò ancora il buon prete.
- L’ho sempre avuto, - rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a mentire contro se stessa.
- Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?
Il buon prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran forza per non lasciar trasparire sul viso l’effetto che quelle parole le producevano nell’animo. - Il motivo, - disse, - è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo.
- Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche... mi scusi... capriccio? Alle volte, una cagione momentanea può fare un’impressione che par che deva durar sempre; e quando poi la cagione cessa, e l’animo si muta, allora...
- No, no, - rispose precipitosamente Gertrude: - la cagione è quella che le ho detto.
Il vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione che ce ne fosse bisogno, insistette con le domande; ma Gertrude era determinata d’ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch’egli poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra di lei, e la sua protezione. Partito che fosse, essa rimarrebbe sola col principe. E qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete non n’avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione tranquilla e misurata, che, in generale, s’accorda, come per cortesia, a chi abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno. L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare, che la sventurata di mentire: e, sentendo quelle risposte sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo, scusa d’aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò.
Attraversando le sale per uscire, s’abbatté nel principe, il quale pareva che passasse di là a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera: così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano.
Noi non seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell’animo suo in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni, troppo monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L’amenità de’ luoghi, la varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in là all’aria aperta, le rendevan più odiosa l’idea del luogo dove alla fine si smonterebbe per l’ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora eran l’impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato, le cagionava un’invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l’aspetto di qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo, dovesse trovarsi il colmo d’ogni felicità. Talvolta la pompa de’ palazzi, lo splendore degli addobbi, il brulichìo e il fracasso giulivo delle feste, le comunicavano un’ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a se stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piuttosto che tornare all’ombra fredda e morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe. Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que’ godimenti, gliene rendeva arnaro e penoso quel piccol saggio; come l’infermo assetato guarda con rabbia, e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d’acqua che il medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata l’attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per l’accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com’era da aspettarsi, i due terzi de’ voti segreti ch’eran richiesti da’ regolamenti; e Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c’era sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l’abito. Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre.
È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine [12], ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessita virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch’è stato intrapreso per leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l’infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell’animo suo. Rimasticava quell’amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le quali si trovava lì; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che aveva fatto con l’opera; accusava sé di dappocaggine, altri di tirannia e di perfidia; e si rodeva. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava, in certi momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza, potesse liberamente godersi nel mondo que’ doni.
La vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era odiosa. Si ricordava l’arti e i raggiri che avevan messi in opera, e le pagava con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti. A quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perché il principe aveva ben voluto tiranneggiar la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro; ma ottenuto l’intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri pretendesse d’aver ragione contro il suo sangue: e ogni po’ di rumore che avesser fatto, poteva esser cagione di far loro perdere quella gran protezione, o cambiar per avventura il protettore in nemico. Pare che Gertrude avrebbe dovuto sentire una certa propensione per l’altre suore, che non avevano avuto parte in quegl’intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l’amavano come tale; e pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene. Ma queste pure le erano odiose, per un altro verso. La loro aria di pietà e di contentezza le riusciva come un rimprovero della sua inquietudine, e della sua condotta bisbetica; e non lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come pinzochere [13], o di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse saputo o indovinato che le poche palle nere [14], trovate nel bossolo che decise della sua accettazione, c’erano appunto state messe da quelle.
Qualche consolazione le pareva talvolta di trovar nel comandare, nell’esser corteggiata in monastero, nel ricever visite di complimento da persone di fuori, nello spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar la signora; ma quali consolazioni! Il cuore, trovandosene così poco appagato, avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi, e goder con esse le consolazioni della religione; ma queste non vengono se non a chi trascura quell’altre: come il naufrago, se vuole afferrar la tavola che può condurlo in salvo sulla riva, deve pure allargare il pugno, e abbandonar l’alghe, che aveva prese, per una rabbia d’istinto.
Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell’educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l’allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que’ momenti, con che sdegno magistrale le gridava [15], per ogni piccola scappatella, l’avrebbe creduta una donna d’una spiritualità salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l’eccitava; si mischiava ne’ loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte de’ loro discorsi, e li spingeva più in là dell’intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d’una monaca, l’andatura d’un’altra: rideva allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, né occasione di far di più; quando la sua disgrazia volle che un’occasione si presentasse.
Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.
In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vòto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt’a un tratto, più regolare, più tranquilla, smesse gli scherni e il brontolìo, si mostrò anzi carezzevole e manierosa, dimodoché le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice; lontane com’erano dall’immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all’antiche magagne. Quell’apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò gran tempo, almeno con quella continuità e uguaglianza: ben presto tornarono in campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l’imprecazioni e gli scherni contro la prigione claustrale, e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio tutti questi alt’e bassi, e gli attribuivano all’indole bisbetica e leggiera della signora.
Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pettegolezzo, si lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e, che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina, a’ suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira, dalla cima al fondo; non c’è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel muro dell’orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là. Si fecero gran ricerche in Monza e ne’ contorni, e principalmente a Meda, di dov’era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n’ebbe mai la più piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino. Dopo molte maraviglie, perché nessuno l’avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva essere andata lontano, lontano. E perché scappò detto a una suora: - s’è rifugiata in Olanda di sicuro, - si disse subito, e si ritenne per un pezzo, nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. Non pare però che la signora fosse di questo parere. Non già che mostrasse di non credere, o combattesse l’opinion comune, con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo, ragioni non furono mai così ben dissimulate; né c’era cosa da cui s’astenesse più volentieri che da rimestar quella storia, cosa di cui si curasse meno che di toccare il fondo di quel mistero. Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci pensava. Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva moversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell’intimo dell’orecchio mentale il susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un’insistenza infaticabile, che nessuna persona vivente non ebbe mai!
Era scorso circa un anno dopo quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora, ed ebbe con lei quel colloquio al quale siam rimasti col racconto. La signora moltiplicava le domande intorno alla persecuzione di don Rodrigo, e entrava in certi particolari, con una intrepidezza, che riuscì e doveva riuscire più che nuova a Lucia, la quale non aveva mai pensato che la curiosità delle monache potesse esercitarsi intorno a simili argomenti. I giudizi poi che quella frammischiava all’interrogazioni, o che lasciava trasparire, non eran meno strani. Pareva quasi che ridesse del gran ribrezzo che Lucia aveva sempre avuto di quel signore, e domandava se era un mostro, da far tanta paura: pareva quasi che avrebbe trovato irragionevole e sciocca la ritrosia della giovine, se non avesse avuto per ragione la preferenza data a Renzo. E su questo pure s’avanzava a domande, che facevano stupire e arrossire l’interrogata. Avvedendosi poi d’aver troppo lasciata correr la lingua dietro agli svagamenti del cervello, cercò di correggere e d’interpretare in meglio quelle sue ciarle; ma non poté fare che a Lucia non ne rimanesse uno stupore dispiacevole, e come un confuso spavento. E appena poté trovarsi sola con la madre, se n’aprì con lei; ma Agnese, come più esperta, sciolse, con poche parole, tutti que’ dubbi, e spiegò tutto il mistero. - Non te ne far maraviglia, - disse: - quando avrai conosciuto il mondo quanto me, vedrai che non son cose da farsene maraviglia. I signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han tutti un po’ del matto. Convien lasciarli dire, principalmente quando s’ha bisogno di loro; far vista d’ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste. Hai sentito come m’ha dato sulla voce, come se avessi detto qualche gran sproposito? Io non me ne son fatta caso punto. Son tutti così. E con tutto ciò, sia ringraziato il cielo, che pare che questa signora t’abbia preso a ben volere, e voglia proteggerci davvero. Del resto, se camperai, figliuola mia, e se t’accaderà ancora d’aver che fare con de’ signori, ne sentirai, ne sentirai, ne sentirai.
Il desiderio d’obbligare [16] il padre guardiano, la compiacenza di proteggere, il pensiero del buon concetto che poteva fruttare la protezione impiegata così santamente, una certa inclinazione per Lucia, e anche un certo sollievo nel far del bene a una creatura innocente, nel soccorrere e consolare oppressi, avevan realmente disposta la signora a prendersi a petto la sorte delle due povere fuggitive. A sua richiesta, e a suo riguardo, furono alloggiate nel quartiere della fattoressa attiguo al chiostro, e trattate come se fossero addette al servizio del monastero. La madre e la figlia si rallegravano insieme d’aver trovato così presto un asilo sicuro e onorato. Avrebber anche avuto molto piacere di rimanervi ignorate da ogni persona; ma la cosa non era facile in un monastero: tanto più che c’era un uomo troppo premuroso d’aver notizie d’una di loro, e nell’animo del quale, alla passione e alla picca di prima s’era aggiunta anche la stizza d’essere stato prevenuto e deluso. E noi, lasciando le donne nel loro ricovero, torneremo al palazzotto di costui, nell’ora in cui stava attendendo l’esito della sua scellerata spedizione.
Note
1. Ogni minima richiesta.
2. Di darle un marito e destinarla alla vita laica.
3. La sala destinata alla toilette delle nobili dame.
4. Rivelata.
5. A sostenere la posizione privilegiata che ricoprirà in convento.
6. Dello stato di grazia in cui si trovava presso il padre.
7. La sua indole, il suo carattere.
8. Tazza di terracotta (dallo spagnolo jìcara, anche se qui è voce toscana).
9. Che i cavalli erano stati attaccati alla carrozza.
10. Vassoi.
11. I salotti dove si svolgevano le conversazioni.
12. In qualunque condizione.
13. Bigotte.
14. Per votare si mettevano palline dentro un'urna di legno di bossolo, bianche per il sì e nere per il no.
15. Le sgridava.
16. Di rendere riconoscente.
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