Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo
Vita e opere
Salvatore Quasimodo nasce il 20 Agosto del 1901 a Modica, in provincia di Ragusa.
Figlio di un ferroviere, vive la sua prima infanzia nelle piccole stazioni della Sicilia (Roccalumera, Gela, Acquaviva, Trabia) e frequenta le prime classi a Gela. Nel 1908 Gaetano Quasimodo, padre di Salvatore, viene trasferito alla stazione di Messina con tutta la famiglia, che è costretta a vivere provvisoriamente in un carro merci fermo su un binario morto della stazione.
Il primo fatto importante nella vita del Quasimodo avviene il 28 Dicembre di quest’anno, col terremoto di Messina: le prime immagini di cui il poeta ha memoria sono case distrutte, morti, fucilazioni, e scosse sismiche.
Mentre frequenta l’Istituto Tecnico, nel 1917 fonda con amici una rivista letteraria dal pomposo titolo “Il Nuovo Giornale Letterario”, e su questo mensile pubblica le sue prime composizioni; altre vengono stampate qua e là in giornali e pubblicazioni locali.
Nei suoi primi testi lirici, che inizia a scrivere nel 1916, prevale l’influenza dannunziana e pascoliana, manca una voce autentica e riconoscibile, il linguaggio e i temi risultano derivati, un po’ scolastici, legati cioè ad una imitazione anche inconscia, frutto evidente di ammirazione e studio.
Nello stesso anno il poeta si iscrive al Politecnico di Roma e si stabilisce in questa città. Gli anni romani per il poeta sono i più oscuri, soprattutto per la ricerca di un lavoro amato e non subito per vivere, anche se le condizioni economiche erano molto precarie.
Dopo aver fatto vari lavori, finalmente nel 1926 Quasimodo viene assunto come “Geometra Straordinario” dal Ministro dei Lavori Pubblici, e assegnato al genio civile di Reggio Calabria. Prende servizio il 10 Giugno.
Nel 1929 Quasimodo va a Firenze, su invito di Ezio Vittorini che lo introduce nell’ambiente letterario. Infatti entra in contatto con gli amici dell’attivissima rivista “Solaria”, una delle più importanti riviste letterarie dell’epoca, con un atteggiamento libero ed europeo nei confronti della letteratura, estranea all’atmosfera provinciale e nazionalistica favorita ed imposta dal dominante regime fascista. Sempre a Firenze conosce Montale e Manzini, e potè iniziare una lunga collaborazione a riviste d’avanguardia, che si estese successivamente a “Circoli”, “L’Italia Letteraria”, ….
Un anno dopo escono, sul numero di marzo della rivista “Solaria”, tre poesie di Quasimodo e poco dopo Acque e Terre, la prima raccolta di poesie che suscita grande interesse critico.
L’anno successivo il poeta viene trasferito al Genio Civile di Imperia. Comincia a partecipare a una nuova rivista “Circoli” con degli amici Liguri.
Nel 1932 pubblica, per la rivista “Circoli”, Oboe Sommerso. Gli viene assegnato il premio dell’Antico Fattore, a Firenze, per la poesia Odore di eucalyptus e altre.
Nel 1934, dopo una breve parentesi in Sardegna, Quasimodo ottiene il trasferimento al Genio Civile di Milano, ma è presto distaccato in Valtellina. Iniziano le amicizie milanesi con scrittori, critici, pittori, …
Due anni dopo Quasimodo pubblica, con prefazione di Sergio Solmi, le opere Erato e Apollion.
Lascia dopo dodici anni il Genio Civile e nel 1938 comincia a lavorare come segretario di Zavattini, in una attività editoriale. Anche se il lavoro inizialmente è modesto, Quasimodo è ormai lanciato sul piano letterario.Licenziato per attività antifascista dalla casa editrice Mondadori, proprietaria della rivista “Tempo”, è considerato uno dei capi dell’ermetismo insieme ad Ungaretti e Montale, ed era al centro della polemica assidua e spietata da parte della stampa italiana e governativa.
Traduce i Lirici Greci, che escono per le edizioni della rivista “Corrente”.
Nel 1941 ottiene per chiara fama la cattedra di Letteratura italiana presso il Conservatorio di musica G.Verdi di Milano. Per le edizioni Primi Piani esce il volume antologico Poesie con prefazione di Oreste Macri. Collabora a “Letteratura” e l’anno seguente pubblica nello Specchio Ed è subito sera, antologia che subirà in seguito pochissimi ritocchi esteriori. Si iscrive al P.C.I., nel quale milita per poco tempo: la sua adesione è viscerale, più emotiva che altro. L’individualismo tipico del poeta lo rende sostanzialmente restio ad accettare regole di qualsiasi genere. Quasimodo resta sempre un uomo di Sinistra legato al comunismo come etica dell’uomo nuovo del domani, dell’uomo da creare. Collabora al quotidiano Milano-Sera.
Pubblica nei Quaderni di Costume, Con il piede straniero sul cuore, nucleo principale di Giorno dopo giorno (1946), che uscirà l’anno dopo e pubblica La vita non è sogno nel 1949.
Era il 1953 quando ricevette insieme al poeta inglese Dylan Thomas, il premio Etna-Taormina.
Nel 1956 pubblica Il falso e vero verde e due anni dopo La terra Impareggiabile, libro per il quale gli viene assegnato il premio “Viareggio”. In seguito il poeta parte in U.R.S.S., dove viene colpito da un infarto: la degenza all’ospedale Botkin di Mosca, si protrarrà fino alla primavera del 1959.
Il 10 Dicembre 1959 riceve il Premio Nobel per la letteratura dalle mani del Re di Svezia. Ciò suscitò commenti e reazioni sia in Italia che all’Estero. Quasimodo aveva già acquistato una grande fama e le sue opere erano state tradotte in lingue straniere.
Nonostante la sua notorietà in Italia e all’Estero, alla notizia dell’assegnazione del Nobel il mondo letterario si divise, e Quasimodo fu amareggiato da talune reazioni e, come aveva fatto negli ultimi tempi, si chiuse sempre più nel lavoro, ricevendo pochi amici, studenti e giovani poeti.
Nel 1960 viene pubblicata la raccolta degli scritti critici, letterari, ecc. di Quasimodo: Il poeta e il politico e altri saggi.
All’università di Messina gli viene conferita la laurea honoris causa e nel 1965 pubblica Dare e Avere.
Muore nel 1968 a Napoli, dove era stato trasportato con mezzi di fortuna.
Opere
1930 Acque e terre
1931 Oboe sommerso
1936 Erato e Apollion
1936-1942 Nuove poesie (1942; confluite nello stesso anno nel volume Ed è subito sera)
1944 Lirici greci
1947 Giorno dopo giorno
1949 La vita non è sogno
1949-1955 Falso e vero verde
1961 Una serie di scritti sul teatro apparsi originariamente in "Omnibus" e "Il Tempo" e poi parzialmente raccolti in volume
1967 Il poeta e il politico
Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la letteratura nel 1959, fu tra i maggiori esponenti dell'ermetismo, movimento che, in opposizione al dannunzianesimo degli imitatori e al simbolismo pascoliano, si rivolgeva a una poetica evocativa e allusiva, vicina a quella di Mallarmé e Valéry.
È impossibile definire, sia pure sommariamente, il profilo della poesia e della personalità di S. Quasimodo senza evocare la storia della poesia italiana contemporanea: tanto strettamente intrecciate esse appaiono, tanto precisa e puntuale è la rispondenza tra i vari momenti di questa e il senso dell’evoluzione subita da quella.
Quando, durante la guerra, fu pubblicato “Ed è subito sera”, il volume che riuniva tutta l’opera poetica di Quasimodo sino al 1942, volgeva al termine (ma forse sarebbe più esatto dire che toccava il punto estremo della sua estensione) quel movimento di poesia e di critica che fu detto “Ermetismo”.
Non è certo facile dire in poche parole che cosa fu l’Ermetismo, nel quale non mancano punti di contatto col movimento surrealista europeo e ai cui risultati e tendenze molti rimproverarono, in seguito, un’eccessiva oscurità e un puntiglioso isolamento dalle ragioni immediate della vita e della storia. Certo è che intorno all’ermetismo agirono (come precursori o come attori o come “compagni di strada”) la maggior parte dei poeti più importanti del ‘900 italiano, oltre a qualche critico fra i più autorevoli e sottili.
Il ruolo di Quasimodo in questa vicenda è di primo piano, anche se non è facile decidere se egli sia stato davvero un iniziatore o addirittura l’ ”inventore” dell’ermetismo.
Nelle pagine di “Ed è subito sera” accade di cogliere qua e là anche alcune reminiscenze di poeti contemporanei. Queste reminescenze, tuttavia, sono più sensibili sul piano della tematica, d’intonazione religioso-esistenziale, che sul piano della forma, dove Quasimodo ha senza dubbio sviluppato, sin dall’inizio, una linea e una esperienza autonome. Proprio nel senso della forma, dello stile e del “gusto” poetico va cercata, in un primo tempo, la vera fonte della sua fama e le ragioni della enorme influenza di Quasimodo sui poeti Italiani delle generazioni successive.
Nel 1944 usciva l’edizione definitiva della traduzione di Quasimodo dei “Lirici Greci”. Non si esagera affermando che l’importanza, la forza esemplificativa e formativa di questo volume fu pari a quella di “Ed è subito sera”: ciò starebbe a convalidare che l’influenza della lirica di Quasimodo si è esercitata per un lungo periodo come un magistero di stile. Non vi è, si può dire, un solo poeta italiano fra i trenta e i cinquanta anni che non abbia subito la suggestione della sintassi, del lessico, della metrica di Quasimodo e non ne mostri, nelle proprie opere, la traccia. Le raccolte poetiche di Quasimodo uscite dopo la guerra (“Giorno dopo giorno” del 1946, “La vita non è un sogno”, “Il falso e Vero Verde”, “La terra Impareggiabile”) ci mostrano un Quasimodo in un teso diagramma di rinnovamento, se non addirittura di reazione polemica, rispetto alla poesia italiana degli anni ’30 e, dunque, in un certo senso, alla sua stessa poesia quale risulta da “Ed è subito sera”. A contatto con le prove del dolore, del martirio, della lotta partigiana, la poesia di Quasimodo si volge verso una maggiore concretezza espressiva, verso una più forte evidenza, all'interno del dettato poetico, dei temi ideali e delle figure della realtà.
”Giorno dopo giorno” contiene le poesie più drammatiche di questa nuova fase della poesia di Quasimodo e certo alcuni dei risultati più alti della sua intera storia.
Anche negli ultimi anni, dopo l’assegnazione nel 1959 del premio Nobel per la letteratura, Quasimodo ha continuato a svolgere la sua straordinaria attività di traduttore, interessandosi in modo particolare del teatro di Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare (aveva già tradotto Ovidio, Catullo, Virgilio e Omero) e di alcuni poeti contemporanei come E. Pound ed E. E. Cummings. I risultati di questo recente lavoro sono, ancora una volta, di una resa qualitativa assoluta. Le traduzioni di Quasimodo vanno dunque al di là di un significato di mediazione fra culture e mondi poetici diversi; entrano, con la sua opera originale, nella storia e nel tessuto della poesia italiana di questo secolo e contribuiscono in modo decisivo a formare gli strumenti e a tracciarne i contorni.
Mito e Antimito
Il percorso poetico di Quasimodo si apre con la raccolta “Acque e Terre” che può essere considerata una originaria e mitica iniziazione del poeta. Qui possiamo identificare un mito originario: quello della solitudine dell’uomo, della sofferenza di esistere. Non interviene nessuna consolazione: la natura è silenzio ed assenza, segno di morte, simbolo della condizione umana desolata. Anche l’amore è “fatica”, infatti anche l’essere in due non risolve le contraddizioni dell’esistenza, ad eccezione di una: quella di non vedere la vita se non in termini di morte. Il dolore di vivere è silenziosa ricerca di qualcosa che in fondo non ha nome, che non ricerca mai una conferma esterna, che non avrà altro sfogo se non la parola stessa, la parola poetica come una compagna o uno “schermo alla tristezza”.
Le cose che danno dolore Quasimodo le conoscerà in seguito: il giovane che scrive “Acque e Terre” e poi “Oboe Sommerso” ha dalla sua parte il tempo, la dolcezza di sentirsi vivo, il ricordo recente dell’infanzia perduta. Partendo da quelle che il giovane poeta sente come “macerie” psicologiche ed esistenziali il sentimento della solitudine si fa canto e monodia. E’ la lirica che percorre il cammino più difficile: quello del linguaggio metaforico che ricorre alle più lontane analogie fra le cose, i sentimenti
Il Naturalismo che permaneva in Acque e Terre viene eliminato in Oboe Sommerso: il verso si articola in organizzazioni verbali allusive, in parole rese allusive da una eccezionale abilità verbale e ritmica. Questo tracciare un linguaggio assoluto e perfetto rientra nel quadro della poetica dell’Ermetismo che Quasimodo contribuisce a creare o a stabilizzare. Il suo ermetismo verrà identificato con la poetica della parola che diviene assoluta.
Si tratta in definitiva di un formalismo che spiega con due dati.
1- il dato storico: il fascismo che non consente voci libere;
2- la componente personale: il carattere chiuso del poeta siciliano, il suo cercare una propria voce.
Questo mito dell’Io si può definire come un canto individuale, messo in risalto dalla sua vocalità. La sua poesia si inserisce nel filone della cosiddetta Poesia Pura.
Il mito della solitudine viene smosso dalla Resistenza, dalla guerra. Si affaccia alla poesia successiva con lo stesso rigore formale, ma cominciando ad “aprire” la sintassi, ad usare parole consuete e rivolgere domande non più solo a se stesso, ma a tutti gli uomini. Si può riscontrare questa nuova presenza umana nell’ultima parte di “Ed è subito sera” e nelle “Nuove Poesie”. Qui il poeta avanza nuove ipotesi sull’uomo; entrano in gioco i luoghi geografici, la natura, una Sicilia non più mito ma luogo geografico, storico e sociale, che alcuni anni dopo diventerà a sua volta simbolo del dolore e della miseria del mondo. Nella poesia di “Giorno dopo Giorno” e dei libri seguenti al mito della solitudine si sostituisce come un antimito il senso universale dell’uomo, un valore morale e civile, una aspirazione ad un mondo trasformato e ad una vita vivibile, in cui il singolo possa riconoscersi nella società, integro e soprattutto psicologicamente, politicamente, socialmente libero.
Con la “Terra Impareggiabile” e soprattutto con “Dare e Avere” il poeta ricostituisce in parte una certa metafisica dell’io, ma si tratterà anche di una conseguenza della disillusione seguita alle grandi speranze del 1945.
Il nuovo ripiegamento su di sé che conclude l’opera Quasimodiana, non è assoluto ne imprevisto: infatti continua la polemica sociale e la protesta ideologica contro l’esistenza e contro la società.
Etica ed Ideologia
L’evoluzione di Quasimodo è dunque dall’ ”Io” al “Noi”. Di fronte alla dura realtà matura lentamente nel poeta la determinazione di una poesia diversa che unisca canto e comunicazione per tutti. Il poeta metteva a punto una ideologia dell’uomo che era un vero e proprio sistema “Antropocentrico”, ossia un sistema che vedeva in ogni caso l’uomo al centro del mondo. L’antropocentrismo di Quasimodo si sviluppa già, in nome dell’io individuale, nelle prime poesie; passato poi all’epica del noi, ne accentuava il motivo umanitario: il termine uomo un tempo designava il singolo, ora invece l’umanità, ancora sola e sofferente al centro dell’universo. Il sistema antropocentrico di Quasimodo diventa presto una sorta di profetiamo illuministico. Il poeta crede nella possibilità di modificare l’uomo e l sua storia e quindi le condizioni di vita sulla terra. E’ una illusione alla quale tutti gli uomini usciti dal quarantacinque credono e che darà luogo poi alle crisi di coscienza e alle disillusioni.
Linguaggio
Nel corso della produzione poetica, Quasimodo trasferisce il canto dal monologo lirico al dialogo drammatico. Il cosiddetto vocalismo puro, l’evocazione musicale di sentimenti, di emozioni e di quei fatti interiori che costituiscono il mondo astratto delle percezioni, viene espresso dal poeta in forme da prima ancora legate a una parvenza di natura, quindi in forme sempre più distaccate ed “assenti” dal reale esterno. Nella sua prima poesia quasi non esiste sintassi, la semplificazione del periodo è estrema; il monologo lirico si evolve in musica. In seguito si nota l’uso del verso più lungo oltre le undici sillabe che modifica la parte fonica della poesia; il suo ritmo lento crea premessa di tragedia e di tensione. Più avanti il verso si scinderà ancora diventando più elastico e duttile di fronte alle esigenze poetiche che corrispondono a problemi della realtà e a una visione complessa del mondo. Anche sul piano lessicale dalle parole colte ed antiche è passato ad una depurazione dei termini che si basa sempre più sulla lingua comune. Da qui passa, secondo la necessità dei propri temi a mimare i livelli di linguaggio che gli servono. La perfezione raggiunta è coscienza del linguaggio e dello stile che si trasferisce logicamente in ogni ricerca di nuovo linguaggio. Quando dalla musica del monologo lirico il poeta passa al dialogo drammatico e alla forma epico-lirica utilizza tutte le risorse stilistiche che le precedenti esperienze gli consentivano.
Il Nord e il Sud
Quasimodo rimarrà legato in modo particolare alla Sicilia della sua infanzia e alla Milano della sua maturità. I due luoghi sono opposti, non solo dal punto di vista geografico ma anche e soprattutto come presenze poetiche. La Sicilia è una presenza mitica costante nella poesia quasimodiana: è mito, infanzia, memoria autobiografica. In seguito l’immagine dell’isola si modifica e diventa un semplice luogo geografico: ne sono spia gli accenni innumerevoli alla gente dell’isola, alle sue montagne, ai fiumi, ai paesi……
Di qui alla situazione attuale, alla miseria, alla malaria, al sottosviluppo che Quasimodo lamenta e canta in varie poesie del dopoguerra. Ma la Sicilia esprime anche una altra verità, si carica di significati, diventa simbolo della condizione umana collettiva, universale.
La Milano che conosce agli inizi, verso il 1936-38, è quella dei caffè, delle nottate, delle discussioni con gli intellettuali…. Si instaura così un altro tempo reale e mitico che dovrà rimpiangere più tardi. Infatti con la guerra Milano subisce la trasformazione della violenza, che ne rende irriconoscibile il volto umano. Per contrapposto, si risveglia in essa il più vivo senso di umanità, la solidarietà, la partecipazione totale del popolo. Diventa il simbolo di tutto un popolo in lotta.
Poi nel dopoguerra la città diventa il simbolo di una eterna lotta dell’uomo in ogni tempo. Con gli anni e con l’evoluzione industriale, la città diventa vertice del triangolo produttivo del Nord, centro del capitalismo e pronta a seguirne tutti gli irrazionali sviluppi.
Il poeta vede ora in Milano il simbolo del nuovo male del mondo.
La Religione
Nel tema della religione vanno inquadrati i motivi quasimodiani dell’inquietudine, del non sentirsi in armonia con il mondo, della ricerca di consolazione nell’amore, del desiderio di annullamento della morte. Per cercare di dimenticare le inquietudini della vita quotidiana, l’uomo secondo quasimodo cerca rifugio e consolazione nel presente, cioè l’amore, e nel futuro, cioè la morte.
Dunque la religione del poeta si identifica in una incessante e sofferta ricerca di verità, nel bisogno di un Dio che non è generico e astratto, ma che si incarna nella storia.
Quasimodo non ha fede sincera, conquistata, ma la travagliata e umanissima ansia religiosa di Leopardi e di Pascoli. Quasimodo rifiuta ogni schematizzazione religiosa, una religione “ufficiale”. E’ riluttante a sottomettersi a un credo religioso codificato e sistemato anche se non riesce a rinunciare alla mitologia biblica e cristiana tradizionale, appresa dall’educazione familiare.
Siamo in presenza di un concetto laico: secondo la parola dello stesso Quasimodo, ogni idea di Dio parte dalla condizione storica di esistenziale dell’uomo, perciò il voler giungere a Dio attraverso “l’intelligenza laica” non è peccato come vuol far credere il “potere religioso”, che esercita la sua forza sugli umili, e non sulle coscienze.
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Questi versi denunciano la condizione di solitudine e di incomunicabilità dell’uomo sul pianeta Terra, efficacemente espressa da quei termini martellanti che indicano appunto solitudine, esclusione, non comunione: ognuno, solo. Il destino comune a tutte le creature è quello di stare radicate sulla crosta terrestre, sul cuor della terra, nel deserto del mondo. La condizione umana si illumina d’un tratto di un rapido bagliore di luce e di eterno, come se la solitudine si animasse per un attimo di una partecipazione alla vita, di una illusione o di una speranza di vita destinata subito a spegnersi, con la stessa rapidità con la quale era nata nell’uomo, per farlo ricadere nel buio ancora più profondo, preda di una legge impietosa che lo condanna a morte: “Ed è subito sera”.
L’impressione ultima che i versi lasciano sul lettore è certamente di una acuta tristezza per la fugacità della vita; tuttavia l’uomo sente di non poter e di non saper respingere la vita, e si ritrova aggrappato a quel raggio di sole, che simboleggia la speranza per l’uomo.
Questa lirica è l’esempio più tipico di ermetismo nella poesia Quasimodiana che qui raggiunge il massimo di concentrazione del concetto e della parola.
Lamento per il sud
La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve…
il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altopiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, è stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
E questa sera carica di inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.
Il poeta torna col pensiero alla sua isola e prova due sentimenti tra loro discordanti: dolce nostalgia della sua bellezza naturale e aspra protesta delle sue condizioni sociali.
La lirica inizia con la descrizione di una normale sera di Milano: una luna rossastra e non limpida come è nei cieli del Sud, un vento gelido, la presenza della donna amata, dai capelli e dai lineamenti decisamente nordici, e poi tanta neve; tutto ciò ricorda al poeta che i suoi affetti e la sua vita sono ormai in quella pianura padana dove egli vive da molti anni, presso quei fiumi e quei laghi, su cui le nebbie distendono un velo grigio.
Per quella pianura e per quei fiumi egli ha dimenticato i luoghi e le cose della sua terra, a cui torna ora con un vivo senso di nostalgia: il mare della Sicilia, il suono profondo della conchiglia soffiata dai pastori per richiamare il gregge, e per alleviare la solitudine dei lunghi giorni di guardia ai pascoli montani, le nenie lunghe dei carrettieri sulle strade polverose, dove le stoppie bruciando avvolgono nel fumo il carrubo, che appare tremolante al suo sguardo, il passaggio alto nel cielo, sui verdi altopiani, delle gru e degli aironi migratori.
Ma l’uomo non potrà mai dimenticare la patria che egli ha avuto in dono dalla sorte e la invocherà sempre, perciò il poeta soffre al pensiero che nessuno potrà più ricondurlo nella sua terra natale.
Nella seconda parte della lirica, alla nostalgia, segue la protesta per le condizioni di abbandono in cui versa il Sud; esso è stanco di vivere in condizioni malsane per la malaria, che da millenni miete vittime, stanco di essere trascurato dal circolo delle attività culturali ed economiche della nazione, stanco di servitù politiche e sociali, stanco di imprecare contro tutte le crudeli dominazioni di ogni tempo, le cui minacce di morte si sono ripercosse nell’eco dei pozzi dell’isola, e i cui governi hanno succhiato ogni sostanza vitale.
Perché il Sud ha un desiderio esasperato di libertà, e anche le generazioni che oggi si affacciano alla vita cercano, come sempre, la libertà nella natura e non nella vita sociale e organizzata dei grandi agglomerati urbani, tornano a pascolare il bestiame sui monti, a domare puledri sotto un cielo splendente di stelle, nelle limpide notti del Sud, a nutrirsi di fiori e di frutti selvatici lungo i sentieri dei campi ancora insanguinati, come sempre per le guerre e per il brigantaggio. In questo infelice paese, il poeta, vorrebbe tuttavia tornare, ma nessuno potrà più riportarvelo.
Meglio dunque sfogare alla donna amata questo contrasto di dolci nostalgie dell’animo, questo lamento di amore deluso, e dimenticare esternandolo.
Alla nuova Luna
In principio Dio creò il cielo
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i suoi luminari in cielo
e al settimo giorno si riposò.
Dopo miliardi di anni l’uomo
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte d’ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.
Questa lirica è tratta dalla raccolta “La Terra Impareggiabile” scritta tra il 1955 e il 1958.
Il componimento fu ispirato dal lancio del primo satellite terrestre, lo Sputnik sovietico, nell’ottobre del 1957, e suscitò forti polemiche ancora una volta circa la nuova poetica Quasimodiana e il rapporto poesia-scienza; si fecero pure numerosi riferimenti a poesie del passato, in particolare all’ “Ode al Signor di Montgolfier” del Monti, l’esempio più illustre in questo senso.
Si parlò anche di intenzioni politiche di Quasimodo, ma il poeta affermò categoricamente di non aver voluto celebrale “l’ordigno russo in sé”, ma “quella nuova Luna creata dal genio degli uomini con l’aiuto di Dio”, simbolo dell’avvento di una nuova civiltà che dovrebbe nascere dalla conquista atomica e concludere l’attesa sempre sentita di un “giusto tempo umano” in cui la scienza e la nuova fede dell’umanità porteranno al progresso (e non più alla distruzione) di tutti gli uomini della Terra, di qualsiasi nazionalità.
La poesia si vuole tenere su un piano di solennità biblica e di epica civile, e in genere vi riesce: per essa Quasimodo fu conosciuto all’estero come “Il poeta dello Sputnik”.
La nascita del primo satellite terrestre, secondo il poeta, segna la tappa nel processo di creazione universale iniziato da Dio miliardi di anni fa: da prima Dio creò il cielo e la terra, poi quando egli volle, mise in cielo le stelle luminose, e nel settimo giorno – secondo il racconto biblico – si riposò. La sua opera è stata ripresa dopo numerosissimi secoli dall’uomo, che rappresenta l’espressione più alta della creazione divina, perché fatto a immagine e somiglianza di Dio: l’uomo infaticabile, con la sua ragione esatta e volta alla conoscenza e al dominio del suo mondo, senza alcun timore superstizioso, ha posto altre stelle luminose nel firmamento sereno di una notte d’ottobre, simili a quelle che ruotano eterne fin dalla creazione del mondo: questo è stato fatto dall’uomo con l’aiuto del padre; e così sia.