Copy Link
Add to Bookmark
Report

Capitolo III

"Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole,
Renzo lo stava guardando con un'attenzione estatica,
come un materialone sta sulla piazza
guardando al giocator di bussolotti, che,
dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa,
ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai..."


AniphaeS's profile picture
Published in 
I Promessi Sposi
 · 6 years ago
F. Gonin, Renzo dall'Azzecca-Garbugli
Pin it
F. Gonin, Renzo dall'Azzecca-Garbugli

Personaggi: Renzo, Lucia, Agnese, don Rodrigo, il conte Attilio, l'Azzecca-garbugli, la sua serva, fra Galdino

Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, Lecco

Tempo: 8 novembre 1628, pomeriggio-sera

Temi: La giustizia, La carestia, La cultura del Seicento, Nobiltà e potere

Trama: Lucia racconta a Renzo e Agnese le molestie di don Rodrigo e la scommessa di questi con Attilio. Agnese consiglia a Renzo di rivolgersi all'avvocato Azzecca-garbugli. Renzo si reca nel suo studio, a Lecco, ma dopo un equivoco viene cacciato in malo modo quando fa il nome del signorotto. Intanto Lucia e Agnese ricevono fra Galdino, che racconta il "miracolo delle noci". Lucia chiede al frate di avvertire padre Cristoforo. Renzo torna a casa sconsolato.

F. Gonin, Lucia affretta il passo
Pin it
F. Gonin, Lucia affretta il passo

Il racconto di Lucia: la "scommessa" di don Rodrigo


Lucia torna da Renzo e Agnese e, incalzata dalle loro richieste, racconta tra i singhiozzi cosa è accaduto pochi giorni prima: mentre tornava dalla filanda, era rimasta indietro dalle compagne e aveva incontrato per caso don Rodrigo, in compagnia di un altro nobile (il conte Attilio); il signorotto l'aveva importunata con parole volgari, quindi lei aveva affrettato il passo per raggiungere le compagne, sentendo don Rodrigo che diceva all'altro signore "scommettiamo". Il giorno seguente c'era stato un nuovo incontro, ma stavolta la giovane aveva tenuto gli occhi bassi ed era rimasta in mezzo alle altre ragazze; in seguito Lucia aveva raccontato tutto al padre Cristoforo, in confessione, e giustifica il suo silenzio con la madre dicendo di non aver voluto rattristarla, anche se un'altra ragione era il timore che la donna, alquanto pettegola, rivelasse la cosa in paese. Il padre Cristoforo le aveva consigliato di non uscire e di affrettare le nozze, motivo per cui lei aveva pregato Renzo di accelerare le pratiche (nel dire questo non può evitare di arrossire). Lucia scoppia in lacrime e Renzo inveisce contro don Rodrigo, manifestando propositi bellicosi che però la giovane sopisce subito invitando il giovane a confidare in Dio. Lucia propone addirittura di lasciare il paese, ma Renzo le ricorda che non sono sposati e ciò creerebbe infiniti problemi; quanto a don Abbondio, non c'è da sperare che celebri il matrimonio o li agevoli in questa decisione.

F. Gonin, Renzo e i capponi
Pin it
F. Gonin, Renzo e i capponi

Renzo va dall'Azzecca-garbugli

I tre restano in silenzio, finché Agnese ha un'idea e consiglia a Renzo di andare a Lecco, per rivolgersi a un dottore in legge che tutti chiamano Azzecca-garbugli e che la donna descrive come un uomo alto, magro, pelato, col naso rosso e una voglia di lampone sulla guancia. Agnese raccomanda a Renzo di non chiamarlo col suo soprannome e gli suggerisce di portargli come offerta i quattro capponi che avrebbe dovuto cucinare per il banchetto nuziale della domenica. Il giovane accetta di buon grado e, presi i capponi, si reca subito nella vicina cittadina di Lecco, camminando di buon passo e dimenando le povere bestie che tiene per le zampe, le quali si beccano tra loro come di solito fanno i compagni di sventura.
Giunto a Lecco, Renzo si fa indicare la casa dell'avvocato e qui viene accolto dalla serva in cucina, alla quale consegna i capponi non senza qualche esitazione (il giovane vorrebbe addirittura darli al dottore in persona). Compare poi l'Azzecca-garbugli, che accoglie Renzo nel suo studio dopo che il giovane si è prodotto in un profondo inchino.

F. Gonin, Renzo e l'avvocato
Pin it
F. Gonin, Renzo e l'avvocato

Colloquio tra Renzo e l'avvocato: l'equivoco

Lo studio dell'avvocato è una grande stanza, che su tre pareti mostra i ritratti dei dodici Cesari mentre la quarta è occupata da uno scaffale pieno di libri impolverati; in mezzo c'è un tavolo con sopra gride e documenti accatastati alla rinfusa, circondato da qualche sedia e dalla poltrona dell'avvocato, alquanto consunta dall'uso e dal tempo. Il dottore indossa una toga anch'essa sgualcita dal tempo, che contribuisce a dare all'ambiente un carattere di trascuratezza e disordine.
L'Azzecca-garbugli chiede a Renzo quale sia il suo caso e il giovane gli domanda, con qualche esitazione, se chi minaccia un curato perché non celebri un matrimonio può incorrere in una pena. L'avvocato cade in un equivoco e pensa che Renzo sia un bravo, quindi gli dice di aver fatto bene a rivolgersi a lui e si alza, cercando qualcosa tra i documenti sul tavolo. Dopo un po' trova una grida, datata 15 ottobre 1627, e inizia a leggerla invitando Renzo a seguirlo (il giovane dice di saper leggere "un pochino"): la grida commina pene assai severe a coloro che minacciano un curato per non celebrare un matrimonio, al che Renzo si mostra soddisfatto e felice che la legge preveda il caso che lo riguarda. Il dottore, che lo crede un malfattore, è stupito della sua calma e gli dice che ha fatto bene a tagliarsi il ciuffo, cosa che ovviamente Renzo smentisce affermando di non averlo mai portato in vita sua, cioè di non essere un bravo. A questo punto l'Azzecca-garbugli si irrita e, credendo che Renzo voglia farsi beffe di lui, lo invita a dire tutta la verità perché solo in questo modo l'avvocato potrà tirarlo fuori dai guai: gli prospetta poi il modo in cui lo assisterà, ovvero invocando la protezione del signore che lo ha incaricato di eseguire le minacce, comprando testimoni, minacciando a sua volta lo sposo offeso e il curato, facendo cioè capire a Renzo che un abile leguleio è in grado di manipolare la giustizia e farsi beffe della legge, assicurando l'impunità ai colpevoli e negando alle vittime il riconoscimento dei propri diritti.

L'avvocato caccia Renzo (ediz. 1840)
Pin it
L'avvocato caccia Renzo (ediz. 1840)

Renzo viene cacciato dall'Azzecca-Garbugli

Renzo continua ad ascoltare l'avvocato come inebetito, poi comprende l'equivoco in cui è caduto l'Azzecca-garbugli e svela finalmente la verità, affermando di non essere un colpevole ma la vittima, e di non aver minacciato nessuno in quanto è lui la parte lesa nel mancato matrimonio. Il dottore lo rimprovera per la poca chiarezza, quindi il giovane racconta per sommi capi la sua vicenda (il fidanzamento con Lucia, le nozze rimandate, il modo in cui ha fatto confessare il curato...), ma quando fa il nome di don Rodrigo l'avvocato lo interrompe e inizia a storcere la bocca. L'Azzecca-garbugli non vuole sentire altro da Renzo e lo accusa di raccontar fandonie, invitandolo ad andarsene subito dalla sua casa: lo caccia via senza sentir ragioni, ordinando addirittura alla serva di restituirgli i capponi, cosa che la domestica fa guardando il giovane come se avesse combinato qualche grosso guaio. Renzo tenta ancora di difendere le sue ragioni, ma l'avvocato è irremovibile e al giovane non resta che andarsene sconsolato, per tornare al paese dalle due donne.

F. Gonin, Fra Galdino
Pin it
F. Gonin, Fra Galdino

Fra Galdino va a casa di Agnese e Lucia

Nel frattempo Agnese e Lucia, dopo essersi tolto l'abito della festa e aver indossato quello da lavoro, stanno pensando al da farsi e Lucia vorrebbe avvertire il padre Cristoforo dell'accaduto per avere da lui consiglio e aiuto, ma nessuna delle due sa come contattarlo (il convento di Pescarenico dove il cappuccino si trova è lontano e loro non hanno certo il coraggio di andarci). In quel momento si sente bussare alla porta e si sente qualcuno dire "Deo gratias" , per cui Lucia corre ad aprire e compare fra Galdino, un cercatore laico cappuccino che porta al collo la sua bisaccia per la cerca delle noci. Dopo i saluti, Agnese ordina alla figlia di andare a prendere le noci per il convento e la ragazza ubbidisce, non prima però di aver fatto cenno alla madre, senza farsi vedere dal frate, di non dire una sola parola circa quello che è accaduto quel giorno.

Fra Galdino racconta il "miracolo delle noci"
Fra Galdino chiede spiegazioni ad Agnese circa il matrimonio rimandato e la donna, memore dell'ammonimento della figlia, dice che è stato a causa di una malattia del curato. Il cercatore lamenta poi della scarsità della sua raccolta e dichiara che come rimedio per la carestia c'è solo l'elemosina, come dimostra il "miracolo delle noci" che avvenne molti anni prima in un convento di cappuccini in Romagna: il frate narra che in quel convento c'era un padre santo di nome Macario, che un giorno vide in un campo il proprietario di un noce che ordinava ai suoi contadini di abbattere la pianta; l'uomo disse al padre che il noce non faceva frutti, al che il cappuccino rispose che quell'anno avrebbe dato un raccolto straordinario. L'uomo accettò di risparmiare l'albero e promise che la metà delle noci sarebbe andata al convento. A primavera, in effetti, il noce produsse una quantità incredibile di frutti, ma il proprietario era morto prima di raccoglierle e suo figlio, giovane molto diverso dal padre, si era poi rifiutato di onorare la promessa e di consegnare le noci al convento. Un giorno, però, il giovinastro stava gozzovigliando con amici suoi pari, ridendo dei frati, e li aveva condotti in granaio a vedere le noci: al posto dei frutti trovarono solo i fiori secchi della pianta, per cui la voce del miracolo si sparse in un baleno e il convento ne guadagnò, perché in seguito ricevette tante elemosine da poterle poi ridistribuire tra i poveri, come normalmente avviene.

F. Gonin, Renzo torna a casa
Pin it
F. Gonin, Renzo torna a casa

Lucia chiede al frate di chiamare padre Cristoforo. Ritorno di Renzo

Poco dopo ritorna Lucia, che porta nel grembiule tante di quelle noci che la madre le lancia un'occhiata di rimprovero: fra Galdino riempie la sua bisaccia e ringrazia di cuore, quindi la giovane lo prega di riferire al padre Cristoforo che lei e la madre hanno bisogno di parlargli e che lo faccia venire alla loro casa quanto prima. Il frate promette di riportare il messaggio e se ne va, mentre Lucia è certa che il padre, un frate di grande autorità e di molto prestigio in quelle contrade, non tarderà a farsi vedere (i frati cappuccini, del resto, godevano a quei tempi di profondo rispetto come di disprezzo, essendo votati all'umiltà, alla carità, al servizio del prossimo).
In seguito Agnese rimprovera la figlia della sua generosa elemosina, specie in quell'anno di carestia, ma Lucia si giustifica adducendo il fatto che in tal modo fra Galdino tornerà subito al convento e compirà senz'altro l'ambasciata, mentre se dovesse proseguire la cerca delle noci se ne scorderebbe di certo. Agnese approva la sua decisione, quindi sopraggiunge Renzo che getta i capponi sulla tavola e riferisce l'infelice esito del suo incontro con l'Azzecca-garbugli, lasciando nella costernazione le due donne (Agnese tenta di dire che il giovane non ha saputo spiegarsi con l'avvocato). Renzo torna a manifestare oscuri propositi di vendetta, al che le due donne cercano di calmarlo e Lucia dichiara di sperare molto nell'aiuto del padre Cristoforo, che il giorno dopo verrà certamente a visitarle. È ormai il tramonto e Renzo, sconsolato, lascia la casa della sua promessa continuando a ripetere "a questo mondo c'è giustizia, finalmente".

Temi principali e collegamenti

- All'inizio del capitolo Lucia racconta l'antefatto del suo incontro con don Rodrigo, che l'autore sintetizza in un breve discorso indiretto: apprendiamo che all'origine di tutto è una scommessa fatta per gioco con un altro nobile (ci verrà detto nel cap. V che si tratta del cugino, il conte Attilio), dunque una prepotenza usata da un aristocratico contro una povera contadina, che non nasce certo da una torbida passione o da un'ossessione di natura amorosa. In seguito scopriremo che il termine per la scommessa è il giorno di San Martino, l'11 novembre (cap. VII), e che don Rodrigo vorrà vincerla a tutti i costi soprattutto per una questione di puntiglio cavalleresco, per non sfigurare di fronte ad Attilio e agli altri amici nobili.

- L'avvocato Azzecca-garbugli è il vero protagonista dell'episodio: personaggio farsesco e degno di una commedia, cade in un grossolano equivoco scambiando Renzo per un bravo venuto a cercare assistenza legale e mostra al povero giovane che le gride e le leggi non assicurano minimamente la giustizia alle vittime, poiché esse si prestano ad essere aggirate da chi ha denaro, agganci politici e amici influenti. Attraverso di lui l'autore rivolge una dura polemica contro le storture dei sistemi giudiziari, più accentuate negli Stati politicamente decadenti (è il caso della Lombardia del '600, ma la critica di Manzoni non risparmia neppure le istituzioni giudiziarie dell'800, ben lontane dall'assicurare la giustizia ai più deboli).

- All'inizio del capitolo viene citato il padre Cristoforo e il cappuccino è poi direttamente chiamato in causa alla fine, attraverso la figura di fra Galdino: questi rappresenta l'uomo semplice che nutre una fiducia cieca e un po' ingenua nel potere della carità, esemplificata attraverso l'apologo del "miracolo delle noci". Il racconto è un intermezzo narrativo edificante che fa da diversivo nella trama del romanzo, ma serve anche a introdurre le figure dei cappuccini che della carità e del servizio al prossimo facevano la loro ragion d'essere; val la pena, inoltre, di osservare come la storia del figlio degenere del proprietario del noce ricordi vagamente quella di don Rodrigo, il cui padre era stato di tempra ben diversa (cap. VI) mentre lui, ora che gli è succeduto, si dà ai bagordi e alle soperchierie non diversamente dal protagonista del racconto. La morale dell'apologo, naturalmente, è che la carità vince sulla malvagità umana e questo si rivelerà vero per lo stesso don Rodrigo.

- Sono divenuti proverbiali i "capponi di Renzo", a indicare l'atteggiamento dei compagni di sventura i quali, anziché aiutarsi a vicenda, spesso disputano tra loro come le povere bestie che si beccano l'una con l'altra.

Rembrandt, Frate francescano
Pin it
Rembrandt, Frate francescano

I frati cappuccini, esempio di carità e dedizione


Rembrandt, Frate francescano
I cappuccini formano l'ultima, in ordine di tempo, delle tre famiglie autonome del primo Ordine di san Francesco d'Assisi, staccatasi dai Frati minori osservanti per il desiderio di una più rigida osservanza della Regola: essi furono approvati da papa Clemente VII con la bolla Religionis zelus (datata 3 luglio 1528) e da allora i frati cappuccini prosperarono in tutta Italia, raggiungendo un gran numero di adepti e conventi tra XVII e XVIII secolo. Detti così per l'uso di portare una tonaca con cappuccio (un altro segno distintivo era la barba), divennero famosi predicatori e acquistarono un notevole prestigio, il che spiega come mai Manzoni introduca nel romanzo più di un personaggio appartenente a quest'Ordine, a cominciare naturalmente da padre Cristoforo. Nell'introdurre la sua figura alla fine del cap. III l'autore spende alcune parole di elogio nei confronti dei cappuccini, affermando che essi erano esempio di umiltà, carità, dedizione al prossimo, ma godevano anche di grande autorità ed erano, per certi aspetti, temuti; "s'esponevan più da vicino alla venerazione e al vilipendio", cosa che risulta evidente nel cap. V, quando Cristoforo si reca al palazzo di don Rodrigo e viene dapprima ricevuto e riverito con tutti gli onori (il signorotto cerca l'appoggio e la protezione dei padri del convento), ma in seguito è insultato pesantemente e cacciato in malo modo per aver osato attaccare il padrone di casa con impeto predicatorio, per la sua persecuzione ai danni di Lucia. Don Rodrigo sentirà il bisogno di sbarazzarsi della scomoda presenza del frate che considera un ostacolo ai suoi progetti, per cui farà in modo che il padre provinciale dei cappuccini lo trasferisca in un convento a Rimini, dove peraltro Cristoforo si recherà obbedendo senza discutere (e anche l'obbedienza era una caratteristica distintiva dei frati di quest'Ordine).
Altri cappuccini del romanzo sono personaggi di tempra assai diversa dal padre Cristoforo, come ad esempio fra Galdino (un cercatore laico che indossa la tonaca e vive nel convento di Pescarenico) che rappresenta l'umile e ingenuo fraticello, dotato di una fede candida e un po' naïf, nonché di un'indubbia vocazione alla narrazione di apologhi edificanti come quello del "miracolo delle noci": Galdino informerà Agnese della partenza di Cristoforo per Rimini (XVIII), e nel farlo rimarcherà il fatto che i cappuccini sono grandi predicatori, per cui non è strano che il padre sia stato mandato da un'altra parte ("Li cercan di qua, li cercan di là; e abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo"). Tuttavia Cristoforo a Rimini non resterà a lungo, poiché allo scoppiare della peste chiederà e otterrà di essere inviato a Milano per prendersi cura degli ammalati, ed è qui al lazzaretto che lo ritroverà Renzo (XXXV), intento ad accudire i moribondi (coi segni della malattia egli stesso), circondato da altri padri cappuccini che dimostrano, al pari di altri ecclesiastici, un coraggio e una dedizione davvero notevoli. Accanto a Cristoforo troviamo padre Vittore, un giovane cappuccino a cui l'anziano frate ha affidato le cure dell'agonizzante don Rodrigo, e soprattutto padre Felice, il cappuccino che governa il lazzaretto e che Renzo vedrà condurre alla quarantena i guariti dalla peste: il frate rivolgerà a questi ultimi una commossa predica (XXXVI) che non è solo un alto esempio di stile oratorio, ma un inno alla carità religiosa, un ringraziamento alla bontà divina che ha risparmiato le vite degli appestati, una richiesta di perdono ai malati per le eventuali manchevolezze che i frati possono aver commesso nel prendersi cura di loro. In padre Felice si compendiano mirabilmente tutte le qualità dei cappuccini che sono già presenti in Cristoforo, per cui si può dire che la sua figura spicchi su tutte quelle di ecclesiastici che nel lazzaretto suppliscono con la loro carità alle carenze del Tribunale di Sanità e alle autorità milanesi, prodigandosi senza risparmio per il bene altrui: del resto lo stesso padre Cristoforo aveva chiesto di esser mandato lì per "dar la sua vita per il prossimo", dunque non stupisce che la sua ultima apparizione nel romanzo coincida con la sua morte per la peste (XXXVII), allorché i padri cappuccini del lazzaretto danno questa triste notizia a Lucia (dunque si compie con la morte il percorso di espiazione e purificazione morale che aveva condotto Cristoforo a indossare la tonaca, destino del resto comune a tanti suoi confratelli in quelle tragiche circostanze).

Capitolo III
Lucia entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt’e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento, il quale non poteva essere che doloroso: tutt’e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con l’amore diverso che ognun d’essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di sentir parlare la figlia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. - A tua madre non dir niente d’una cosa simile!
- Ora vi dirò tutto, - rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule.
- Parla, parla! - Parlate, parlate! - gridarono a un tratto la madre e lo sposo.
- Santissima Vergine! - esclamò Lucia: - chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno! - E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d’un altro signore [1]; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell’altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s’eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l’altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. - Per grazia del cielo, - continuò Lucia, - quel giorno era l’ultimo della filanda. Io raccontai subito...
- A chi hai raccontato? - domandò Agnese, andando incontro, non senza un po’ di sdegno, al nome del confidente preferito.
- Al padre Cristoforo, in confessione, mamma, - rispose Lucia, con un accento soave di scusa. - Gli raccontai tutto, l’ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un’altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell’incontro, le strade mi facevan tanta paura...
Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d’Agnese si raddolcì. - Hai fatto bene, - disse, - ma perché non raccontar tutto anche a tua madre?
Lucia aveva avute due buone ragioni: l’una, di non contristare né spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l’altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, sul principiare, quell’abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima.
- E a voi, - disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avuto torto: - e a voi doveva io parlar di questo? Pur troppo lo sapete ora!
- E che t’ha detto il padre? - domandò Agnese.
- M’ha detto che cercassi d’affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai, - proseguì, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e arrossendo tutta, - fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s’era stabilito. Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata consigliata, e tenevo per certo... e questa mattina, ero tanto lontana da pensare... - Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto.
- Ah birbone! ah dannato! ah assassino! - gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello.
- Oh che imbroglio, per amor di Dio! - esclamava Agnese. Il giovine si fermò d’improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza mesta e rabbiosa, e disse: - questa è l’ultima che fa quell’assassino.
- Ah! no, Renzo, per amor del cielo! - gridò Lucia. - No, no, per amor del cielo! Il Signore c’è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?
- No, no, per amor del cielo! - ripeteva Agnese.
- Renzo, - disse Lucia, con un’aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: - voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più parlar di noi.
- Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede di stato libero? [2] Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora...!
Lucia si rimise a piangere; e tutt’e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de’ loro abiti.
- Sentite, figliuoli; date retta a me, - disse, dopo qualche momento, Agnese. - Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato... so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor... Come si chiama, ora? Oh to’! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia.
- Lo conosco di vista, - disse Renzo.
- Bene, - continuò Agnese: - quello è una cima d’uomo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno.
Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.
Giunto al borgo, domandò dell’abitazione del dottore; gli fu indicata, e v’andò. All’entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d’un signore e d’un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva: - date qui, e andate innanzi -. Renzo fece un grande inchino: il dottore l’accolse umanamente, con un - venite, figliuolo, - e lo fece entrar con sé nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari [3]; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all’intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s’alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta [4], con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’accartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt’anni addietro, per perorare, ne’ giorni d’apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d’importanza. Chiuse l’uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: - figliuolo, ditemi il vostro caso.
- Vorrei dirle una parola in confidenza.
- Son qui, - rispose il dottore: - parlate -. E s’accomodò sul seggiolone. Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva girar con l’altra, ricominciò: - vorrei sapere da lei che ha studiato...
- Ditemi il fatto come sta, - interruppe il dottore.
- Lei m’ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere...
- Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa.
- Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale.
"Ho capito", disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. "Ho capito". E subito si fece serio, ma d’una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. - Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e... appunto, in una dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano.
Così dicendo, s’alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio.
- Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza. Ah! ecco, ecco -. La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: - il 15 d’ottobre 1627! Sicuro; è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sapete leggere, figliuolo?
- Un pochino, signor dottore.
- Bene, venitemi dietro con l’occhio, e vedrete. E, tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand’espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno:
- Se bene, per la grida pubblicata d’ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall’lllustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli [5] tanto divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, eccetera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l’Eccell. Sua, eccetera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, eccetera, ha risoluto che si pubblichi la presente.
- E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l’esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville... sentite? di questo Stato, con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d’affitti... eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?
È il mio caso, - disse Renzo.
- Sentite, sentite, c’è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non si testifichi [6]; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello paghi un debito; quell’altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l’uficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh?
- Pare che abbian fatta la grida apposta per me.
- Eh? non è vero? sentite, sentite: et altre simili violenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Non se ne scappa: ci son tutti: è come la valle di Giosafat [7]. Sentite ora la pena. Tutte queste et altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte... una piccola bagattella! all’arbitrio dell’Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E questo ir-re-mis-si-bil-mente e con ogni rigore, eccetera. Ce n’è della roba, eh? E vedete qui le sottoscrizioni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in giù: Platonus; e qui ancora: Vidit Ferrer [8]: non ci manca niente.
Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l’occhio, cercando di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover esser il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si maravigliava. "Che sia matricolato [9] costui?", pensava tra sé. - Ah! ah! - gli disse poi: - vi siete però fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l’animo di fare, in un’occasione.
Per intender quest’uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che, a quel tempo, i bravi di mestiere, e i facinorosi d’ogni genere, usavan portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all’atto d’affrontar qualcheduno, ne’ casi in cui stimasser necessario di travisarsi, e l’impresa fosse di quelle, che richiedevano nello stesso tempo forza e prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d’inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all’arbitrio di Sua Eccellenza.
Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti imposta.
E parimente comanda a’ barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all’arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell’ordinario, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il ciuffo era dunque quasi una parte dell’armatura, e un distintivo de’ bravacci e degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel dialetto: e non ci sarà forse nessuno de’ nostri lettori milanesi, che non si rammenti d’aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è un ciuffo, è un ciuffetto.
- In verità, da povero figliuolo, - rispose Renzo, - io non ho mai portato ciuffo in vita mia.
- Non facciam niente, - rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. - Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli... Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina [10], c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: - oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! - esclamò il dottore, spalancando gli occhi. - Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, - e qui la voce di Renzo si commosse, - dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse... basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo...
- Eh via! - interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, - eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro...
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. - Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, - ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: - restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione.
Le donne, nella sua assenza, dopo essersi tristamente levate il vestito delle feste e messo quello del giorno di lavoro, si misero a consultar di nuovo, Lucia singhiozzando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato de’ grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse che bisognava veder d’aiutarsi in tutte le maniere; che il padre Cristoforo era uomo non solo da consigliare, ma da metter l’opera sua, quando si trattasse di sollevar poverelli; e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò ch’era accaduto. - Sicuro, - disse Agnese: e si diedero a cercare insieme la maniera; giacché andar esse al convento, distante di là forse due miglia, non se ne sentivano il coraggio, in quel giorno: e certo nessun uomo di giudizio gliene avrebbe dato il parere. Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si sentì un picchietto all’uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto - Deo gratias -. Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone l’imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto.
- Oh fra Galdino! - dissero le due donne.
- Il Signore sia con voi, - disse il frate. - Vengo alla cerca delle noci.
- Va’ a prender le noci per i padri, - disse Agnese. Lucia s’alzò, e s’avviò all’altra stanza, ma, prima d’entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito alla bocca, diede alla madre un’occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con supplicazione, e anche con una certa autorità.
Il cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: - e questo matrimonio? Si doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci fosse una novità. Cos’è stato?
- Il signor curato è ammalato, e bisogna differire, - rispose in fretta la donna. Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. - E come va la cerca? - soggiunse poi, per mutar discorso.
- Poco bene, buona donna, poco bene. Le son tutte qui -. E, così dicendo, si levò la bisaccia d’addosso, e la fece saltar tra le due mani. - Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte.
- Ma! le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s’ha a misurar il pane, non si può allargar la mano nel resto.
- E per far tornare il buon tempo, che rimedio c’è, la mia donna? L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt’anni sono, in quel nostro convento di Romagna?
- No, in verità; raccontatemelo un poco.
- Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. "Che fate voi a quella povera pianta?" domandò il padre Macario. "Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna". "Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie". Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada, "padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento". Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle [11]; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede... che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare [12], ci guadagnò; perché, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.
Qui ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggeva a fatica, tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allungate. Mentre fra Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne scioglieva la bocca, per introdurvi l’abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un’occhiata, che voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augùri, in promesse, in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s’avviava. Ma Lucia, richiamatolo, disse: - vorrei un servizio da voi; vorrei che diceste al padre Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia la carità di venir da noi poverette, subito subito; perché non possiamo andar noi alla chiesa.
- Non volete altro? Non passerà un’ora che il padre Cristoforo saprà il vostro desiderio.
- Mi fido.
- Non dubitate -. E così detto, se n’andò, un po’ più curvo e più contento, di quel che fosse venuto.
Al vedere che una povera ragazza mandava a chiamare, con tanta confidenza, il padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione, senza maraviglia e senza difficoltà, nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo [13]. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno; ma tale era la condizione de’ cappuccini, che nulla pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl’infimi, ed esser servito da’ potenti, entrar ne’ palazzi e ne’ tuguri, con lo stesso contegno d’umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder l’elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone, o in una brigata di ragazzacci che, fingendo d’esser alle mani tra loro, gl’inzaccherassero la barba di fango. La parola "frate" veniva, in que’ tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo: e i cappuccini, forse più d’ogni altr’ordine, eran oggetto de’ due opposti sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perché, non possedendo nulla, portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta professione d’umiltà, s’esponevan più da vicino alla venerazione e al vilipendio che queste cose possono attirare da’ diversi umori, e dal diverso pensare degli uomini.
Partito fra Galdino, - tutte quelle noci! - esclamò Agnese: - in quest’anno!
- Mamma, perdonatemi, - rispose Lucia; - ma, se avessimo fatta un’elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima d’aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente...
- Hai pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto, - disse Agnese, la quale, co’ suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza.
In questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto dispettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l’ultima trista vicenda delle povere bestie, per quel giorno.
- Bel parere che m’avete dato! - disse ad Agnese. - M’avete mandato da un buon galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli! - E raccontò il suo abboccamento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, voleva mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non doveva aver saputo far la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella questione, annunziando che sperava d’aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell’impiccio. - Ma, se il padre, - disse, - non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un modo o nell’altro.
Le donne consigliaron la pace, la pazienza, la prudenza. - Domani, - disse Lucia, - il padre Cristoforo verrà sicuramente; e vedrete che troverà qualche rimedio, di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno immaginare.
- Lo spero; - disse Renzo, - ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c’è giustizia finalmente.
Co’ dolorosi discorsi, e con le andate e venute che si son riferite, quel giorno era passato; e cominciava a imbrunire.
- Buona notte, - disse tristamente Lucia a Renzo, il quale non sapeva risolversi d’andarsene.
- Buona notte, - rispose Renzo, ancor più tristamente.
- Qualche santo ci aiuterà, - replicò Lucia: - usate prudenza, e rassegnatevi.
La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n’andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: - a questo mondo c’è giustizia, finalmente! - Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.


Note
Si tratta del conte Attilio, come verrà precisato nel cap. V.
Dichiarazione che non vi sono impedimenti canonici, dunque che i due fidanzati possono contrarre matrimonio.
Sono gli imperatori da Cesare a Domiziano.
Cuoio sconciato.
Sudditi.
Si rendano o meno testimonianze.
Era la valle biblica vicino Gerusalemme, dove (secondo la tradizione cristiana) si raccoglieranno tutte le anime risorte il Giorno del Giudizio Universale.
Antonio Ferrer, gran cancelliere spagnolo, apponeva il suo "visto" in fondo alle gride: Renzo se ne ricorderà nel cap. XIII, quando il funzionario giungerà a salvare il vicario di provvisione.
Un delinquente abituale, avvezzo al crimine.
Un ribelle, un uomo di carattere.
Farle cadere dai rami, scuotendoli con un lungo bastone.
Perderci, rimetterci.
Un frate di poco peso, di scarso valore.

fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-iii.html

← previous
next →
loading
sending ...
New to Neperos ? Sign Up for free
download Neperos App from Google Play
install Neperos as PWA

Let's discover also

Recent Articles

Recent Comments

Neperos cookies
This website uses cookies to store your preferences and improve the service. Cookies authorization will allow me and / or my partners to process personal data such as browsing behaviour.

By pressing OK you agree to the Terms of Service and acknowledge the Privacy Policy

By pressing REJECT you will be able to continue to use Neperos (like read articles or write comments) but some important cookies will not be set. This may affect certain features and functions of the platform.
OK
REJECT