Giuseppe Dessì
Giuseppe Dessì
Tema centrale dei romanzi di Dessì è la vita familiare raffigurata sotto molti aspetti e rivissuta nella memoria.
Nato a Cagliari il 7/08/1909, Giuseppe Dessì trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza a Villacidro.
A questa piccola comunità, si sentiva legato in modo indissolubile, tanto da ambientarvi quasi tutte le sue opere e in modo particolare la sua opera maggiore che gli varrà il premio Strega:”PAESE D'OMBRE”.
Di tale microcosmo (Villacidro) aveva una conoscenza profonda anche quando lasciò per sempre la Sardegna, trasferendosi prima a Pisa e poi a Ferrara, infine a Roma.
Al suo paese, rimase sempre fedele, non solo per ragioni affettive ma perché riteneva che tutto ciò che accadeva rispecchiasse una condizione umana esemplare, ma la civiltà contadina di cui si fece portavoce era ormai in crisi: i segni di questa decadenza si avvertono chiaramente nei suoi romanzi e nei racconti.
L'equilibrio si spezza quando quel mondo incompatibile - che per Dessì non conosce né evoluzione né cambiamenti - si scontra con la storia europea.
Guerre, sconvolgimenti politici e innovazioni venute dall'esterno inclinano un assetto che aveva resistito per secoli.
In “PAESE D'OMBRE" a proposito della legge delle chiudende, testualmente scriverà che “questa famigerata legge sovvertiva un ordine durato da secoli nell'isola”.
Ma il tracollo si manifestò soprattutto nel romanzo “lL DISERTORE": il dramma della protagonista Mariangela Eca nasce infatti dalla dissoluzione della sua famiglia dovuta a eventi bellici (1° GUERRA MONDIALE) che la donna sente remoti e ostili.
Ma la formazione di Dessì non trae alimento solo dalla formazione contadina.
Un ruolo importante lo svolge la cultura europea e la città di Cagliari dove incontra Delio Cantimori, Claudio Varese e soprattutto Emilio Lussu che tanto influenzarono nelle sue scelte letterarie e politiche.
Il soggiorno nel capoluogo non gli ispirò solo pagine autobiografiche.
In quel grande affresco che è “PAESE D'OMBRE” (il più ambizioso dei suoi romanzi e quello di maggior fortuna editoriale) il protagonista Angelo Uras compie un viaggio a Cagliari e il narratore tratteggia con molteplici dettagli questa città cercando di coglierne lo spirito.
Per lui il capoluogo sardo e gli abitanti avvertono quasi un senso di estraneità e di distacco dalle popolazioni dell'interno.
Un aspetto importante della sua produzione narrativa è la precisione.
Egli mira alla realizzazione di un disegno esatto nel descrivere ambienti, tecniche di lavoro, prassi Comunitarie.
L'impiego di vocaboli appartenenti al gergo agricolo o pastorale non è una semplice reminescenza (ricordo) verista.
Il DISERTORE e la prima guerra mondiale
La grande guerra - come ha scritto lo storico inglese Paul Fussel - è parte essenziale e fondente della memoria moderna scritta e orale, fotografica, cinematografica e soprattutto letteraria.
Non segna infatti solo la fine della vecchia Europa con il controllo dei tre grandi imperi multinazionali: l'Ottomano (turco), l'Asburgico e quello Zarista, ma pose le premesse per l'affermazione di terribili esperimenti sociali e politici: il Fascismo, il Nazismo e il Comunismo autoritario.
Di questa guerra Dessì nel “DISERTORE” (1961) affronta certo la tematica della diserzione, ma soprattutto il rifiuto e l'orrore della guerra stessa da parte del protagonista dopo la morte del fratello al fronte, l'uccisione del proprio capitano, il ritorno clandestino nell'isola e il suo silenzioso consumarsi in uno stazzo di montagna ammalato di malaria, assistito dal parroco e dalla povera madre, che con un'inconscia volontà di provocazione offre un forte contributo assolutamente sproporzionato alle sue misere disponibilità, per l'erezione di un grande monumento ai caduti del paese.
La Sardegna pagherà più di tutte le altre regioni italiane in quella guerra, in termini di morti, mutilati, feriti.
Le fonti ufficiali assegnarono alla Sardegna 13602 caduti, cioè 138,6 morti su ogni 1000 sardi chiamati alle armi, una cifra di gran lunga supere ore alla media nazionale che è di 104,9 morti su
1000.
PAESE D'OMBRE
La storia d'Italia e la storia della Sardegna: dalla legge delle chiudende (1820) alla strage di Buggerru.
Editto delle chiudende.
"La nuova legge riconosceva il diritto di proprietà della terra a chiunque avesse chiuso un appezzamento con siepi o muri, e così chi poteva spendere era diventato proprietario, mentre i pastori che non avevano altro che un branco affamato, si erano dovuti indebitare per pagare il prezzo esoso dei pascoli imposto dai nuovi padroni". Cifrato a pag. 10 dei libro PAESE D'OMBRE.
La legge delle chiudende venne promulgata nel 1820 da Vittorio Emanuele I e con questa viene introdotta la proprietà privata in Sardegna ed abolito lo sfruttamento comunitario delle terre.
Infatti sino ad allora, i terreni comunitari erano "proprietà collettiva" e venivano distribuiti ogni anno secondo le necessità dei contadini e pastori, secondo un sistema di rotazione tra pascoli e semina.
Con l'emanazione di questa legge, dice il Dessì "si sovvertiva un ordine che durava in Sardegna da secoli" e si pone fine all'antico sistema comunitario sardo.
Il fatto più grave però, "l'inganno" è che i beneficiari della legge non diventarono coloro che effettivamente lavoravano le terre, i pastori che pascolavano o i carbonai che facevano il carbone a
legna, ma quei sardi privilegiati, nobili, ufficiali, magistrati, preti, che si trovavano alla corte dei Savoia.
In forza di questa legge chiunque recintasse i terreni comunali ne diventava automaticamente proprietario; quindi i pastori che non possedevano altro che un branco affamato si erano dovuti indebitare per pagare il prezzo esoso degli affitti imposti dai nuovi proprietari.
Chi si ribellava veniva impiccato, secondo l'uso nella piazza principale e lasciato appeso tre giorni in modo che tutti potessero vederlo bene:" ma il povero Mummìa fu lasciato lì appeso alla forca per tre giorni, come ordinava la sentenza e così tutti lo videro, gli uomini che tornavano da lavoro, le donne che andavano ad attingere acqua alla fontana e i bambini della scuola". Cifrato a pag 12
UNITA’ D'ITALIA
Con la proclamazione del regno d'Italia la situazione non cambia, la Sardegna viene considerata ancora terra da sfruttare, e i sardi sudditi.
Continua la colonizzazione e lo sfruttamento, i soprusi aumentano.
Sembra che la Sardegna sia la regione che ha risentito in maniera maggiore dell'unità e lo si evince dalla politica fiscale adottata dal nuovo governo:"la legge del 4 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di 5 milioni in tutta la penisola e di questa oltre la metà furono caricate sulla Sardegna per cui l'isola si vide triplicare di colpo le tasse”.
Vi fu inoltre la guerra delle tariffe con la Francia (1887) causata dalla politica Crispina, che privò l'isola dei mercati tradizionali facendone entrare in crisi l'economia, così i piccoli proprietari terrieri e braccianti, lasciarono le campagne riversandosi sul bacino minerario dell'Iglesiente o emigrando in cerca di fortuna fuori dalla Sardegna.
L'eccessivo riversamento della popolazione nei bacini minerari dell'Iglesiente, si può ben capire, portarono conseguenze disastrose alla popolazione stessa: lavoro eccessivo e mal retribuito, mancanza di generi di 1° necessità, mancanza di servizi igienico - sanitari, che portarono allo sciopero di Buggerru, divenuto tristemente famoso come l'eccidio di Buggerru, che colpì vivamente l'opinione pubblica e che causò il primo sciopero generale nella storia d'Italia.
STRAGE DI BUGGERRU
"I sassi ormai cadevano fitti quando qualcuno, rimasto sempre sconosciuto diede un ordine secco ed energico che i soldati eseguirono automaticamente.
Come un solo uomo si fermarono, puntarono a terra il calcio dei fucili, innestarono le baionette poi con un gesto rapido, sicuro, fecero scorrere il carrello di caricamento, misero la pallottola in canna.
Più tardi durante l'inchiesta risultò che i fucili avevano sparati da soli e che le autorità ignoravano che i soldati avessero le giberne piene di cartucce, ma Felice Lettera vide chiaramente il gesto del Soldato che aveva di fronte, poi il buio”.. Cifratopag.312.
"Il silenzio di Buggerru, dopo la strage, in quel triste pomeriggio di settembre era il simbolo del silenzio di tutta l'isola nella compagine nazionale.
La notizia della strage rimbalzò ". Cifrato pag 313.
Il Dissipamento ecologico
Inizia con la consegna forzata di ingenti quantitativi di legna pretesa dal Re sabaudo.
Nel 1740 il Re aveva concesso al nobile svedese Carlo Gustavo Mandel il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi in cambio di un’esigua percentuale (2%) sul minerale raffinato.
Ma le concessioni non si limitarono solo allo sfruttamento per 30 anni delle miniere bensì anche delle foreste circostanti dalle quali veniva ricavata la legna necessaria alle fonderie.
Lo “scempio”, dopo la scadenza del contratto trentennale di Mandel, continua.
Non appena le miniere e le fonderie passano sotto la diretta gestione del governo regio, la situazione peggiora.
I governi piemontesi non erano interessati alla salvaguardia delle foreste sarde, lo si comprende dalle dichiarazioni che Dessì fa attraverso alcuni suoi personaggi ad es.: “Ora non solo venivano abbattuti alberi secolari, ma si tagliavano anche le piante di corbezzolo, di lentischio, di salice, senza rispettare neppure gli olivastri”.
O ancora : “Ora le sorgenti ai piedi dei monti che sovrastano il paese s’erano impoverite sino al totale esaurimento da quando le fornaci avevano divorato i boschi. . . . . Angelo sapeva che cono la loro distruzione era cresciuto il periodo delle alluvioni”.
A proposito dell’industrializzazione, Dessì afferma : ”Queste miniere sono sempre state la disgrazia della Sardegna perché attirano i forestieri con le prospettive di facile ricchezze e non sono di nessuna utilità ai sardi. Senza miniere avremo ancora le nostre foreste”.
IL PAESAGGIO E LA NATURA
Le aperture sul paesaggio sardo costituiscono la parte lirico-soggettiva, privata da ogni opzione folcloristica che può colpire lo “straniero“ ma non è l’essenziale della Sardegna ma solo la “forma” o il “colore”.
La natura in particolare viene resa quasi “umana”.
Così è ripugnante per Angelo, il protagonista della vicenda, pensare che gli alberi di Balenotti, unico podere che lui e Sofia accettano di ereditare, vengono abbattuti (“. . . quegli alberi di cui lui percepiva il silenzio”), alberi che gli appartengono come se fossero una cosa “viva”; dotata di un’anima.
Accanto alla natura vegetale, troviamo quella animale.
Bestie quasi parlanti come il cavallo Zurito e come la cagnetta Carignosa, quest’ultima destinata a morire con una consapevolezza quasi umana , straziante.
IL LINGUAGGIO
Dessì dimostra di conoscere l’arte di essere essenziale : lui semplifica, non sintetizza.
Il disprezzo per la retorica, la penetrazione psicologica, la descrizione dei personaggi, dell’ambiente e dei paesaggi, la discorsività, sono le caratteristiche principali del linguaggio che fanno del romanzo di Giuseppe Dessì un racconto vivo, lineare e avvincente.
Ci sono, nel linguaggio di Dessì, alcuni termini preziosi e in particolare in ”Paese d’Ombre” possiamo trovare parole “antiche” che si trovano nel romanzo, ormai in disuso sia nel linguaggio parlato sia nella costruzione di un testo letterario, che danno l’idea del grado di raffinatezza raggiunto dalla scrittura di Dessì e che allo stesso tempo, servono a catalogare tutta una serie di cose che l’abitudine al moderno ha cancellato.
Eccone alcuni esempi:
Accestito (grano che matura)
L’andatura a passo d’ambio (passo breve affrettato del cavallo Zurito)
I buboli (sonagli al collo di Zurito)
Cacchettico (viso di Sofia quando si ammala di cancro)
Chioccolio (fischiare di un merlo)
La fusciacca (è la fascia colorata che i boscaioli si legano alla vita).
Il romanzo è un’unica e compiuta riflessione sulla Sardità, su quel particolare modo di essere che impone il continuo confronto tra l’interno e l’esterno, tra il presente e il passato.
Il protagonista principale, Angelo Uras, deve alla fine constatare il suoi sostanziale fallimento, o il suo successo parziale, in quanto limitato alla sfera materiale perché è riuscito a far costruire un lavatoio e una pineta ma sa che non può modificare le connotazioni del cuore umano, smuoverlo dagli atteggiamenti che i secoli hanno costruito e solidificato.
Una società che non ha nulla a che fare con i preti, costruttori di utopie o con coloro che vorrebbero creare un destino migliore per l’uomo.
In questo romanzo sono i pastori ed i contadini dimenticati dalla storia, dalle onorificenze, ad essere protagonisti, non compare in primo piano l’autorità governativa e il Vicerè bensì l’avvocato Antioco Loru, il professore Antonio Todde, Don Francesco Fulgheri che aveva un modo di pensare “così moderno da essere considerato rivoluzionario”. Rif. A pag 164 del libro Paese d’Ombre.
Il sentimento che ispirò Dessì a scrivere questo romanzo è ricco di vagheggiamento, di un ambiente naturale proprio e incontaminato dove nessun toscano ha mai messo piede.
In esso c’è la memoria storica, l’orgoglio che deriva dal sentirsi eredi di gente che ha tenuto testa ai romani.
DESSì E IL CINEMA
Dall’approccio al cinema di Dessì nasce la figura di Giovannino, un bambino isolano che prende coscienza della sua emarginazione umana, della sua condizione di emigrato, della sua situazione di escluso e si ribella con l’arte della fantasia rincorrendo con lo sguardo un aereo che lo porta lontano, verso la terra madre dei lunghi silenzi, da pensare ed esplorare usando le parole della prima infanzia felice.
Questo contatto intenso con il cinema, seppure breve, avvenne agli inizi degli anni 60 anche se, tempo addietro, lo scrittore avrebbe voluto per la sua “Eleonora d’Arborea” una rappresentazione cinematografica (che non realizzò mai) con protagonista la grande attrice svedese Ingrid Bergaman e Amedeo Nazzari.
Giuseppe Dessì entrò nel set cinematografico molto tempo dopo per un corto metraggio diretto da Massimo Mida, per il quale lo scritto non inventò un soggetto ma raccontò le vicissitudini di un piccolo immigrato sardo a Roma: sembra una favola, ma era una storia vera, una storia dell’emigrazione.
Questa, brevemente è ispirata alle vicende del figlio di un emigrato di Tissi il quale, a differenza degli altri bambini che riuscirono a superare l’ostacolo della miseria e della arretratezza culturale, non riesce ad andare oltre positivamente al passaggio dalla civiltà pastorale a quella dei consumi.
Nel fondo della dimensione interiore di Giovannino, quel bimbo sardignolo e taciturno dagli occhi intensi e tristissimi, c’è sempre e soltanto il ricordo e il desiderio della propria terra e delle proprie radici umane.
Ma egli non è un bimbo triste,”è solo un bambino diverso dagli altri coetanei romani: è un sardo, un emigrato che si porta dietro la solitudine e il silenzio della sua isola”.
La storia di Giovannino, che mischiava al suo possesso originario della lingua sarda, una scarsa conoscenza di romanesco, solo 30 parole imparate per strada, da solo, facendo il suo lavoro di posteggiatore, dimostra come afferma il Dessì stesso che l’isolamento dei sardi non è che una questione di linguaggio.
“parliamo una lingua diversa. Non un dialetto italiano, ma una lingua a sé, che esprime un mondo a sé, lontano e diverso”.
Ricordiamo inoltre, il 7–8 /10/1988, la partecipazione al “Festival del Cinema di Venezia” de “Il Disertore” prodotto da Giuliana Berlinguer.
DESSì E IL TEATRO
Dessì preferisce definire “Racconti Drammatici” quelli che sono lavori di teatro.
Rimane il fatto che lavori come “la giustizia” o “Eleonora d’Arborea” appartengono, per la loro natura al teatro e come tali devono essere giudicati.
In un articolo apparso in “Figaro” nel marzo del ’59, Dessì inizia la storia del “Lungo viaggio del copione verso la scena”.
Si tratta de “La Giustizia”, il suo primo dramma che, radiotrasmesso in Italia nel ’58, aveva conosciuto un buon successo all’estero tradotto da David Paul per la “BBC” di Londra.
Successivamente apparve sulle scene “La Ginestra” nel ’59 al teatro stabile di Torino, Dessì viene salutato come “Uomo di teatro” con la rappresentazione de “la Giustizia” e premiato con il premio Saint Vincent e il “Nettuno d’Oro”.
“La Giustizia” è una inchiesta giudiziaria condotta da un giovane giudice per appurare la verità su un omicidio commesso 15 anni prima; consente all’autore di dimostrare quanto il problema della giustizia sia lontano dall’essere risolto in Sardegna.
Dessì quindi rappresenta la fiducia dei sardi nella giustizia ufficiale e insieme il profondo fatalismo con cui affrontano gli avvenimenti.
Insieme a “La Giustizia” viene pubblicato un altro racconto drammatico dal titolo “Qui non c’è guerra” cronaca di un piccolo paese della Sardegna quando nel ‘44 l’isola era già libera dai tedeschi e dove emergono le conseguenze della guerra e la stipulazione della pace.
Il secondo canale televisivo venne inaugurato con un atto unico di Dessì, “La Trincea”, dove l’autore si è servito dei racconti del padre sulla “Grande Guerra” (decisioni di ufficiali, vita nelle trincee dei soldati italiani.. . . ).
L’ultimo dei racconti drammatici di Dessì è “Eleonora d’Arborea”, racconto drammatico, come gli
altri ma di intonazione etico-lirica, che non vuole essere una ricostruzione storica o peggio una elaborazione patriottica, ma vuole interpretare un atto, un ambiente, un momento della storia della
Sardegna per trarne elementi che valgono a darci una rappresentazione della mentalità e del carattere degli isolani.
“Eleonora d’Arborea” è la rievocazione storica di un episodio della lotta del popolo sardo contro i conquistatori Aragonesi che si sono stanziati sull’isola con l’aiuto di Pisani e Genovesi.
Siamo alla fine del XIV° secolo e il giudice Ugone d’Arborea viene ucciso dagli Aragonesi; gli succede la sorella Eleonora che è decisa a portare l’isola all’indipendenza, si batte contro gli Aragona dedicando alla battaglia tutta la sua vita pur di alleviare le sofferenze del suo popolo.
Nel teatro come nelle narrativa, Dessì ha imboccato la via del recupero temporale che non è vera ricostruzione storica, né idilliaca della memoria ma è la dimensione nuova, quella della perfetta maturità dello scrittore.