Capitolo IV
"Lodovico non aveva mai, prima d'allora, sparso sangue;
e, benché l'omicidio fosse, a que' tempi,
cosa tanto comune, che gli orecchi d'ognuno
erano avvezzi a sentirlo raccontare,
e gli occhi a vederlo, pure l'impressione ch'egli ricevette
dal veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto da lui,
fu nuova e indicibile..."
Personaggi: Padre Cristoforo, Lucia, Agnese (nel flashback: Lodovico, suo padre, il servo Cristoforo, il nobile ucciso, suo fratello)
Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, Pescarenico, la città di Lodovico
Tempo: 9 novembre 1628, al mattino (nel flashback: un arco di tempo assai ampio, circa trent'anni prima)
Temi: La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione
Trama: Padre Cristoforo lascia il convento e si reca alla casa di Agnese e Lucia. Durante il tragitto, vede i segni della carestia che affligge il paese. Con un flashback, viene raccontata la sua storia: Lodovico, figlio di un ricco mercante, uccide in un duello un nobile e si rifugia in un convento, dove matura la decisione di farsi frate. Chiede e ottiene il perdono del fratello dell'ucciso, che gli dona un pezzo di pane come pegno dell'avvenuta riconciliazione.
Padre Cristoforo lascia il convento
Alle prime luci dell'alba padre Cristoforo lascia il convento di Pescarenico (un piccolo paese sulle rive del lago, non lontano dal ponte di Lecco e abitato per lo più da pescatori) per recarsi alla casa di Agnese e Lucia. Il cielo è sereno e il sole illumina il paesaggio, in cui si vedono le foglie di gelso che cadono a terra e quelle della vite ancora rosseggianti, mentre nei campi biancheggiano le stoppie dopo la mietitura. Lo spettacolo sembra lieto, ma in realtà è rattristato dalla presenza di mendicanti lungo la strada che riveriscono il frate, mentre i contadini spargono i semi nei campi con parsimonia e lavorano svogliatamente con la zappa, e una ragazza conduce al pascolo una vacca macilenta raccogliendo erbe che possono nutrire la sua famiglia (tutto ciò rammenta che è periodo di carestia).
Ma per quale motivo il frate cappuccino ha risposto con tanta sollecitudine alla chiamata di Agnese e Lucia? E, soprattutto, chi è padre Cristoforo? Si tratta di un uomo di circa sessant'anni, che conserva ancora un atteggiamento fiero e inquieto nonostante l'abitudine all'umiltà; ha una lunga barba bianca che incornicia un volto scavato dall'astinenza, che per questo ha acquistato gravità, con due occhi che spesso sono chinati a terra ma talvolta si levano con improvvisa vivacità, simili a due cavalli domati dal cocchiere che, a volte, non rinunciano a tentare di ribellarsi ai suoi comandi.
Il passato di Cristoforo: Lodovico
L'autore apre a questo punto un ampio flashback in cui racconta il passato di padre Cristoforo, che prima di diventare frate si chiamava Lodovico (il nome della città in cui è nato non viene menzionato). Lodovico è figlio di un ricco mercante, che alla fine della sua vita lascia gli affari e inizia a vivere come un nobile, vergognandosi delle proprie origini che tenta in ogni modo di celare: al punto che un giorno, durante un banchetto, un commensale dice senza malizia che fa "orecchio da mercante", il che è sufficiente a fare incupire il padrone di casa e a spegnere l'allegria della brigata (da quel giorno l'incauto ospite non verrà più invitato). Lodovico viene educato come un aristocratico e acquista abitudini signorili, trovandosi assai ricco alla morte del padre, ma quando tenta di mescolarsi agli altri nobili della sua città viene trattato con disprezzo e si allontana da loro indispettito. In seguito tenta di competere con loro in sfarzo e spese futili, attirandosi inimicizie e critiche, per poi diventare una specie di difensore dei deboli e degli oppressi che subiscono angherie proprio da parte di quei nobili con cui ha avuto di che ridire. La sua indole è onesta ma incline alla violenza, per cui Lodovico si circonda di sgherri e bravi ed è spesso costretto a compiere atti moralmente discutibili per amore della giustizia, il che gli provoca rimorsi di coscienza (tanto che, a volte, è tentato dall'idea di abbandonare il mondo e farsi frate).
Lodovico uccide un nobile in un duello
Un giorno Lodovico cammina per strada insieme a due bravi e un fedele servitore di nome Cristoforo, già dipendente del padre e ora suo maestro di casa, un uomo di cinquant'anni con una numerosa famiglia. Il giovane incontra un nobile della sua città, noto per la sua arroganza, che procede circondato anch'egli da quattro bravi: entrambi camminano rasente un muro, e poiché Lodovico lo sfiora con il fianco destro avrebbe diritto che l'altro gli cedesse il passo, mentre il nobile potrebbe esigere la stessa cosa in quanto aristocratico (dunque entrambi, stando ai codici cavallereschi del tempo, avrebbero ragione). Quando i due si trovano di fronte, il nobile intima imperiosamente a Lodovico di farlo passare e il giovane rifiuta in modo sdegnoso; segue un breve scambio di battute in cui i contendenti si scambiano tipici insulti cavallereschi (il nobile dà a Lodovico del "meccanico" e gli rinfaccia le sue origini borghesi, l'altro lo accusa di viltà), poi nasce un duello cui prendono parte anche i bravi di entrambe le parti. Lo scontro è molto violento e Lodovico viene ferito, quando il suo avversario gli piomba addosso con la spada: il servo Cristoforo protegge il suo padrone e viene colpito a morte, quindi Lodovico uccide a sua volta il nobile trafiggendolo con la sua lama. A questo punto i bravi di entrambi si danno alla fuga, mentre Lodovico rimane steso in strada, malconcio, accanto ai corpi di Cristoforo e del suo rivale.
Lodovico si rifugia in convento
Attorno ai tre uomini si raccoglie una piccola folla di spettatori, i quali conoscono Lodovico come giovane dabbene e il nobile ucciso come un noto prepotente, per cui non vogliono che il primo finisca nelle mani della giustizia o dei parenti del morto: lo conducono allora a un vicino convento di cappuccini, dove potrà essere curato e sarà al riparo da possibili ritorsioni (i luoghi sacri offrono asilo a chi vi si rifugia). Lodovico è rimasto profondamente turbato dalla morte di Cristoforo che si è sacrificato per lui, e soprattutto dalla vista dell'uomo che lui stesso ha assassinato; più tardi un padre del convento gli riferisce che il nobile, prima di spirare, lo ha perdonato e ha chiesto a sua volta perdono per il male commesso, il che accresce il suo scoramento e il rimorso per quanto ha fatto. Frattanto i parenti del nobile ucciso, armati di tutto punto, giungono nei pressi del convento per reclamare la consegna di Lodovico, cosa che non possono ottenere poiché quello è un luogo sacro e inviolabile.
Il giovane prega i cappuccini di riferire alla vedova di Cristoforo che provvederà lui alle necessità della famiglia, quindi matura la decisione di indossare la tonaca come espiazione del male commesso: annuncia la sua decisione al padre guardiano, il quale lo ammonisce dal prendere risoluzioni affrettate ma si dichiara disposto ad accoglierlo. Lodovico in seguito fa donazione di tutti i suoi averi alla vedova di Cristoforo, mentre la sua scelta di farsi frate toglie i cappuccini dall'imbarazzo di decidere cosa fare di lui, poiché la famiglia dell'uomo ucciso pretende vendetta e i frati non possono certo consegnar loro Lodovico senza rinunciare ai loro privilegi: tuttavia la monacazione del giovane può sembrare un'espiazione sufficiente per l'omicidio commesso, dunque la cosa potrà soddisfare i parenti del nobile ucciso (che, del resto, non piangono la sua morte ma si sentono offesi nell'onore nobiliare).
Lodovico diventa fra Cristoforo
Il padre guardiano si reca dal fratello dell'ucciso e gli comunica la decisione di Lodovico, indicando la monacazione del giovane come risarcimento sufficiente per l'onore della famiglia, al che il gentiluomo protesta il proprio sdegno ma, alla fine, pone come unica condizione che il novizio lasci immediatamente la città. Il padre acconsente e lascia credere che si tratti di un gesto d'obbedienza (in realtà ha già preso questa decisione), per cui la questione viene risolta con soddisfazione di tutti, specie di Lodovico che in tal modo potrà iniziare una vita di espiazione e penitenza. Ad appena trent'anni diventa dunque frate e assume il nome di Cristoforo, in modo da ricordarsi sempre del male commesso e accrescere così l'espiazione di quella morte causata indirettamente da lui.
Fra Cristoforo dovrà compiere il noviziato in un paese a sessanta miglia di distanza, ma il giovane chiede al padre guardiano di potersi prima recare dal fratello dell'ucciso a implorare il suo perdono per il gesto compiuto. Il padre approva l'intenzione e si reca dal gentiluomo a rivolgere tale richiesta, al che il nobile pensa che questa sarà l'occasione di una pubblica soddisfazione della famiglia e risponde che Cristoforo potrà venire il giorno dopo. Il gentiluomo l'indomani fa raccogliere tutti i parenti nel suo palazzo e attende il novizio circondato da aristocratici in abito da cerimonia e le spade al fianco, in uno scenario di pompa e magnificenza tipica dell'aristocrazia di quei tempi.
Fra Cristoforo ottiene il perdono del fratello dell'ucciso
Fra Cristoforo giunge al palazzo accompagnato da un altro padre e prova subito un certo imbarazzo al vedere tanti nobili riuniti, ma poi pensa che ciò sarà parte della sua espiazione per il delitto commesso. Attraversa una grande sala piena di gente e si inginocchia ai piedi del fratello del nobile ucciso, che lo guarda dall'alto con aria altera e sdegnata: il frate parla con voce sincera e chiede con contrizione perdono per il male commesso, suscitando un mormorio di approvazione da parte di tutti i presenti. Anche il gentiluomo padrone di casa è toccato e invita Cristoforo ad alzarsi, aggiungendo parole di conforto e riconoscendo i torti del fratello defunto; quindi concede il proprio perdono al frate, che si dice contento di ciò (anche se, ovviamente, ciò non cancella il male compiuto ai danni dell'uomo ucciso).
Tutti si felicitano con il novizio, al quale i servitori di casa offrono delicate vivande; il frate rifiuta con cortesia, limitandosi a chiedere solo un pezzo di pane con cui potrà rifocillarsi durante il viaggio che lo attende. Il padrone di casa lo accontenta e un cameriere gli porge su un piatto d'argento un pane, che il novizio mette nella sporta e di cui conserverà un pezzo come ricordo di quel memorabile giorno (il cosiddetto "pane del perdono"). Fra Cristoforo lascia il palazzo riverito da tutti, mentre il fratello del morto è stupito della sua benevolenza e da quel giorno diventa un po' più affabile e meno altero, mentre tutta la sua famiglia ricorderà questa giornata nel segno del perdono e della riconciliazione.
Padre Cristoforo giunge a casa di Lucia
L'autore non racconta la vita di padre Cristoforo negli anni seguenti, se non dicendo che il cappuccino esegue con obbedienza i doveri che gli sono imposti, cioè di predicare e assistere i moribondi, anche se non rinuncia quando si presenta l'occasione a prendere le difese dei deboli contro le ingiustizie degli oppressori: l'uomo conserva ancora un barlume dell'antica fierezza e dell'indole animosa, per cui il suo contegno, abitualmente umile e posato, può diventare impetuoso e sdegnato quando assiste a qualche intollerabile ingiustizia. Ciò spiega la sua sollecitudine nel rispondere alla chiamata di Lucia, che il padre conosce come una giovane innocente e vittima di un'infame persecuzione da parte di don Rodrigo: in ansia per lei e per quanto può esserle accaduto, giunge infine alla casa della giovane e della madre Agnese, le quali accolgono il cappuccino con una benedizione.
Temi principali e collegamenti
- Protagonista assoluto del capitolo è ovviamente padre Cristoforo, di cui l'autore racconta la storia passata che spiega l'indole e l'atteggiamento del personaggio attuale: la sua è la vicenda di un uomo che in gioventù lottava contro il male con le armi e la violenza, ha commesso un omicidio, si è pentito e ha scelto di espiare il delitto indossando la tonaca e votandosi a una vita di umiliazione, penitenza e servizio al prossimo. La sua storia prefigura in parte quella dell'innominato, destinato anch'egli a pentirsi dei suoi peccati e a convertirsi in modo clamoroso, benché lui non scelga di farsi frate ma di mettersi al servizio degli altri senza più portare armi o usare la violenza.
- L'esempio di Lodovico è significativo anche in quanto l'autore lascia intendere che chi è nobile difficilmente può sottrarsi a una logica di violenza e sopraffazione, a meno di uscire in modo definitivo dalla sua classe sociale con una diversa scelta di vita (è quanto non saprà fare Gertrude, che si sottomette al volere del padre e indossa il velo contro la sua volontà).
- Manzoni, attraverso il personaggio del padre di Lodovico, critica l'aristocrazia che per i suoi pregiudizi disprezza la classe borghese e i mercanti, vivendo per parte sua in modo ozioso e improduttivo: così fa anche il mercante citato, che lascia gli affari e tenta di trasformarsi in aristocratico, facendo dimenticare la sua precedente attività di cui si vergogna. L'autore ritiene che l'aristocrazia debba rendersi utile alla propria nazione impegnandosi in attività produttive, allineandosi in ciò alla critica che già la letteratura dell'Illuminismo rivolgeva alla vecchia nobiltà di sangue (cfr. Parini e il "giovin signore" del Giorno ).
- La scena in cui il giovane fra Cristoforo chiede perdono al fratello dell'uomo che ha ucciso è costruita con arte raffinata: Manzoni tratteggia un quadro impietoso della vuota vanagloria della nobiltà secentesca, che trasforma un momento toccante di contrizione in un'occasione per sfoggiare pompa e magnificenza, che possa diventare "una bella pagina nella storia della famiglia" (dunque una sorta di pubblica cerimonia, in cui il perdono concesso a Cristoforo si tramuti in un gesto solenne con cui riaffermare la propria superiorità sociale). L'autore sottolinea il fatto che il fratello dell'ucciso agisce non per affetto verso il defunto, bensì per difendere l'onore del casato che sente offeso dal gesto di Lodovico, dunque con un atteggiamento di orgoglio nobiliare non diverso da quello del conte zio che interviene per "salvare l'onore di Rodrigo" su suggerimento del conte Attilio (cap. XVIII).
- Il "pane del perdono" verrà donato da padre Cristoforo a Renzo e Lucia nel lazzaretto (cap. XXXVI), come ricordo della sua persona e della terribile esperienza vissuta.
Duelli e onore cavalleresco
Manzoni non manca di sottolineare nel corso del romanzo l'importanza che regole e codici cavallereschi hanno per gli aristocratici del Seicento, che spesso per difendere il loro onore nobiliare non esitano a commettere azioni delittuose e ingiustizie: ciò è parte della critica dell'autore contro la vecchia nobiltà di sangue, ridicolmente attaccata ai propri privilegi di casta e prigioniera di un malinteso senso del "decoro" che è spesso frutto di veri e propri soprusi ai danni dei più deboli (è il concetto di "punto d'onore", tante volte evocato negli episodi del romanzo). La cosa emerge con chiarezza già nel cap. IV, quando il giovane Lodovico affronta in un duello mortale un nobile per una sciocca e futile contesa che riguarda chi dei due debba cedere il passo all'altro per strada: entrambi hanno ragione in quanto si appellano a consuetudini opposte e valide allo stesso modo, e il risultato è un terribile scontro che causa la morte dell'aristocratico e del servitore di Lodovico che lascia una vedova e molti figli orfani. I duelli avevano in effetti grande importanza nel sistema di valori e precetti di comportamento dell'aristocrazia del XVI-XVII secolo, come dimostra il gran numero di libri e trattati sull'argomento che venivano scritti da autori specializzati in questioni di questo genere; ne è un esempio proprio il dialogo fra Lodovico e il suo rivale, che ricalca i moduli tipici delle contese cavalleresche e prevede alcune risposte "di prammatica" (il nobile rinfaccia a Lodovico le sue origini borghesi, lo chiama "vile meccanico", afferma di voler spezzare la sua spada dopo averla bagnata del suo sangue; l'altro ribatte accusandolo di viltà e di accampare tali pretesti per volersi sottrarre allo scontro). La futilità dei motivi che scatenano il duello dimostra l'assurdità di tali codici cavallereschi cristallizzati da secoli, spiegando inoltre la scelta di Lodovico che, facendosi frate, rifiuta in modo clamoroso la sua adesione a simili modelli di comportamento, con l'uscita irrevocabile dalla classe sociale agiata cui apparteneva.
Non è dunque un caso che quando padre Cristoforo si reca al palazzo di don Rodrigo (cap. V) trovi il signorotto a tavola con i suoi commensali, fra cui il podestà e il conte Attilio impegnati in una sciocca disputa cavalleresca che riguarda proprio una sfida a duello: la discussione ferve intorno alla legittimità o meno della bastonatura impartita da un nobile al messaggero che gli ha recato il "cartello" di sfida per il fratello, non per pietà verso il malcapitato ma solo per il rispetto delle regole della cavalleria (entrambi i contendenti citano "autorità" letterarie per sostenere la propria tesi, fra cui quella di Torquato Tasso che nel Seicento era considerato un maestro di scienza cavalleresca). Il padrone di casa invita il cappuccino a farsi arbitro della contesa, facendo allusioni inopportune al suo passato di laico (dunque al fatto che lui stesso aveva ucciso un uomo in un duello), ma la risposta di padre Cristoforo è che, secondo lui, non ci dovrebbero essere né sfide, né duelli, né bastonature, dunque respinge quell'insieme di codici cavallereschi che, invece, sono tanto importanti per i nobili presenti. Infatti la reazione del conte Attilio è di sorpresa e compatimento per il frate, col dire che un mondo senza il "punto d'onore" sarebbe un mondo alla rovescia, in cui ci sarebbe "impunità per tutti i mascalzoni" (questo termine designava, in ambito cavalleresco, coloro che si comportavano in modo vile, ma è ovvio che tale epiteto si addice assai di più al conte e al cugino Rodrigo che perseguita la povera Lucia proprio per puntiglio cavalleresco, per non perdere la famosa scommessa). Il punto di vista di Cristoforo è ovviamente quello di un religioso che crede nella carità e non nella violenza, ma è un "debole parere" (le parole sono del padre stesso) che, come ribadito poi dall'Azzecca-garbugli, "non val niente... in una disputa cavalleresca", in quanto la sua visione del mondo è incompatibile con quella di nobili che vivono nell'ozio e, per passare il tempo, discutono di questioni assolutamente futili e di nessuna importanza rispetto ai veri problemi della società (essi, del resto, sono intenti a gozzovigliare, mentre fuori, nel mondo reale, infuria la carestia).
Da ricordare infine che don Ferrante verrà descritto dall'autore (XXVII) come un vero esperto di "scienza cavalleresca", al punto che viene spesso richiesto di un parere nelle dispute simili a quella di cui si è detto prima: la sua ricca biblioteca comprende diversi libri e trattati di questa materia, che egli considera superiore a tutte le altre, i cui autori sono quelli reputati più dotti e autorevoli nel XVII secolo (Manzoni cita, tra gli altri, Paride del Pozzo, Fausto da Longiano, Girolamo de Urrea, nonché quel Torquato Tasso già citato dal podestà a sostegno della propria tesi; inutile dire che, tranne il Tasso, gli altri sono scrittori oggi a malapena conosciuti). È chiaro che anche in questo don Ferrante si dimostra il rappresentante tipico dell'aristocrazia del Seicento, che tanta importanza assegnava a codici e leggi totalmente futili e trascurava invece lo studio di materie degne di migliori sforzi (l'intera pagina dedicata al ritratto di questo gentiluomo è pervasa da una feroce e corrosiva ironia).
Capitolo IV
Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli [1] e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura.
Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo? Bisogna soddisfare a tutte queste domande.
Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico [2], e s’era dato a viver da signore.
Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio [3], gli comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di Banco a Macbeth [4], anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola che potesse parere allusiva all’antica condizione del convitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparecchiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio col candore d’un bambino, rispose: - eh! io fo l’orecchio del mercante -. Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che s’era rannuvolata: l’uno e l’altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione [5]; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto.
Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.
Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de’ vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra. Que’ due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: - fate luogo.
- Fate luogo voi, - rispose Lodovico. - La diritta è mia.
- Co’ vostri pari, è sempre mia.
- Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei. I bravi dell’uno e dell’altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de’ contendenti.
- Nel mezzo, vile meccanico [6]; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.
- Voi mentite ch’io sia vile.
- Tu menti ch’io abbia mentito -. Questa risposta era di prammatica. - E, se tu fossi cavaliere, come son io, - aggiunse quel signore, - ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.
- E un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole.
- Gettate nel fango questo ribaldo, - disse il gentiluomo, voltandosi a’ suoi.
- Vediamo! - disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada.
- Temerario! - gridò l’altro, sfoderando la sua: - io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue.
Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla difesa de’ loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e anche perché Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall’altra parte: e Lodovico si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla.
- Com’è andata? - È uno. - Son due. - Gli ha fatto un occhiello nel ventre. - Chi è stato ammazzato? - Quel prepotente. - Oh santa Maria, che sconquasso! - Chi cerca trova. - Una le paga tutte. - Ha finito anche lui. - Che colpo! - Vuol essere una faccenda seria. - E quell’altro disgraziato! - Misericordia! che spettacolo! - Salvatelo, salvatelo. - Sta fresco anche lui. - Vedete com’è concio! butta sangue da tutte le parti. - Scappi, scappi. Non si lasci prendere.
Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune [7]; e, col consiglio, venne anche l’aiuto. Il fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: - è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli.
Lodovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue; e, benché l’omicidio fosse, a que’ tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d’ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui [8], fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l’alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore. Strascinato al convento, non sapeva quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò in un letto dell’infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento), che accomodava faldelle e fasce sulle due ferite ch’egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego particolare era d’assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento. Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell’infermeria, e, avvicinatosi al letto dove Lodovico giaceva, - consolatevi - gli disse: - almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo -. Questa parola fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo: dolore dell’amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello stesso tempo, un’angosciosa compassione dell’uomo che aveva ucciso. - E l’altro? - domandò ansiosamente al frate.
- L’altro era spirato, quand’io arrivai. Frattanto, gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di dispetto minaccioso, que’ curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma l’avevano scritto in viso.
Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch’egli prendeva la famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati.
La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali, per cagion sua, erano in un bell’intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo così alla giustizia, cioè alla vendetta de’ suoi nemici, non era partito da metter neppure in consulta [9]. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo, per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le quali si consideravan come tutrici di questo diritto. Dall’altra parte, la famiglia dell’ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s’era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s’attentasse di mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in certa maniera, un’emenda, s’imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l’armi. I parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che s’era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d’elemosina, poteva parere una punizione competente, anche all’offeso il più borioso.
Il padre guardiano si presentò, con un’umiltà disinvolta, al fratello del morto, e, dopo mille proteste di rispetto per l’illustrissima casa, e di desiderio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera ancor più destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: - è un troppo giusto dolore -. Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l’uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d’ubbidienza: e tutto fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo, che vedeva fuor d’impiccio un uomo ben voluto, e che, nello stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla paura, l’afflisse un momento; ma si consolò subito, col pensiero che anche quell’ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per lui, e un mezzo d’espiazione. Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo.
Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia. - Permettetemi, padre, - disse, - che, prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo -. Al guardiano parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche compiacenza. Dopo aver pensato un momento, - venga domani, - disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.
Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane [10] pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre [11]. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio [12], ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé: "sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandalo, questa è riparazione". Così, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e, di mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato da’ parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.
C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, né veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: - io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio -. Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato, - alzatevi, - disse, con voce alterata: - l’offesa... il fatto veramente... ma l’abito che portate... non solo questo, ma anche per voi... S’alzi, padre... Mio fratello... non lo posso negare... era un cavaliere... era un uomo... un po’ impetuoso... un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne parli più... Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura -. E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: - io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!
- Perdono? - disse il gentiluomo. - Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti...
- Tutti! tutti! - gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace. Un - bravo! bene! - scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: - padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’amicizia -. E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, - queste cose, - disse, - non fanno più per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono -. Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi da’ servitori, e anche da’ bravi, che gli baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.
Il fratello dell’ucciso, e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono in vece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch’era quel rodomonte [13] che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molt’anni prima. Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che aveva in teso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: - diavolo d’un frate! - (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) - diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello -. La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ più alla mano.
Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser consacrata. Il silenzio ch’era imposto a’ novizi, l’osservava, senza avvedersene, assorto com’era, nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e dell’umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo.
Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che, adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e d’assistere i moribondi, non lasciava mai sfuggire un’occasione d’esercitarne due altri, che s’era imposti da sé: accomodar differenze [14], e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per qualche parte, senza ch’egli se n’avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un resticciolo di spiriti guerreschi, che l’umiliazioni e le macerazioni non avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso del predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva.
Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l’aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammirava l’innocenza di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un’indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l’oggetto. Oltre di ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch’era in lui come ingenita [15], s’aggiungeva, in questo caso, quell’angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni.
Ma, intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, è arrivato, s’è affacciato all’uscio; e le donne, lasciando il manico dell’aspo [16] che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: - oh padre Cristoforo! sia benedetto!
Note
1. Reti formate da tre veli sovrapposti.
2. Agli affari.
3. La bottega, le balle di merce, il libro delle entrate e delle uscite, la misura lineare.
4. Nella tragedia di W. Shakespeare Macbeth, il fantasma di Banco (che il re ha fatto assassinare) appare al protagonista durante un banchetto.
5. Cambiare discorso.
6. L'epiteto "meccanico" indica un appartenente a una classe sociale inferiore, popolare (vale "lavoratore umile").
7. La decisione di tutti.
8. L'uomo ucciso per lui (il servitore) e quello ucciso da lui (il nobile). "Morto" significa "ucciso".
9. Era una possibilità da non prendere nemmeno in considerazione.
10. Durlindana (Durendal) è il nome della spada di Orlando nei poemi cavallereschi del ciclo carolingio.
11. La gorgiera era il collare increspato di seta, parte della moda maschile del Seicento, la zimarra era una sorta di lungo mantello finemente ricamato.
12. Quei preparativi.
13. Rodomonte è un personaggio dei poemi cavallereschi del ciclo carolingio, guerriero pagano superbo e pieno di alterigia.
14. Appianare contrasti.
15. Connaturata.
16. Il piccolo bastone di legno attorno al quale si avvolge il filo per cucire.
Fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-iv.html