L’avventura della Faccia Livida
Nel pubblicare queste brevi note sui numerosi casi in cui il mio bizzarro amico è stato coinvolto e che spesso mi hanno visto nel ruolo di spettatore, è naturale che dia la preferenza ai suoi successi piuttosto che ai fallimenti. E questo non per salvaguardarne la reputazione, visto che, proprio quando sembrava esaurita ogni risorsa, la sua energia e versatilità erano più ammirevoli che mai, ma perché là dove lui sbagliò, nessun altro mai riuscì e così la mia cronaca sarebbe rimasta senza una conclusione.
Qualche volta, comunque, accadde che la verità venisse a galla da sola. Ho annotato una mezza dozzina di casi del genere; l’avventura del Musgrave Ritual e questa che sto per raccontare sono le due che presentano maggiore interesse.
Sherlock Holmes era fondamentalmente pigro. Pochi uomini erano capaci come lui di grandi sforzi muscolari ed egli era sicuramente uno dei migliori pugnatori della sua categoria che mai abbia visto; ma considerava l’esercizio fisico come uno spreco di energie e a volte si muoveva solo quando c’era qualche dovere professionale da compiere. Mantenersi in perfetta forma in simili circostanze è una cosa notevole, ma bisogna considerare che la sua dieta era di solito molto frugale, e le sue abitudini semplici, al limite dell’austerità. Fumava, ecco, e molto a volte, ma più che altro per alleggerire la monotonia dell’esistenza quando i casi da risolvere erano rari e i giornali non riportavano nessuna notizia sensazionale.
Un giorno, all’inizio della primavera, per rilassarsi fece una passeggiata in mia compagnia nel parco che cominciava a risvegliarsi, a rinverdire, dopo il lungo letargo invernale. Per un paio d’ore vagammo fianco a fianco, quasi sempre in silenzio, come è naturale tra due persone che si conoscono profondamente. Quando tornammo in Baker Street erano quasi le cinque.
«Chiedo scusa, signore» disse il nostro domestico, aprendo la porta. «È venuto un signore a chiedere di voi.»
Holmes mi lanciò un’occhiata di rincrescimento.
«Non vorrei che questa passeggiata mi costasse un caso interessante.» Poi, rivolto al domestico, aggiunse: «Quel signore se n’è andato?»
«Sì.»
«Lo avevi fatto entrare?»
«Certo, signore.»
«Quanto a lungo si è fermato?»
«Mezz’ora circa. Era molto agitato, non ha fatto altro che camminare su e giù per
tutto il tempo. Io stavo fuori della porta e l’ho sentito distintamente. Alla fine è uscito nel corridoio e ha esclamato:
“Ma insomma, quest’uomo non arriva mai?”
“Aspettate ancora un poco” gli ho risposto.
“Allora lo aspetterò all’aria aperta perché qui mi sento soffocare” ha replicato lui. “Tornerò tra poco.”
E con questo è uscito. Non saprei dire da che parte si sia diretto.»
«Grazie, hai fatto del tuo meglio» così Holmes rassicurò il domestico mentre entravamo in salotto. «Però tutto questo è molto seccante, non trovate, Watson? Al momento ho proprio bisogno di occuparmi di qualcosa e l’impazienza di quell’uomo dimostra che avrebbe potuto trattarsi di un caso importante. Ehi, non è mia quella pipa sul tavolo! Deve avercela lasciata lo sconosciuto. Una magnifica, vecchia pipa di radica con un bel bocchino d’ambra. Mi chiedo quanti bocchini d’ambra autentica esistano a Londra. Bene, dev’essere stato molto sconvolto per dimenticare una pipa a cui evidentemente attribuisce grande valore.»
«Perché questa affermazione, Holmes?»
«Ecco: direi che il prezzo di questa pipa oscilli sui sei, sette pence. Ora, vedete, è stata riparata per ben due volte, una volta nel cannello di legno e una nel bocchino d’ambra; ciascuna riparazione è stata fatta con lamine d’argento che devono esser costate più della pipa stessa. L’uomo deve dunque valutarla molto, se preferisce farla rappezzare piuttosto che comprarne una nuova allo stesso prezzo.»
«Avete scoperto qualche altra cosa?» chiesi, perché Holmes continuava a girare la pipa tra le mani e la osservava, pensoso.
Lui la alzò, la picchiettò con le lunghe dita sottili.
«A volte le pipe sono straordinariamente interessanti» disse. «Niente ha più personalità di una pipa, salvo forse gli orologi e i lacci da stivali. Le indicazioni di questa, comunque, non sono né molto marcate né importanti. Il proprietario è certamente un uomo muscoloso, mancino, ha una dentatura eccellente, si veste senza troppa ricercatezza e non ha bisogno di fare economie.»
Il mio amico buttò là quelle informazioni in tono noncurante, ma sapevo che mi fissava per controllare se seguivo i suoi ragionamenti.
«Pensate che un uomo sia uno scialacquatore solo perché fuma una pipa da sette pence?» azzardai.
«Usa anche la miscela di tabacco Grosvenor che costa otto pence all’oncia» rispose Holmes, versandone un po’ dalla pipa sul palmo della mano. «Potrebbe averne di altrettanto buono a metà prezzo: perciò non bada a spese.»
«E gli altri punti?»
«Ha l’abitudine di accendere la pipa alla fiamma della lampada o al beccuccio del gas. Guardate, il fornello è del tutto carbonizzato da una parte. Naturalmente non può esser stato un fiammifero a ridurlo così. Perché un uomo terrebbe un fiammifero di lato per accendere la pipa? Ma non si può accenderla a una lampada o a un beccuccio senza bruciacchiare il fornello. E tutto questo sul lato sinistro della pipa. Dal che io deduco che quel tale sia mancino. Avvicinate la vostra alla lampada e vedrete che, essendo voi una persona che si serve della mano destra, è il lato destro che tenete sulla fiamma. Potete agire anche al contrario, ma non abitualmente. Questa pipa invece è sempre stata tenuta così. Per mordere così un bocchino d’ambra bisogna essere individui muscolosi, energici e con un’ottima dentatura. Ma, se non mi
sbaglio, ecco che il misterioso visitatore sta salendo le scale, così avremo qualcosa di più interessante della sua pipa per studiarlo a fondo.»
Un istante più tardi la porta si spalancò e un uomo alto e giovane entrò nella stanza. Era sobriamente vestito di grigio e teneva in mano un cappello floscio a tesa larga. Gli avrei dato una trentina d’anni, in seguito appresi che ne aveva qualcuno in più.
«Vi chiedo scusa» disse con aria imbarazzata. «Avrei dovuto bussare, certo, avrei proprio dovuto farlo. Il fatto è che sono piuttosto turbato.»
Si passò una mano sulla fronte come per schiarirsi le idee, poi piombò, più che sedersi, su una poltrona.
«Vedo che non dormite da una notte o due» notò Holmes facendo sfoggio della consueta acutezza. «L’insonnia rende un uomo più nervoso che non l’eccesso di lavoro o gli stravizi. Posso esservi utile in qualcosa?»
«Ho bisogno del vostro consiglio. Non so più dove sbattere la testa e mi sembra che tutta la mia vita sia andata in pezzi.»
«Intendete assumermi in qualità di investigatore consulente?»
«Non soltanto. Voglio la vostra opinione di uomo acuto ed esperto del mondo. Voglio sapere come comportarmi. E Dio voglia che possiate farlo.»
Parlava a scatti, lo sconosciuto, e mi sembra che confidarsi gli costasse un notevole sforzo d’ volontà.
«È una faccenda molto delicata» riprese. «Non fa piacere parlare delle proprie beghe domestiche a un estraneo, discutere la condotta della propria moglie con delle persone mai viste prima d’ora. È addirittura orribile ma non ne posso più e ho bisogno di un valido consiglio.»
«Mio caro signor Grant Munro...» cominciò Holmes.
Il nostro visitatore sobbalzò.
«Come!» esclamò. «Conoscete il mio nome?»
«Se desiderate mantenere l’incognito» replicò Holmes, sorridendo, «non dovreste
far scrivere il vostro nome sulla fodera del cappello, oppure tenere la calotta rivolta verso il vostro interlocutore. Stavo per dirvi che il mio amico e io abbiamo ascoltato una quantità di segreti singolari, in questa stanza, e che abbiamo avuto la fortuna di restituire la pace a molti animi turbati. Ora potreste, visto che il tempo sembra avere molta importanza, fornirmi i termini del caso senza tardare oltre?»
L’uomo si passò di nuovo la mano sulla fronte come se si trovasse ad affrontare un compito molto arduo. Da ogni suo gesto, dall’espressione del viso, si capiva che era una persona piuttosto chiusa, riservata, con una punta d’orgoglio nel carattere, più facile a nascondere le sue ferite che a esporle. Poi d’un tratto, con un gesto del pugno chiuso, come uno che rompe gli argini cominciò:
«I fatti sono questi, signor Holmes. Sono sposato da tre anni. In questo periodo mia moglie e io ci siamo amati profondamente e abbiamo condiviso tutto. Non c’era il minimo contrasto fra noi, né nei pensieri, né nelle parole né nelle azioni. E ora, da lunedì scorso, si è improvvisamente alzata una barriera: c’è qualcosa nella sua vita che mi sfugge. Ci siamo allontanati l’uno dall’altra e voglio sapere perché.
Ora c’è una cosa che devo ribadire prima di andare avanti, signor Holmes: Effie mi ama, su questo non c’è dubbio. Mi ama con tutta l’anima, non mi ha mai amato tanto,
lo so, lo sento. Su questo non intendo discutere. Un uomo capisce bene quando una donna lo ama. Ma ora c’è questo segreto fra noi e non saremo più gli stessi finché non sarà spazzato via.»
«Per favore, signor Munro, veniamo ai fatti» sollecitò Holmes con una certa impazienza.
«Vi dirò tutto quello che so di lei. Quando la incontrai per la prima volta era vedova, sebbene avesse solo venticinque anni. Il suo cognome era Hebron. Si era trasferita in America da giovanissima e viveva ad Atlanta dove aveva sposato un certo Hebron, un avvocato di buona fama. Aveva un figlio, ma morì di febbre gialla, e anche suo marito, quando scoppiò la tremenda epidemia. Ho visto il suo certificato di morte. Lei non volle più saperne dell’America e venne a vivere presso una zia nubile a Pinner, nel Middlesex. Suo marito l’aveva lasciata in ottime condizioni finanziarie, aveva un capitale di circa quattromilacinquecento sterline, così ben investite da darle un interesse del sette per cento. Era a Pinner solo da sei mesi quando ci incontrammo e ci innamorammo. Le nozze ebbero luogo poche settimane più tardi.
Io commercio in cereali e siccome ho un’entrata di sette, ottocento sterline annue, potevamo permetterci una vita piacevole e acquistammo una bella villetta a Norbury. Era un posto di campagna molto confortevole, considerando che è così vicino alla città. C’erano un albergo, il Crystal Palace e due case, a poca distanza da noi, e un cottage dall’altro lato del prato che si stende davanti alla villa. Salvo queste, non c’erano altre costruzioni fino a metà della strada che porta alla stazione.
I miei affari mi trattenevano a lungo in città durante certe stagioni, ma in estate facevo a meno di andarci e in campagna mia moglie e io eravamo felici quanto di più non si potrebbe desiderare. Ripeto che non c’è mai stata un’ombra fra noi finché non è cominciata questa storia maledetta.
C’è una cosa che devo dirvi prima di andare avanti. Quando ci sposammo, Effie trasferì a me tutte le sue proprietà, lo non volevo, perché se i miei affari fossero andati male anche il suo capitale sarebbe stato in pericolo, ma lei insisteva e così l’accontentai. Bene, qualche tempo fa venne nel mio studio.
“Jack” mi disse “quando hai preso in custodia il mio denaro hai affermato che, se ne rivolevo indietro una parte, non avrei avuto che da chiedertelo.”
“Certamente” risposi. “È tuo.”
“Ecco... voglio cento sterline.”
Rimasi piuttosto sconcertato davanti a quella richiesta rilevante; avevo pensato che
volesse semplicemente comprarsi qualche vestito nuovo o cose del genere, ma cento sterline...
“Per che cosa ti servono?” indagai.
“Oh” rispose lei con il consueto tono brioso, “tu hai detto che sei solo il mio banchiere, no? E i banchieri non fanno mai domande, lo sai.”
“Se proprio lo vuoi, avrai quel denaro” dissi. “Sì, ne ho davvero bisogno.”
“E non mi dici che cosa vuoi farne?”
“Un giorno, forse, Jack. Non ora.”
Dovetti accontentarmi di quella risposta anche se era la prima volta che un segreto si intrometteva tra noi. Le detti un assegno e non ci pensai più. Questo può non aver niente a che fare con quanto è successo in seguito, ma ho pensato che fosse giusto parlarne.
Vi ho già accennato che davanti a casa nostra c’è un cottage da cui ci divide solo un grande prato ma, per raggiungerlo, bisogna procedere lungo la strada e poi piegare per un viottolo. Subito oltre c’è un boschetto di abeti scozzesi e io spesso andavo a farci una passeggiata, gli alberi mi sono sempre piaciuti.
Il cottage era rimasto vuoto per otto mesi, un vero spreco perché era piacevole, con un portico all’antica tappezzato di caprifoglio, le linee architettoniche armoniose. Peccato che il tempo e l’incuria cominciassero a rovinarlo.
Lunedì scorso, di pomeriggio, stavo gironzolando da quelle parti quando lungo il viottolo incrociai un furgone vuoto che andava verso la città e vidi una pila di tappeti e altre suppellettili ammucchiate sul tratto erboso davanti al portico. Era chiaro che il cottage era stato affittato. Passai oltre, poi mi fermai e mi volsi a guardare, chiedendomi chi mai fossero i nostri nuovi vicini. Ed ecco... d’improvviso intravidi una faccia che mi stava osservando da una delle finestre del piano superiore.
Non so che cosa ci fosse in quella faccia, signor Holmes, ma sentii un brivido corrermi lungo la schiena. Era piuttosto lontana e non potei distinguerne i lineamenti, so soltanto che aveva qualcosa di inumano, di innaturale. Feci qualche passo avanti per osservare più da vicino la persona che mi stava spiando, ma d’un tratto la faccia disparve così improvvisamente che sembrò inghiottita dalle tenebre della stanza.
Rimasi a riflettere sull’accaduto, a cercare di analizzare le mie impressioni. Non potrei dire se si fosse trattato di un uomo o di una donna, ero troppo lontano per recepirlo, ma quel che più mi aveva impressionato erano i colori di quel viso di un pallore livido, gessoso, con qualcosa di rigido terribilmente innaturale. Ero così turbato che decisi di saperne di più sui nuovi inquilini del cottage. Mi avvicinai e bussai alla porta che venne immediatamente aperta da una donna alta e scarna dall’aria arcigna.
“In che cosa posso servirvi?” chiese con un marcato accento del nord.
“Sono il vostro vicino, abito laggiù” dissi, indicando la mia casa. “Vedo che siete appena arrivati e ho pensato che potrei esservi utile in qualche modo.”
“Se avremo bisogno, chiederemo” replicò seccamente la donna.
E mi chiuse la porta in faccia.
Seccato da quel rifiuto villano, tornai a casa; per tutta la sera, per quanto cercassi di
pensare ad altro, la mia mente tornava di continuo a quell’apparizione alla finestra e alla rudezza della donna. Decisi di non dir niente a mia moglie perché è una persona sensibile di nervi e non volevo condividere con lei la sgradevole impressione provata. Le feci notare, però, prima di addormentarci, che il cottage era di nuovo occupato.
Non ottenni risposta.
Io d’abitudine ho il sonno molto pesante. In famiglia mi prendevano in giro, dicevano che neanche un terremoto mi avrebbe svegliato. Quella notte, invece, fosse l’eccitamento prodotto dalla mia piccola avventura o non so che altro, dormii assai più leggero del solito. A un certo punto percepii confusamente che qualcuno si muoveva nella camera. Socchiusi gli occhi e mi accorsi che mia moglie stava
vestendosi, aveva già tirato fuori mantello e berretto. Ero sul punto di borbottare qualche rimostranza per una simile stranezza quando il mio sguardo si posò sul suo viso illuminato dalla luce della candela. Lo stupore mi ammutolì. Aveva un’espressione che non avevo mai visto prima e che mai avrei creduto potesse assumere; era mortalmente pallida e respirava con affanno; mentre indossava il mantello dette un’occhiata furtiva al letto per assicurarsi che non mi fossi svegliato. Poi, credendomi ancora immerso nel sonno, scivolò fuori della stanza e un istante dopo sentii un cigolio che proveniva dai cardini della porta d’ingresso.
Balzai a sedere sul letto e battei le nocche contro la testiera per accertarmi di essere davvero sveglio, poi presi l’orologio da sotto il cuscino: erano le tre del mattino. Quale ragione poteva avere mia moglie di uscire a quell’ora?
Rimasi seduto a riflettere per una ventina di minuti a cercare qualche spiegazione plausibile. Più pensavo, più incredibile e inesplicabile mi sembrava il comportamento di Effie. Stavo ancora scervellandomi quando sentii la porta aprirsi di nuovo, con precauzione, e passi leggeri su per le scale.
“Dove diavolo sei stata?” le chiesi non appena ebbe messo piede nella stanza.
Lei sussultò violentemente e lanciò un grido soffocato mentre le rivolgevo quella domanda. Quel grido mi colpì più di tutto il resto perché c’era in esso qualcosa di indescrivibilmente colpevole, così come il suo fermarsi di botto, impietrita.
Mia moglie è sempre stata una donna franca, aperta, e mi raggelò quel suo sgattaiolare nella camera e gridare di paura, e sussultare, solo perché suo marito le aveva rivolto la parola.
“Ah, sei sveglio, Jack?” disse con una risatina nervosa. “Credevo che niente e nessuno potesse scuoterti dal sonno.”
“Dove sei stata?” ripetei in tono più duro.
“Non c’è niente di cui sorprendersi” replicò lei, e mi accorsi che le tremavano le dita mentre allentava i nastri del mantello. “Be’, non ricordo di essermi mai comportata in questo modo in vita mia ma, sai, d’un tratto mi son sentita come soffocare, ho provato il bisogno di una boccata d’aria fresca. Credo che sarei svenuta se non fossi uscita all’aperto. Sono rimasta sulla porta per pochi minuti ed eccomi qua.”
Mentre parlava non mi aveva mai guardato in faccia e la sua voce aveva un tono forzato, diverso dal solito, che rivelava come in quel momento mentisse. Non replicai, volsi solo il viso verso la parete, con il cuore che mi doleva e la mente invasa da mille dubbi velenosi, da mille sospetti. Che cosa voleva nascondermi, mia moglie? Non avrei avuto pace finché non lo avessi scoperto, però non osavo fare altre domande dopo che lei aveva dichiarato il falso.
Per il resto della notte mi girai e rigirai nel letto, formulando un’infinità di teorie una più spiacevole dell’altra.
Dovevo andare nella City quel giorno, ma mi sentivo così turbato che non sarei stato in grado di dedicarmi agli affari. Mia moglie appariva sconvolta quanto me e certe sue occhiaie di sfuggita dimostravano che sapeva di non esser stata creduta. A colazione ci scambiammo a malapena qualche parola e subito dopo uscii per una passeggiata con la speranza che l’aria fresca del mattino mi schiarisse le idee.
Andai fino al Crystal Palace, passai un’ora tra i campi e tornai a Norbury all’una. Sulla via del ritorno mi accadde di passare davanti al cottage e mi fermai un istante a guardare le finestre nella speranza di intravedere di nuovo la strana faccia che mi era apparsa il giorno prima. Mentre ero là, con smarrimento e sorpresa, la porta si spalancò e ne uscì mia moglie. A quella vista ammutolii, ma le mie emozioni erano niente in confronto a quella che provò lei nel vedermi. Per un istante sembrò voler rientrare nel cottage, poi, comprendendo quanto inutile fosse, venne avanti con un sorriso forzato e gli occhi spaventati.
“Ah, Jack” disse “sono appena venuta a offrire la mia collaborazione ai nuovi vicini. Perché mi guardi in quel modo? Sei arrabbiato con me?”
“Così” sibilai tra i denti, “è qui che sei venuta la notte scorsa!”
“Che dici? Non capisco.”
“Sei stata qui, ne ho la certezza. Chi è quella gente a cui hai fatto visita a un’ora
simile?”
“Non sono mai stata al cottage prima d’ora, Jack.”
“Come puoi dire una simile bugia?” esplosi. “La tua voce cambia, quando menti.
Da quando noi due abbiamo dei segreti? Ora entrerò nel cottage e indagherò fino in fondo su questa storia.”
“No, no, per amore di Dio!” supplicò lei in preda a un’emozione indescrivibile. Poi, mentre mi avvicinavo alla porta, mi afferrò per la manica stringendomi convulsamente. “Ti imploro, non farlo” farfugliò. “Giuro che ti racconterò ogni cosa un giorno o l’altro, ma succederà qualcosa di terribile se vai là dentro adesso.”
Tentai di scrollarmela di dosso, ma lei non mollò la presa.
“Abbi fiducia in me, Jack!” gridò. “Solo per questa volta. Non hai mai avuto da lamentarti di me, sai che non manterrei un segreto se non fosse per il bene di entrambi. Ne va della nostra stessa vita, Jack. Se ti ostini a entrare in quel cottage, tutto è finito tra noi.”
C’era tanta disperazione, tanta sincerità, ora, nel suo comportamento, che mi fermai e rimasi davanti alla porta, esitando.
“Ti farò credito ma solo a una condizione” dissi dopo aver riflettuto un momento. “Che mettiamo una pietra sopra questo mistero. Tu sei libera di mantenere il segreto, ma devi promettermi che non farai mai più visite notturne al cottage né altre cose che finora hai cercato di nascondermi. Sono disposto a dimenticare il passato se mi assicuri che non ci sarà più niente di tutto questo nel nostro futuro.”
“Ero sicura che ti saresti fidato di me” esclamò Effie con un gran sospiro di sollievo. “Farò ciò che desideri. E ora allontaniamoci da qui, per favore.”
Ancora aggrappata alla mia manica, mi trascinò via. D’un tratto mi volsi indietro e... alla finestra del piano superiore c’era la faccia livida e immota che ci osservava. Quale collegamento poteva esserci tra quella creatura e mia moglie? E come poteva quella donna rozza e incivile che avevo visto il giorno prima, avere qualche rapporto con lei? Era un difficile enigma e nel mio intimo sapevo che non ci sarebbe stata pace per me finché non l’avessi risolto.
Per due giorni dopo l’accaduto restai a casa e mia moglie sembrò mantenere lealmente il nostro patto perché, per quanto ne so, non uscì mai. Il terzo giorno, però, ebbi la certezza che la sua promessa non era sufficiente per neutralizzare quella
segreta, malefica influenza che tendeva ad allontanarla da suo marito e dai suoi doveri.
Ero andato in città, quella mattina, ma ritornai con il treno delle 2,40 invece che con quello delle 3,36 che prendevo abitualmente. Non appena giunto nell’atrio, la cameriera personale di Effie mi accolse con una faccia allarmata.
“Dov’è la signora?” le chiesi.
“Credo sia andata a fare una passeggiata” rispose la ragazza, visibilmente imbarazzata.
Nella mia mente si annidò subito un sospetto. Salii al piano disopra per assicurarmi che Effie non fosse in casa. Mentre mi affacciavo alla finestra, vidi la cameriera con la quale avevo appena parlato correre attraverso il prato in direzione del cottage. Subito intuii che cosa significava quella corsa: mia moglie si era recata là e aveva chiesto alla cameriera di avvertirla se fossi rincasato in anticipo.
Fremente di rabbia, scesi dabbasso e percorsi il prato ben deciso a porre fine una volta per tutte a quella storia. Vidi mia moglie e la cameriera che si inoltravano frettolosamente lungo il viottolo, ma mi guardai bene dal raggiungerle. In quel cottage era nascosto un segreto che non avrebbe proiettato su di noi ancora a lungo la sua ombra cupa. Non bussai nemmeno alla porta, girai la maniglia e irruppi dentro.
Al pianterreno tutto era tranquillo; in cucina una pentola borbottava sul fuoco e un gatto nero se ne stava acciambellato dentro una cesta. Non c’era segno della donna che avevo visto giorni prima. Corsi nella stanza accanto: deserta! Allora salii al piano superiore e in cima alle scale trovai altre due stanze vuote. Non c’era anima viva in quella casa. Mobili e quadri erano di pessimo gusto, salvo quelli nella camera con la finestra a cui avevo visto affacciata quella strana faccia livida, eleganti e confortevoli.
I miei sospetti divamparono, ma il colpo peggiore lo ebbi nel vedere una copia di una fotografia di mia moglie, scattata su mia richiesta tre mesi prima.
Mi fermai abbastanza a lungo per avere l’assoluta certezza che la casa fosse completamente deserta, poi me ne andai con un tremendo peso sul cuore.
Trovai mia moglie nell’atrio quando entrai in casa, ma ero troppo addolorato e arrabbiato per parlarle e, spingendola da una parte, andai nel mio studio. Lei però mi seguì ed entrò prima che chiudessi la porta.
“Sono desolata di non aver mantenuto la promessa, Jack” mi disse, “ma se tu conoscessi le circostanze, sono sicura che mi perdoneresti.”
“Allora svelami tutto” le imposi.
“Non posso, Jack, non posso!”
“Finché non mi avrai detto quello che è successo nel cottage e chi è che ha preso
quella fotografia, non può esserci confidenza né fiducia tra noi” replicai.
E precipitosamente abbandonai la casa.
Questo è accaduto ieri, signor Holmes, e da allora non ho più rivisto Effie né
saputo altri particolari sulla misteriosa vicenda. È la prima volta, vi ripeto, che un’ombra si insinua tra noi e ne sono così scosso da non sapere come comportarmi.
Poi stamattina, come in un lampo, ho capito che voi eravate l’unica persona in grado di aiutarmi ed eccomi qui per mettermi incondizionatamente nelle vostre mani. Se c’è qualche punto che non ho chiarito a sufficienza, interrogatemi pure. Ma, per
carità, ditemi subito che cosa devo fare perché non sopporto più l’angoscia che mi attanaglia.»
Holmes e io avevamo ascoltato con il più profondo interesse quel racconto straordinario espresso in modo frammentario da un uomo che appariva sotto l’influenza di una terribile emozione. Il mio compagno rimase in silenzio per un po’, con il mento appoggiato alla mano, perso nei suoi pensieri. Finalmente si riscosse.
«Ditemi, signor Munro, potreste giurare che quella comparsa alla finestra era una faccia maschile?»
«L’ho vista sempre a distanza, non potrei pronunciarmi.»
«Sembra però che vi abbia impressionato in modo molto sgradevole, no?»
«Aveva un colore strano e una strana rigidità di lineamenti. Quando mi sono
avvicinato è scomparsa d’improvviso.»
«Quanto tempo fa vostra moglie vi chiese le cento sterline?»
«Circa due mesi orsono.»
«Avete mai visto una fotografia del suo defunto marito?»
«No. Ci fu un grande incendio ad Atlanta poco dopo la sua morte e tutte le carte
andarono distrutte.»
«Tuttavia vostra moglie era in possesso del certificato di morte.»
«Sì, ne fece fare un duplicato dopo l’incendio.»
«Vi siete mai incontrato con qualcuno che l’avesse conosciuta in America?»
«No.»
«Lei ha mai espresso il desiderio di tornare a rivedere quei luoghi?»
«No.»
«Grazie. Ora vorrei riflettere un poco su tutto quanto. Se il cottage è sempre
deserto, la faccenda si complicherebbe; se invece, come sono propenso a credere, gli inquilini sono stati messi in guardia dalla vostra visita e l’hanno lasciato prima che arrivaste, ieri, allora potrebbero essere tornati indietro. Non sarà difficile chiarire questo punto. Permettetemi di darvi un consiglio: tornate a Norbury ed esaminate di nuovo le finestre del cottage. Se avete ragione di credere che è abitato, non forzate gli avvenimenti e mandate un telegramma al mio amico e a me. Saremo al vostro fianco un’ora dopo averlo ricevuto e allora verremo a capo della matassa.»
«E se è ancora vuoto?»
«In tal caso verrò domattina e penseremo al da farsi. Arrivederci e, soprattutto, non logoratevi finché non saprete qual è stata veramente la causa di tutto.»
«Ho paura che si tratti di una brutta faccenda, Watson» commentò il mio amico dopo aver accompagnato il visitatore alla porta. «Voi che ne pensate?»
«A me sembra pericolosa» risposi.
«Sì. C’è sicuramente un ricattatore dietro tutto questo.»
«Chi?»
«La persona che vive nell’unica stanza confortevole del cottage e tiene la
fotografia di Effie sulla mensola del caminetto. Parola mia, Watson, c’è qualcosa che mi affascina in quella faccia livida alla finestra, altrimenti non avrei accettato questo caso.»
«Avete una teoria?»
«Certo; per ora è provvisoria ma non mi meraviglierei se si dimostrasse esatta. Nel cottage c’è il primo marito di quella donna.»
«Che cosa ve lo fa supporre?»
«Come si potrebbe spiegare altrimenti l’ansia parossistica di Effie Munro quando suo marito voleva entrare nel cottage? I fatti, a mio parere, si sono svolti più o meno in questo modo: lei si sposò in America. Suo marito rivelò qualità detestabili o contrasse qualche malattia ripugnante, divenne un imbecille o un lebbroso. Effie alla fine tornò in Inghilterra, cambiò nome e ricominciò la vita daccapo. Era stata sposata per tre anni soltanto e credeva di trovarsi in una posizione di assoluta sicurezza dopo aver mostrato a Munro il certificato di morte di qualcuno di cui aveva assunto il nome, quando d’improvviso i suoi maneggi sono stati scoperti dal primo marito o forse da qualche donna senza scrupoli che si era legata all’invalido. Hanno scritto a Effie minacciando di smascherarla, lei ha chiesto cento sterline e ha tentato di comprare il loro silenzio. Ha fallito e quei due si sono installati in segreto nel cottage per continuare a tormentarla da vicino. Quando Munro ha casualmente riferito alla moglie che erano arrivati dei nuovi vicini, lei ha subito intuito che si trattava dei suoi persecutori; ha atteso che il marito si addormentasse ed è corsa da loro per provare ancora una volta a dissuaderli. Non ha avuto successo, allora è tornata di nuovo la mattina seguente e suo marito l’ha incontrata, come ci ha riferito, mentre usciva dal cottage. Lei gli ha promesso di non tornarci più, ma due giorni dopo l’esigenza di sbarazzarsi dei pericolosi vicini si è fatta troppo forte e ha compiuto un ultimo tentativo, probabilmente portando con sé la fotografia che le era stata richiesta. Nel bel mezzo della discussione è arrivata la cameriera per avvertire che il padrone era tornato a casa in anticipo e la donna, consapevole che suo marito sarebbe certo venuto al cottage a cercarla, si è affrettata a spingere gli altri fuori dalla porta posteriore, verso il vicino boschetto di abeti. Per questo Munro ha trovato le stanze deserte. Sarei molto sorpreso, però, se lo fossero ancora quando andrà a fare la sua ispezione, stasera. Che ne dite Watson, della mia teoria?”
«Più che una teoria è una congettura.”
«Però include tutti i fatti. Se e quando ne verranno alla luce altri, contrastanti, solo allora sarà tempo di riconsiderare la faccenda globalmente; per ora non possiamo fare altro che aspettare il messaggio del nostro amico da Norbury.»
Non dovemmo attendere molto. Il telegramma ci giunse quando avevamo appena finito di prendere il tè. C’era scritto:
“Il cottage è ancora occupato. Ho visto di nuovo faccia livida alla finestra. Incontriamoci treno sette e mezzo. Non fate un passo prima mio arrivo.”
Munro ci stava aspettando sulla banchina quando scendemmo e alla luce dei lampioni notammo che era pallidissimo e che tremava per l’eccitazione.
«Sono ancora là, signor Holmes» disse, ponendo una mano sul braccio del mio amico. «Ho visto delle luci nel cottage mentre venivo qui. Gli salderemo il conto una volta per tutte.»
«Qual è il vostro piano?» chiese Holmes mentre ci avviavamo lungo la buia strada alberata.
«Intendo forzare l’ingresso e constatare di persona chi c’è là dentro. Vorrei che ambedue foste testimoni.»
«Siete proprio deciso a farlo, anche se vostra moglie afferma disperatamente che è meglio non sollevare il velo del mistero?»
«Decisissimo.»
«Penso che abbiate ragione. Qualsiasi verità è meglio del dubbio. Direi che possiamo andare subito al cottage. Naturalmente, da un punto di vista legale, il nostro è un comportamento del tutto errato, ma penso che ne valga la pena.»
Era una notte buia e mentre dalla strada principale sboccavamo in uno stretto viottolo pieno di avvallamenti e fiancheggiato da siepi, cominciò a cadere una pioggia sottile. Grant Munro camminava in fretta, impaziente, e noi arrancavamo alle sue calcagna.
«Quelle laggiù sono le luci della mia casa» mormorò, indicando un barlume tra gli alberi. «E qui accanto c’è il cottage dove intendo entrare.»
Girammo l’angolo del viottolo e vedemmo davanti a noi, vicinissima, la costruzione. Oltre la cancellata la porta non era del tutto chiusa e a una finestra al primo piano brillava una luce. Mentre guardavamo vidi che lassù si muoveva una forma scura.
«È quella la persona misteriosa!» gridò Grant Munro. «Avete visto che c’è qualcuno? Ora seguitemi e tra poco sapremo tutto.»
Ci avvicinammo alla porta; d’improvviso una donna si materializzò dal buio e si fermò nel chiarore dorato della lampada sopra la porta d’ingresso. Non potevo vederne la faccia che restava in ombra, ma le sue braccia erano protese come per impedirci di entrare.
«Per amore di Dio no, Jack!» gridò. «Avevo il presentimento che saresti venuto, stanotte. Torna sulle tue decisioni, mio caro. Ascoltami e ti giuro che non lo rimpiangerai.»
«Ho pazientato troppo a lungo, Effie» fu la dura risposta. «Lasciami entrare. I miei amici e io vogliamo veder chiaro in questa storia.»
E spinse da parte la moglie.
Mentre oltrepassava la porta, una donna anziana gli corse incontro e tentò di sbarrargli il passo, ma lui se ne liberò con un urtone e un istante dopo eravamo sulle scale. Grant Munro si diresse verso la stanza illuminata al primo piano ed entrò d’impeto. Noi lo seguivamo da vicino.
L’ambiente era confortevole, raffinato; due candele brillavano sul tavolo e altre due sulla credenza. In un angolo, china su uno sgabello, c’era una figuretta che ci sembrò quella di una bambina. Teneva il viso girato dall’altra parte quando entrammo, ma notammo che indossava un abito rosso e lunghi guanti bianchi. Mentre si voltava verso di noi non potei trattenere un’esclamazione di sorpresa e di orrore. La sua faccia ora in luce aveva una tinta livida, gessosa e i lineamenti erano del tutto privi di espressione.
Un istante più tardi il mistero era svelato. Holmes, con una risata, passò le dita dietro le orecchie della bambina, una maschera si staccò frantumandosi e comparve un visetto nero come il carbone, una chiostra di denti bianchissimi che scintillavano in un sorriso divertito davanti al nostro stupore. Esplosi anch’io in una risata, ma
Grant Munro rimase a guardarla con gli occhi sbarrati, una mano serrata intorno alla gola.
«Mio Dio!» balbettò. «Che significa tutto questo?»
«Te lo spiegherò io» replicò sua moglie irrompendo nella stanza con un’espressione indomabile sul volto. «Mi ci hai costretta, non hai ascoltato le mie suppliche e ora vuoi sapere tutto? E sia. Mio marito morì ad Atlanta. Mia figlia sopravvisse.»
«Tua figlia?»
La donna sfilò dalla scollatura un grande medaglione d’argento.
«Tu non l’hai mai visto aperto, vero?» chiese.
«Non sapevo neanche che si aprisse.»
Lei toccò una molla e il coperchio scattò. All’interno c’era il ritratto di un uomo
molto bello, dall’aria intelligente ma i cui lineamenti e il colore della pelle dimostravano senza ombra di dubbio la sua appartenenza alla razza negra.
«Questo è John Hebron di Atlanta» disse la donna. «L’uomo più nobile che mai sia esistito sulla terra. Ho tagliato i ponti con tutti i bianchi per sposarlo, ma mai una volta, finché è vissuto, me ne sono pentita. Sfortunatamente nostra figlia prese più da lui che da me, succede spesso nei matrimoni misti e la piccola Lucy è più nera di quanto lo fosse suo padre. Ma, nera o bianca, era la mia adorata bambina.»
A quelle parole la piccola si alzò e corse a nascondersi tra le gonne della madre.
«Lasciammo l’America» riprese Effie Munro «solo perché il suo stato di salute non era buono e un cambiamento di clima e d’ambiente poteva giovarle. La affidai a una fedele governante scozzese che era già stata prima al mio servizio. Neanche per un attimo ho pensato di ripudiare mia figlia, ma quando il caso ti portò sulla mia strada, Jack, e ci innamorammo, non osai parlarti di lei; temevo di perderti, che Dio mi perdoni, e mi mancò il coraggio di svelarti il mio segreto. Dovevo fare una scelta e nella mia debolezza allontanai la piccola.
Per tre anni ho mantenuto segreta la sua esistenza, ma avevo sue notizie dalla governante e sapevo che tutto andava per il meglio. A un certo punto, però, provai il desiderio irresistibile di rivederla ancora una volta. Lottai, invano. Sapevo che era pericoloso, ma ero decisa a riavere la piccola, non fosse che per poche settimane.
Mandai cento sterline alla governante e le ordinai di affittare il cottage in modo da aver vicina Lucy senza che apparisse nessun collegamento con lei. Presi una quantità di precauzioni: mia figlia non doveva mai uscire di giorno e le sue mani e il visetto dovevano essere sempre coperti in modo che, se qualcuno l’avesse vista alla finestra, non avrebbe spettegolato sul fatto che nei dintorni c’era una negretta. Sarebbe stato meglio non usare tutte queste cautele, ma quasi impazzivo al pensiero che tu, Jack, potessi intuire la verità.
Fosti tu a dirmi per primo che il cottage era di nuovo affittato, quella sera. Avrei voluto aspettare per avvertire la governante di raddoppiare le precauzioni, ma l’eccitazione non mi lasciava dormire, così alla fine scivolai fuori, contando sul tuo sonno pesante. Ma tu mi vedesti uscire e cominciarono i guai. Il giorno seguente sapevi che ti nascondevo un segreto e nobilmente ti rifiutasti di profittare di quel vantaggio. Tre giorni più tardi, però, la governante e la bambina fuggirono appena in
tempo dalla porta sul retro mentre tu irrompevi da quella principale. E ora stasera che finalmente sai tutto ti chiedo: che cosa ne sarà, di mia figlia e me?»
Effie giunse le mani, in attesa di una risposta.
Ci volle qualche istante prima che Munro si decidesse a rompere il silenzio e quando lo fece, pronunciò delle parole che ricordo con commozione.
«Parleremo con più calma a casa» disse. «Non sono un uomo buono, Effie, ma diventerò migliore ora che me ne dai la possibilità.»
Holmes e io li accompagnammo fino al viottolo e mentre camminavamo dietro di loro mi tirò per la manica.
«Credo che ormai siamo più utili a Londra che non qui a Norbury» disse.
Non aggiunse una parola sulla vicenda finché a notte tarda, rientrati in Baker Street, non prese la candela per avviarsi a letto.
«Watson, amico mio, se qualche volta vi sembrerà che sia un po’ troppo sicuro di me e delle mie capacità, se vedrete che mi sto affannando su un caso più di quanto meriti, sussurratemi all’orecchio la parola “Norbury”. Ve ne sarò infinitamente grato.»